Sta cercando da giorni l’interprete giusta e non riesce a pensare ad altro. Non sente rumori, ignora le persone che gli stanno intorno e non si cura neppure di se stesso.
I momenti di pausa li passa fissando il pulviscolo che si solleva dal palco e assume contorni magici illuminato dai riflettori. E’ sicuro che sotto quelle luci apparirà come per incanto la donna perfetta. L’ha sempre trovata, spettacolo dopo spettacolo. A volte si trattava di un’attrice già famosa, più spesso di una debuttante: gli piace plasmare talenti acerbi.
Le assistenti spostano le sedie, riordinano gli abiti appesi agli stand, sistemano le rose rosse di fianco alla buca del suggeritore. Gli inservienti stanno finendo le pulizie, muovendo di malavoglia la scopa con pigri slalom fra le poltrone.
Inizia un’altra giornata di estenuanti provini e l’impazienza avvelena l’aria.
Finora nessuna l’ha colpito, nessuna poteva essere Stella. Vuole una ragazza in grado di impossessarsi di quel ruolo. E di innamorarsene, assieme a lui. Di fronte a un testo tanto conosciuto è necessario reinventare per sorprendere. Vuol fare di Stella la protagonista di “Un tram che si chiama Desiderio”, mettendo in secondo piano Kowalski. Ha passato l’ultimo anno ad affinare la commedia di Tennessee Williams, a modificare le battute, a rendere Stella più forte per farla diventare il perno della vicenda: è lei l’artefice dei destini di Stanley e di Blanche. La “sua” Stella si lascia alle spalle la guerra e la sottomissione, certa che le donne diventeranno il compasso per misurare il futuro. La immagina in bilico fra determinazione e fragilità, sensuale senza provocazione, con una bellezza da scoprire poco per volta.
Nel teatro entra la prima ragazza della giornata, l’ennesima di un’infinita sequela di volti e corpi che non hanno lasciato tracce.
Il Maestro si scuote dal torpore e la osserva. Carina, come molte. Aggraziata, come alcune. Lieve e con lo sguardo appannato da una malinconia antica che le conferisce qualcosa di speciale. Cammina veloce, impacchettata in una teoria di canottierine, maglie e magliette sovrapposte, indossate su una gonnellina a corolla, in un tripudio di blu, azzurri, verdi e viola. I capelli biondi ondeggiano al ritmo dei passi, spargendo attorno un sapore di miele. Si siede composta e sgrana gli occhi chiari, con le mani in grembo. “Buongiorno”, dice il Maestro. “Buongiorno”, risponde lei con la voce roca di chi ha dormito poco e fumato troppo, anche se l’immagine di una notte di alcol, bagordi e musica contrasta con la pulizia dei suoi modi.
Dice di aver preparato un dialogo da Cechov.
“Lasciamo stare Cechov: voglio sapere di te. Apri la tua borsa e racconta. Raccontati”.
Lei si china con grazia, prende lo zainetto rosso da terra, lo appoggia sulle ginocchia e tira la lampo: estrae una pochette in stoffa indiana e la apre.
“Se mi chiedessero di che cosa non posso fare a meno, risponderei il burro cacao”, esordisce, passandosi sulla bocca il rossetto incolore che ha preso dalla bustina. “Mi piace avere le labbra morbide. Le ho delicate e si screpolano per il vento, per il sole, quando sono nervosa. Ma non è per questo che non posso farne a meno: è il suo profumo a emozionarmi. Mi ricorda gli anni in cui la mamma mi accompagnava all’asilo. Le correvo appresso, perché eravamo sempre in ritardo. Attraversavamo il parco e costeggiavamo un breve tratto di fiume. Quando il rumore dell’acqua si faceva più forte, chissà perché sempre in quel preciso istante, si fermava, cercava il burro cacao e me lo metteva sulle labbra. Risentire questo profumo mi fa stare bene, torno bambina e come allora so che non mi potrà accadere nulla di male finché qualcuno si prende cura delle mie labbra”.
Gioca con lo stick, prima di riporlo nel beauty, estraendone il mascara. “Lo uso poco. Perché non ho mai voglia di struccarmi la sera e non mi piace ritrovarmi la mattina con gli occhi pesti, come un’attrice del cinema muto”.
