"In the flesh?" di Achille Maccapani


ragazza rossa

 

Avevo la nausea. Quella sera avrei davvero fatto a meno di cenare, di sottopormi al rituale stantio del pasto da consumare su un tavolo estraibile della cucina costruita su misura da un laboratorio di artigiani del mobile.

Ogni volta dovevo oltrepassare il segmento sottile che divideva la parte finale del tavolo dal muro portante, vicino a un piccolo balcone dal quale potevo scorgere le campagne, ancora non deturpate da nuove edificazioni condominiali, e di lontano sovrastavano le montagne bergamasche.

Conoscevo già il menu della cena: la solita minestrina in brodo con la pastina e qualche scaglia di grana padano, preferito da mia madre al parmigiano. Troppo caro, diceva, i costi sono saliti alle stelle per colpa delle banche. Una scelta obbligata, quella di cercare cibi meno cari.

Carne congelata, niente biscotti di marca, tanto andavano bene i Piovesana: costavano poco e il risultato era lo stesso. Con la tessera del Gros Market Lombardini facevamo la spesa all’ingrosso: così risparmiavamo il più possibile.

Niente beni voluttuari. Non potevo certo chiedere loro di acquistare questo o quel disco che mi sarebbe piaciuto avere tra le mani.

No, la risposta di mio padre era sempre negativa.

Quello era il vero primo comandamento della famiglia Casellati.

– Nessuno può far niente per noi, inutile invitare a casa la gente perché non serve a niente, ti accoltellano alle spalle, inutile credere nelle amicizie. Tanto vale che ci arrangiamo da soli e proviamo a vivere con dignità.

Avevo poca voglia di parlare. Lei mi incalzava con le solite battute, le consuete domande sullo studio, sugli scrutini. Diceva che tra poco sarebbe tornato a casa anche il papà. Lui sì che era uno bravo, sempre al lavoro, sempre in ufficio, così stimato dai suoi dipendenti e dagli amministratori. Lui non tornava mai a casa alla stessa ora degli altri.

– Ecco, vedi -, continuava a dirmi, – dovresti imparare da lui, dalla sua applicazione, dal suo impegno.

Eppure pensavo ad altro.

Fingevo di ascoltare mia madre, ma ero immerso in altri pensieri. Il rituale della cena si risolveva in un ritmo vorticoso tra cucchiaio, piatto e bocca, nell’intento severo di non emettere rumori molesti, per non sentirmi dire che ero un gran maleducato. La cena era un dovere da compiere con estrema rapidità, piuttosto che un’occasione per dialogare con calma.

Finita la minestra, mi ritrovai immediatamente, servita sul piatto, l’ennesima cotoletta impanata di carne. Naturalmente appena scongelata dal freezer. Neanche il tempo di bere un bicchiere d’acqua.

Come condimento, due spruzzatine di sale e un olio di oliva annacquato, quasi del tutto privo di sapore.

Non aveva ancora smesso di parlare. E non smetteva di ripetere le stesse solfe, che senza un diploma non avrei avuto futuro, che avrei comunque dovuto fare l’università. Con il liceo classico non si faceva nulla, serviva la laurea.

Annuivo. Almeno avrebbe smesso di parlare. Ero troppo concentrato su quella cotoletta, sulla solita cotoletta che mi sforzavo di gustare, animato solo da uno spiccato senso dell’appetito. E meno male che non aveva preparato pure la terrina dell’insalata!

In realtà, la cucina doveva essere solo il luogo per preparare i pasti, che poi sarebbero stati serviti nell’ampio soggiorno di casa, stando almeno alla scelta in perfetto stile Biancofiore simbol d’amore del progettista assoldato dalla cooperativa edilizia, ovviamente iscritto doc alla sezione Dc del paese.

– È il soggiorno, la sala da pranzo, il luogo in cui tutta la famiglia si ritrova felicemente -, diceva mio padre mentre ci faceva vedere con orgoglio la tavola del progetto, fresco di riunione con gli altri soci, futuri proprietari.

– Finalmente avremo una casa nostra. Un condominio di soli cinque piani, pochi appartamenti e tante famiglie giovani, nessun amministratore condominiale, faremo tutto tra noi, anche le pulizie delle scale a turni settimanali.

Tutto ciò non mi sembrava vero. Non ne potevo più di vivere in una casa immensa, dai soffitti alti, dagli spazi interminabili e nel pieno di una solitudine marcata, quella della mia infanzia passata nel primo piano della villa nobiliare.

Solo tre anni prima, avevamo preso possesso della nuova casa: cinque locali e tre balconi all’ultimo piano, oltre al garage per la Peugeot 205 color grigio metallizzato.

