"Descrivo la mia morte" di Elisabetta Miari


SALA OPERATORIA

 

Ora del decesso: 11,45.

Giovedì 17 dicembre 2009, Ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia.

Il silenzio nella sala operatoria è insostenibile, denso di morte e d’impotenza. Il chirurgo toracico, l’aiuto e l’anestesista mi guardano imbambolati dopo aver costatato la morte, mentre un’infermiera è indaffarata a predisporre gli elettrodi per il Tanatogramma.

Dovrò restare due ore collegata a questa macchina, una specie di elettrocardiogramma per cadaveri, per verificare la morte effettiva, oppure un repentino ripensamento.

Eh sì, perché a volte anche chi muore, dopo essere passato a miglior  vita, si sofferma a valutare la situazione, e avendone la possibilità, decide di tornare indietro.

Silenzio.

Sento freddo, o meglio la memoria cellulare di quello che percepivo come tale, guardando il mio corpo che giace squartato sul tavolo operatorio, coperto da una traversa verde smeraldo.

Il viso è di un pallore opalescente, la pelle tesa, i tratti tirati: sembra concentrato in un sonno ostinato.

Non riesco a capire bene dove e cosa sono in questo momento, sospesa sul mio corpo martoriato, mentre osservo il mesto andirivieni degli operatori.

La curiosità ha il sopravvento: chissà com’è la vita del chirurgo? Ha una famiglia, ama la moglie oppure la tradisce? E quelle due infermiere che sembrano così indifferenti alla morte, hanno dei figli? Hanno mai pensato di doverli abbandonare come sto facendo io con i miei?

Il più simpatico mi sembra l’anestesista, un tipo filosofico direi, a parte quel continuo sbirciare il telefonino.

Dopo il lungo silenzio a seguito della constatazione della morte è proprio l’anestesista che parla per primo rivolgendosi all’infermiera:

“Fuori ci sono i parenti: il marito, la madre e un bambino piccolo.  Meglio parlare al marito nel nostro studio, ci pensi tu ad accompagnarlo?”.

Una delle due infermiere, che nel frattempo ha terminato l’applicazione degli elettrodi sul mio corpo, fa un cenno d’assenso e si dirige verso i lavandini, dove si toglie i guanti  e si lava le mani per poi avviarsi speditamente fuori dalla sala operatoria.

Non vorrei essere quell’infermiera in questo momento, non vorrei neppure essere là fuori, a veder soffrire le persone che amo.

Già m’immagino mia madre, con uno sguardo spaventato e interrogativo, che tira distrattamente per una mano mio figlio verso il punto dove mio marito e l’infermiera si stanno scambiando due parole, cercando invano di sentire. Non riuscendoci, con voce stridula e tesa chiede mie notizie: il suo tono di voce è troppo alto per il luogo e per la circostanza e attira l’attenzione dei passanti.

A questo punto l’infermiera la guarda imbarazzata e mio marito, pur stordito dalla circostanza, le dice di stare con il bambino e che dopo aver parlato con i dottori, la informerà.

Ma l’essere tenuta in disparte è troppo per lei, che scoppia a piangere e protestare, mentre mio figlio la guarda stupito e le chiede perché piange.

Momento di crisi nella crisi.

L’infermiera interviene e va verso mio figlio dicendogli che lo porta a vedere una cosa bella. Lorenzo si fa prendere per mano e si allontanano, mentre mia madre piangente e isterica, segue mio marito nel corridoio che porta agli ambulatori.

Me la immagino proprio così la scena là fuori.

“Dai, coraggio, andiamo a dare la buona notizia… ” dice il chirurgo con un sorriso amaro rivolgendosi all’anestesista.

“Vieni a pranzo dopo?”

L’anestesista annuisce ma è meditabondo, sembra non aver ben capito la dinamica dei fatti. Si è svolto tutto troppo in fretta. Non è il primo decesso al quale assiste d sicuro, ma un blocco cardiaco causato da Miastenia Gravis in un intervento di timectomia è piuttosto imbarazzante per un professionista serio ed esperto come lui.

All’improvviso le luci si abbassano e dopo aver acceso il Tanatogramma, escono tutti e mi lasciano sola, a ricordare.

 

 

Erano le sei e mezzo del mattino quando di colpo si è accesa la luce nella mia stanza e un’infermiera con l’aria scocciata mi ha aggredito con un termometro e minacciato con un bicchiere di plastica con dentro un sedativo diluito in acqua.