Sorride, guarda il Maestro e lascia che il silenzio renda l’aria densa di attesa. “Uso poco il mascara, ma lo porto sempre con me. La mamma diceva che con gli occhi si racconta l’anima e allora in certi momenti è meglio incorniciarli”. La bustina torna nello zainetto da cui spunta un’agenda gonfia di fogliettini, che si passa fra le dita, uno dopo l’altro.
“Questo è il biglietto del concerto dell’altra sera. Ogni volta che posso, ascolto musica. Tutta, quella che mi piace ma anche quella che non mi piace. Quando mi piace, mi entra sottopelle, in caso contrario fuggo con la mente, mi rifugio in mondi lontani e sogno, cullata da note sempre più estranee ed è in quei momenti che riesco a inventare qualunque cosa.
“Ho una scrittura minuta e ordinata. Segno tutti gli appuntamenti. Scrivo a matita. Non uso l’iPhone per ricordarmi gli impegni, ma solo questa agenda. Mi piace la pressione della matita sulla carta e il gesto fuori moda di temperarla. La mia agenda è la registrazione oggettiva della mia vita. Un indirizzo, un film, un colore, il disegno di un volto che mi ha colpito. Come questo”. Mostra al regista una pagina occupata da uno schizzo: una bambina dal faccino triste in cui mancano solo le lacrime.
“L’ho vista un giorno su una panchina, al parco. Era sola. Disegnarla è stato un modo per prendermi in carico la sua tristezza. La sofferenza dei bambini non è solo ingiusta, è immorale”.
Chiude l’agenda e la rimette nello zaino, da cui prende una scatola.
“I profilattici. Dovrei scegliere qualcos’altro, forse …“ – Regala uno sguardo pudico alla sala e continua – “Ma anche questa scatola può raccontare un pezzetto della mia vita. Non ci sono mai nella mia borsa e non sono neppure abituata a usarli. Infatti questi non sono miei. Me li ha dati la mia amica Margherita, l’altra sera. Non aveva la borsa e si teneva tutto in tasca. Poi li ha dimenticati. Dovrò restituirglieli. Lo sa perché io non li ho? – ed è solo al Maestro che si rivolge – Perché utilizzarli sarebbe un modo per dire: non mi fido di te. La pelle deve stare a contatto con la pelle. Se è necessaria una barriera fra me e l’amore, meglio allora starsene seduti a un tavolino a chiacchierare: vuole sapere ancora qualcosa?”
“No, no, basta così. Grazie”. Fatica a parlare, ha la bocca secca per l’emozione. Non ha perso neppure una sillaba del racconto della ragazza dai capelli biondi. Come tutte quelle che l’hanno preceduta, non sa per quale personaggio fosse l’audizione, mentre il Maestro sa cosa cercava: la forza, il piglio e il cipiglio di una Stella indimenticabile, capace di trasmettere il sogno e il mistero, la fierezza e le speranze del domani.
La giovane attrice non ha smesso neppure per un istante di guardare il regista: era a lui che si raccontava con parole e gesti che man mano diminuivano la distanza fra di loro.
Il regista deve parlarle, subito. Ma quando rialza la testa, lei non c’è più. Chiama l’assistente. “Dov’è andata? Voglio vedere la scheda della ragazza appena uscita”
“Mi spiace, non ho niente. Non si è registrata all’ingresso, ci è corsa davanti dicendo che era in ritardo e che sarebbe passata dopo. Invece è come svanita nel nulla”.
Deve ritrovarla: è la sua Stella. Mentre pensa a come rintracciarla, una ragazzina, correndo trafelata, rischia di andare a sbattere contro la sedia del grande capo: la riconoscono tutti, era venuta il giorno prima. Anche lui se la ricorda: una delle peggiori, non la scritturerebbe neppure per dire “Il pranzo è servito”.
Non è tornata per conoscere l’esito della sua prova ed è quasi scusandosi che dice: “Ieri ho dimenticato il mio zaino. Meno male che è ancora dove l’avevo lasciato: c’è tutta la mia vita dentro!”.
Raccoglie lo zaino rosso, lo apre, prende dalla bustina indiana il burro cacao e se lo passa sulle labbra. Saluta e se ne va, veloce come era apparsa.
Il Maestro guarda la luce che illumina il pulviscolo del palcoscenico e che fino a pochi istanti prima illuminava la sua Stella: non avrà più pace finché non la ritroverà. La sua attrice, l’amore.