Dopo il primo sopralluogo, a lavori in corso, i miei si erano resi conto che il soggiorno era troppo ampio e la cucina troppo piccola. Occorrevano per quest’ultima mobili su misura. Si rivolsero così ad un laboratorio di Lissone. Gente pratica i mobilieri brianzoli: presero le misure, sfruttarono i centimetri e riuscirono ad escogitare gli incastri giusti.

Gli spazi c’erano, ma non erano quelli adatti (di aria da respirare, poca).

Ero quasi alla fine della pietanza; Temevo di non farcela. Un po’ per la voglia di uscire di casa, un po’ per il desiderio di ritrovarmi ancora solo.

– Lo sai che papà arriva tra poco?

– Sì, lo so. Ma chissà quando.

– Oggi aveva una riunione importante. Lo sai che, in questi casi, i tempi sono più lunghi.

Eppure il comune distava solo una decina di chilometri.

– Va bene, tanto ho quasi finito di mangiare.

Non rispose. Era ancora intenta a preparare i piatti per mio padre, voltandomi le spalle. Avrebbe poi cenato con lui.

– Vuoi anche una mela? – mi domandò improvvisamente, come se non volesse che me ne andassi subito.

Ringraziai, ma le dissi che ero sazio.

Mi alzai in piedi dirigendomi verso la solita strettoia, giusto in tempo per intravedere il tramonto dalla lunga e stretta finestra del balcone. In soggiorno c’era il televisore.

Quello scatolone aveva tre anni, era stato acquistato all’indomani dell’inizio delle trasmissioni sperimentali a colori. Avevo atteso un bel po’ prima che i miei si decidessero finalmente ad acquistarlo. Li aveva convinti il prevosto, don Domenico, rimasto estasiato dalle immagini del Gesù di Zeffirelli.

Per la maggior parte del tempo, il nuovo elettrodomestico restava   spento. Tranne che per vedere la Rete Uno, qualche programma su Antenna Nord oppure Video Bergamo Delta, soprattutto cartoni animati, e qualche dibattito televisivo. O altrimenti su Trs Vailate, con le sue partite di calcio dai paesi della provincia cremonese e gli sketch pubblicitari della Vecchia Filanda, dove c’era quel solito rompicoglioni abituato a distruggere con l’accetta tutti i mobili nello studio televisivo.

Ogni tanto capitava di dare un’occhiata alle trasmissioni di Telemilano. Che poi non era veramente milanese. Gli studi televisivi si trovavano a pochi chilometri dall’ufficio di mio padre. Certo, non era la stessa emozione degli studi colorati della Rai di corso Sempione, sembrava tutto realizzato in economia, con pochi mezzi a disposizione, eppure c’era una freschezza, un senso di novità che mi incuriosiva.

Schiacciai il tasto verde del Grundig a 28 pollici, e attesi che il motore si scaldasse. Ci voleva un po’ di tempo. Fissai lo sguardo sullo schermo, convinto che prima o poi quel rettangolo coperto da un vetro spesso si sarebbe illuminato di mille colori.

Eppure non vidi le immagini attese, bensì sentii un suono lontano. Quello di una fisarmonica che suonava una melodia a me nota.

No, non era affatto il televisore.

Quel suono veniva da fuori, poi…

Due colpi durissimi!

Una detonazione sonora creata dal connubio tra chitarra elettrica e organo, un inizio inconfondibile da qualche mese entrato nella mia testa, nei miei ricordi.

Un suono perfetto che proveniva da chissà dove.

E mentre lo sguardo rassicurante di Mike Bongiorno si materializzò sullo schermo per dare soluzione ai Sogni nel cassetto, aprii di scatto la porta del grande balcone.

– Che cos’è tutto questo baccano, Andrea? – urlò mia madre dalla cucina.

All’aperto provai l’ebbrezza dell’aria fresca di fine giornata, quella che prende il sopravvento sul caldo soffocante dei pomeriggi di inizio estate, proprio nei giorni conclusivi dell’anno scolastico. Non feci in tempo a godermi in pieno quel respiro.

La musica ad altissimo volume, che quasi sicuramente proveniva dal vicino stadio parrocchiale, aveva richiamato la mia attenzione. Un segnale a me noto, che faceva riaffiorare svariati ricordi, brandelli di memoria di una storia controversa che non riuscivo a rimuovere totalmente, colonna sonora di questo strano periodo della mia vita che custodivo gelosamente, attaccato al compatto stereo e alla cuffia, consumando la C90 di The Wall ogni pomeriggio prima di affrontare i compiti di scuola.

Le note di In the flesh? provenienti dallo stadio erano esplose all’aria aperta.

Mi appoggiai al muretto del balcone, così da poter vedere meglio.

C’era qualcosa di nuovo allo stadio «Forze Vive».