Maledizione, stavo sognando, e che bel sogno… era primavera ed ero in riva al mare, forse in Liguria, non saprei.

Sentivo il sole caldo e una brezza dolce e salmastra mi accarezzava il corpo.

Seduta sulla sabbia guardavo l’orizzonte, quel punto né troppo vicino né troppo lontano, dove il mare luccicante si congiungeva al cielo. Sorridevo, non so neanch’io perché. Mi sono tolta la maglietta e sono rimasta in reggiseno e pantaloncini.

La gente passava e mi guardava: sguardi divertiti alcuni, e vogliosi altri. Io continuavo a sorridere, incurante.

Poi la luce del neon si è sostituita al sole, accecandomi e un’imprecazione mi è salita spontanea, mentre il battito cardiaco accelerava per la sorpresa di quel risveglio improvviso e violento.

C’è voluto un po’ per abituarmi alla freddezza tagliente della luce e per recuperare la consapevolezza di quello che stava per succedere.

“Stamattina mi operano” ho pensato e ho sentito il terrore bussare alla porta.

Sono sola ad affrontare tutto questo, mio marito e mia madre arriveranno più tardi, durante l’operazione.

E’ normale aver paura in questi casi, anche se tra un tumore di 6 cm tra cuore e polmoni e un intervento come questo, pochi avrebbero dubbi su cosa scegliere.

Gli esami sono incoraggianti però, l’ultima Tac con il mezzo di contrasto mostrava un timoma apparentemente incapsulato e la Pet evidenziava una leggera luminescenza solo nella zona del mediastino, sede del tumore.

Non vi sono metastasi in circolo dunque, ora resta solo da vedere, una volta aperta, se la cose è circoscritta al timo o meno.

Questo pensiero dovrebbe rilassarmi, ma la testa continua viaggiare e mi riporta indietro di un mese circa, al momento della scoperta.

 

 

Era una giornata di metà novembre, cosi opaca e gelida che pensai che quest’anno l’inverno avrebbe avuto  la meglio sulle altre stagioni e che, una volta iniziato, non sarebbe mai finito.

Dopo aver ritirato il referto di fretta presso la Radiologia del Policlinico, ho aperto la busta in maniera distratta, senza pensare che dentro potesse esserci il mio destino.

Ho scartato il foglio e letto: timoma nella zona del mediastino della grandezza di 6 cm circa.

All’improvviso, il cuore ha accelerato i battiti e il sistema nervoso ha allertato le sue diramazioni periferiche. Una scarica elettrica mi attraversa il tronco e le braccia, mentre il sudore m’imperla la fronte e l’incavo tra i seni.

Cos’è un timoma? Mai sentito prima. Ho consultato internet dal cellulare e sono crollata a sedere sulla panchina.

“Il timoma è un tumore derivato dalle cellule epiteliali del timo, una malattia rara, famosa per le sue associazioni ancora misteriose con il disordine neuromuscolare miastenia grave” recitava Wikipedia.

Tutt’un tratto mi sono sentita come Evita Peron che si affaccia l’ultima volta al balcone della Casa Rosada prima di morire.

La morte ha un sapore rancido. Quando poi è annunciata, è impastato di rabbia e impotenza e tende all’amaro. Quel genere di sapore che è difficile dimenticare.

In quei brevi momenti ho pensato che preferivo morire piuttosto che fare la chemioterapia, ho analizzato i  metodi di suicidio alla mia portata e scelto senza dubbio la morte per avvelenamento da farmaci.

In fondo, da figlia di farmacista, so quali scegliere, e in molte farmacie, in virtù di questo, non mi chiedono neanche la ricetta.

Passo una mezz’ora così, seduta sulla panchina all’interno della struttura del Policlinico, in una giornata fredda e umida, dove nessuno si ferma sulle panchine, pena il congelamento.

Le infermiere, i dottori e i pazienti che passano, gettano uno sguardo distratto nella mia direzione e vedono una donna con un referto in mano che fissa il vuoto. Immobile.

Niente di così trascendentale.

Poi, si sa, l’essere umano è tendenzialmente ottimista e reattivo, e stemperata la disperazione iniziale, normalmente subentra la speranza. Così mi sono fatta coraggio, e con un macigno sullo stomaco, sono tornata a casa dai miei bambini.

Nei giorni che seguirono, organizzai due consulti, prima a Milano, poi a Reggio Emilia, e mi documentai sulle percentuali di sopravvivenza, in realtà abbastanza alte in caso di timoma che è molto spesso benigno.

Con questa mezza rassicurazione ho affrontato infine il colloquio con il chirurgico toracico all’ospedale di Reggio Emilia.

“Se va male” ho pensato “torno a morire dove sono nata”.

 

 

Nella stanzetta semibuia, a luce spenta per leggere meglio la Tac, si vedeva solo il bagliore dello schermo luminoso, dove i due medici osservavano con attenzione forme che non riuscivo a interpretare.  I loro visi erano tesi e  ogni tanto ci guardavano con una strana espressione di pena.

“Il timoma è molto grosso” esordì il chirurgo “queste sono immagini un po’ sfocate e non si capisce bene. La speranza è che sia isolato, che non sia fuoriuscito dalla sacca, come a volte succede quando raggiunge certe dimensioni”.

Il chirurgo mi guardò con un sorriso tirato e vedendo il terrore nei miei occhi aggiunse:

“Per prima cosa facciamo una Tac col mezzo di contrasto e una Pet, poi vedremo”.

Annuì sconsolata e chiesi in cosa consisteva l’operazione.

“Si potrebbe forse operare in toracoscopia” si fermò, come a soppesare la situazione e poi riprense “ma la massa è grossa e potrebbe rompersi, diffondendo le cellule tumorali nel mediastino.  Io farei una sternotomia, sicuramente più invasiva, ma più sicura dal punto di vista del risultato.”.

E’ proprio vero che in certi momenti il cervello si rifiuta di collaborare e si finisce per pensare e per dire le cose più stupide.

“Mi rimarrà la cicatrice?” chiesi pensando al mio corpo snello che era sopravvissuto quasi indenne ai tanti scossoni della vita.

Sorrise benevolo, contento di poter alleggerire il tono della conversazione:

“Dipende da persona a persona, e comunque c’è sempre la chirurgia plastica.”

“Ho capito” risposi poco convinta e mi feci forza per affrontare il calvario del mese di attesa e di esami prima dell’intervento, che per quanto doloroso, non vedevo l’ora che arrivasse.

Per di più, mi dissero che non c’era il tempo di mandare ad analizzare i campioni di sangue per scongiurare il rischio che assieme al timoma avessi anche la Miastenia Gravis, che avrebbe potuto causare problemi durante l’intervento. Questo è un esame che facevano solo in alcuni ospedali e la tempistica per avere i risultati era di più di un mese.

L’anestesista mi disse che secondo lui nel mio caso non era ancora subentrata questa patologia e che era meglio intervenire prima possibile accollandosi il rischio. Pure il neurologo, che mi fece una visita di routine in seguito, sembrava essere di questo parere, anche se si lasciò scappare un “non si sa mai però, in questi casi non ci sono certezze senza gli esami”.

 

 

I miei pensieri sono interrotti dall’ingresso del chirurgo nella stanza. E’ un uomo sulla cinquantina, non bello ma simpatico. Siamo entrati un po’ in confidenza e ci diamo del tu.

“Allora sei pronta?”

I suoi occhi sorridono sotto gli occhialini da primo della classe e mi trasmettono sicurezza.

“Non vedo l’ora” scherzo cercando di apparire incredibilmente coraggiosa.

“Ti fai una bella dormita e quando ti sveglierai  sarà tutto finito”

Rifletto un attimo sul significato di “tutto finito” e mi viene spontaneo rispondere:

“Speriamo di no!”

Ridiamo entrambi.

In quel momento entra l’infermiera, accompagnata dai barellieri che rimangono interdetti vedendomi ancora completamente sveglia. L’infermiera scambia due parole con il dottore, esce e rientra poco dopo con un’iniezione di sedativo.

“Questa dovrebbe riuscire a stenderla un po,’ fino all’anestesia” borbotta malmostosa come al risveglio.

I barellieri intanto chiacchierano e guardano il cellulare, si fanno bellamente i fatti loro nell’attesa che colassi.

Giunto il fatidico momento mi aiutano a salire sulla barella dalla quale, avendo la testa davanti, vedo il mondo alla rovescia. Sono presa alla sprovvista  da corridoi e porte, che come arrivano nel mio campo visivo, scompaiono subito dopo, senza che riesca a registrarle. Persone e voci che ormai distinguo a malapena.

Sento infine aprirsi le porte scorrevoli dietro di me mentre sono sospinta nella sala operatoria, dove la temperatura scende bruscamente.

Sono distesa sul lettino operatorio e l’anestesista mi sta parlando. Le sue parole si mescolano sempre più nella mia testa. Mi dice che sta per iniziare l’induzione cui seguirà l’ipnosi e infine la miorisoluzione. Sforzandomi di capire, sento che comincia a contare alla rovescia partendo da dieci, ma al cinque sono già addormentata.

Sarà perché sono morta, ma ho una memoria così vivida dell’accaduto che la cosa mi stupisce e mi affascina allo stesso tempo.

Si spengono le luci e rimane accesa solo la scialitica sul tavolo operatorio, mentre l’anestesista procede alla ventilazione assistita durante i tre minuti di attesa della paralisi totale dei muscoli, anche quelli respiratori, per potermi intubare facendo passare il tubo orotracheale senza problemi.

“E’ in sede” dice l’anestesista non distogliendo lo sguardo dal monitor.

“I parametri vitali sono impostati, procedo all’accensione del ventilatore fisso”.

Il chirurgo annuisce mentre osserva gli infermieri che dispongono il mio collo in ipertensione controllata, inarcando la schiena e portando indietro al massimo la testa, che viene fissata per evitare movimenti involontari che potrebbero provocare lesioni al collo.

Questa posizione è quella più comoda per eseguire l’operazione.

Ora mi disinfettano con una tintura marrone tutto il torace fino all’ombelico.

Credo di sentire freddo e solletico e vorrei sorridere, ma non ci riesco.

Isolano la parte da incidere con tessuto e pellicola per mantenere la zona più sterile possibile e infine il chirurgo toracico comincia il suo lavoro.

Con il bisturi incide lungo tutto il margine anteriore dello sterno, mentre l’assistente coagula i bordi della ferita che zampillano.

Dopo aver controllato l’emostasi e legati i vasi venosi in loco, il chirurgo comincia a passare lo Striker, una sega sternale e alla fine il torace è aperto.

Mi viene applicato un divaricatore per lasciare più spazio alle manovre del chirurgo.

Il mio sterno è aperto, spalancato, come le porte del Paradiso.

“Eccolo qui lo stronzo” dice il chirurgo rivolgendosi al mio timoma, una massa grande e bitorzoluta di colore giallastro con dei reticoli vascolari violacei.

“Procedo alla resezione del timoma lungo i bordi”.

Il chirurgo parla meccanicamente, mentre con cautela affonda il bisturi nel punto più accessibile.

“Una volta asportato, procederemo alla pulizia del mediastino e alla rimozione dei linfonodi”.

Tutti hanno la testa abbassata su di me e lavorano seguendo una routine che li accomuna.

Tutt’a un tratto però il mio cuore rallenta e in un battito si ferma.

Sento come uno schiaffo al torace, sono risucchiata fuori e ora vedo molto meglio quello che succede.

La ritmica cadenza dei battiti lascia spazio a un suono acuto, continuo e preoccupante.

Tutto precipita. La curva della pressione arteriosa scompare, così come quella della saturazione dell’ossigeno. Ora gli tutti gli allarmi suonano insieme. Non danno tregua.

Immediatamente il chirurgo afferra il mio cuore e inizia il massaggio cardiaco interno, mentre l’anestesista mi somministra dei farmaci che si spera rimetteranno in moto il cuore.

Gli infermieri recuperano velocemente il defibrillatore.

Nulla. Nessuna risposta per ora. Sembra che il mio cuore non voglia risvegliarsi.

Infusioni di liquidi e massimo dosaggio farmacologico, il massaggio cardiaco interno procede, ma il mio cuore resta fermo. Venti minuti, mezz’ora. Stop.

Medici e infermieri si guardano sgomenti.

Il chirurgo, dopo essersi tirato giù la mascherina in segno di sconfitta, constata l’ora del decesso.

I visi sono tirati. L’anestesista ferma il ventilatore e aiuta gli infermieri a estubarmi e a togliere i “devices” inseriti all’inizio delle danze.

I chirurghi si spogliano, i guanti gettati stancamente, quasi con rabbia, così le mascherine e i cappelli, tutto negli appositi contenitori che verranno rimossi a breve, così come il ricordo di questa sconfitta.

Osservo la scena senza parole, senza opinione. Non mi viene neanche da urlargli di andare avanti, di non darsi per vinti.

E’ così che deve essere, mi va bene tutto sommato.

 

 

Non riesco a sentire il tempo che passa in questa sala deserta. Il ronzio leggero della macchina che mi monitorizza è l’unico vago rumore che si percepisce prestando attenzione.

Da quanto se ne sono andati questi imbecilli che mi hanno ammazzata? Quanto ci vuole per capire che sono morta e quando mi faranno vedere alla mia famiglia? Voglio rivederli un’ultima volta prima di volare via, perché credo sia questo che accade… a un certo punto verrò spazzata via dalla vita come la sabbia su una superficie liscia quando il vento è forte. Diventerò un ricordo, una foto su una pietra tombale.

Non doveva finire così, no davvero…

Devono essere passate due ore però, perché all’improvviso i neon si riaccendono ed entrano due infermieri che mi liberano degli elettrodi del Tanatogramma.

“Questa è morta davvero” dice quello più grosso allo smilzo che gli sta di fianco.

“Chiamo il necroforo così ce la portano via” risponde lo smilzo con un sorrisetto.

Tempo dieci minuti e arriva il necroforo. Ammetto che ero curiosa di vederlo, con un nome così… ma rimango un po’ delusa perché è un uomo comune e non una specie di “Igor” di Frankenstein junior. Sulla sessantina, capelli brizzolati, naso adunco e occhialini. Niente di strano insomma.

Il necroforo guarda la mia cartella, poi estrae un cartellino dalla tasca, ci scrive su il mio nome e me lo appende all’alluce.

Credo di aver sentito da qualche parte che un tempo il necroforo, prima che entrasse in uso il cartellino, morsicava l’alluce della salma, imprimendo il suo particolare sigillo, poiché ogni morso è unico ed è un po’ come una firma. Mi è andata bene in questo caso a morire ai nostri tempi…

Comunque, con questo cartellino al piede mi sento come un pezzo d’arredamento in vendita, o un tappeto arrotolato in un baazar.

Maledetti, ma come si permettono di trattare i morti in questo modo? Spero che a loro volta muoiano di morte violenta sulla Salerno-Reggio Calabria, travolti da un Tir in corsa, e che i pezzi raccattati vengano messi insieme alla bell’e meglio, come un quadro di Picasso…

Ma scherziamo? Mi hanno lasciata qua, aperta e insanguinata, con un cartellino appeso all’alluce…

La mia attesa indignata non dura  a lungo però: quel sant’uomo del necroforo chiama due barellieri, che facendo attenzione a tenermi coperto il torace, mi adagiano sulla barella e mi spingono verso l’obitorio, dove mi aspetta il necroscopo, altra figura interessante, che provvederà a squartarmi più di quanto già non abbiano fatto i chirurghi.

Si va al fresco ragazzi…e chissà quante altre belle sorprese…un’autopsia, una cremazione, tutte cose che val la pena di provare almeno una volta nella vita…

Ma in fondo che m’importa? Sono morta. Alle 11,45 del 17 dicembre 2009 per la precisione.

Fuori continua a nevicare, è uno spettacolo stupendo, tutto bianco e ovattato, le macchine e la gente procedono con una lentezza surreale, va tutto bene, tra pochi giorni sarà Natale.

E.M.

 

 

 


14 risposte a “"Descrivo la mia morte" di Elisabetta Miari”

  1. Oh my goodness! Awesome article dude! Thank you,
    However I am havingg troubles with your RSS.
    I don’t know tthe rwason why I can’t subscribe to it.
    Is there anyone else getting the same RSS issues?

    Anybody who knows the solution can you kindly respond?

    Thanx!!

  2. First of all I want to say terrific blog! I had a quick question which I’d like to
    ask if you do not mind. I was interested to know how you center yourself
    and clear your mind before writing. I have had a difficult time clearing my thoughts in getting my thoughts out there.

    I do take pleasure in writing but it just seems like the first 10 to 15 minutes are usually wasted
    just trying to figure out how to begin. Any suggestions or tips?
    Cheers!

Lascia un commento