Sul lato estremo, si scorgevano alcune grosse casse acustiche, ma che non assomigliavano ad un impianto di alta fedeltà. Non ne avevo mai viste, prima, di simili: riproducevano il suono con una potenza e un’energia mai udite fino a quella sera.

Quelle erano casse da concerto.

– Cosa succede, Andrea?

Ecco, mia madre non aveva capito nulla. Non le avevo ancora risposto, mi gustavo l’inizio di The Wall, davvero non mi sembrava possibile che tutto questo potesse accadere a pochi metri da casa mia.  Tutti i condomini del circondario, all’ora di cena, erano dunque costretti a sopportare l’urlo lancinante a tempo di rock.

– Niente, mamma. Stanno facendo le prove allo stadio. Forse fanno un concerto…

– Ma figuriamoci se il prevosto permette di fare un simile baccano allo stadio!!!

Provavo una certa curiosità, di fronte a questo fatto anomalo, abituato al clima ovattato e tridentino che regnava nell’ambiente parrocchiale. Volevo saperne di più. Avevo già terminato i compiti e potevo quindi concedermi mezz’ora di svago.

Andai a cambiarmi. Dovevo avere un abbigliamento adeguato a quello che stava succedendo, c’era nell’aria un rock poderoso e intenso, non sarei potuto uscire di casa vestito in modo dimesso. Non potevo uscire così conciato! Se mi avesse visto Mariella, poi…

– Andrea, che fai?

– Mamma, esco.

– Devi proprio uscire? Dove vai?

– All’Acli, torno tra mezz’ora.

– Non potevi aspettare tuo padre?

– Torna tardi.

– Devi vedere quella ragazza?

– Non cominciare… Te l’ho detto che non c’è nulla. Esco. Ciao.

Chiusi la porta di casa e premetti il pulsante l’ascensore.

Finalmente ero libero. Anche se per solo mezz’ora.

Dopo aver aperto il garage di casa, al piano terra, presi la mia bici: una Dino verde, simile a una bici da corsa, ma senza le marce. Aveva già macinato qualche centinaio di chilometri durante i viaggi pomeridiani nei paesi limitrofi, tra strade asfaltate e campestri, i ponti del vicino fiume, scelte obbligate per cercare continuamente di cambiare aria.

Controllai le ruote e la portai fuori dal garage. A quell’ora, le otto di sera, mio padre non era ancora tornato a casa. Forse in quel momento era in viaggio, magari stava tornando dall’ufficio.

Uscii dal quartiere percorrendo una lunga strada, nata da una lottizzazione edilizia degli anni Settanta.

Andava per la maggiore il concetto dei condomini in un’unica area, un solo numero civico a testa: così, prima c’erano i tre palazzi dell’Iacp, le case popolari in cui abitavano famiglie di emigrati dalla Sicilia che  vivevano abusivamente nelle cascine del paese, poi altrettanti palazzi, realizzati dalle cooperative edilizie locali, una democristiana, una socialista e una del Pci.

Naturalmente la cooperativa edilizia San Giuseppe – quella democristiana – aveva conquistato un doppio lotto, grazie alla notevole mole di iscrizioni.

Tra i nostri condomini e gli altri c’era un abisso.

I rapporti erano pressoché nulli. Ognuno pensava a se stesso.

Non si sapeva neanche chi abitasse di fronte, a malapena conoscevamo le famiglie del nostro palazzo, e non quelle della scala B. Unico elemento di raccordo era il grande cancello, quasi sempre aperto.

Dopo aver percorso la strada asfaltata di collegamento con i garage, contornata da un giardinetto di piante anonime e folte siepi ben coltivate da un vicino di casa con la passione per il giardinaggio, a grandi pedalate ero finalmente sulla strada.

Intanto la musica continuava, e il dramma della solitudine della prima parte di Another brick in the wall si sviluppava incalzante, ricordandomi la distanza che si era frapposta tra me e Mariella.

Pensavo a lei continuamente.

Alla sua bellezza indescrivibile.

Pensavo che   aveva rappresentato la fine della mia lunga infanzia, e la presa di coscienza di un sentimento nuovo che non riuscivo ad esprimerle.

Temevo di non piacerle, anche se speravo che lei un giorno potesse cambiare idea.

Ecco perché sfogavo la mia rabbia e le mie tensioni ascoltando musica e leggendo.

Magari l’avrei incontrata, tra poco, al bar Acli: l’unico che solitamente frequentava nelle sere estive, e le domeniche pomeriggio, anche se non sempre.

Mariella stava sempre in gruppo. Di solito usciva con alcune sue amiche delle magistrali, che, come lei, tra non molto avrebbero finito il penultimo anno. Voleva iscriversi al magistero alla Cattolica.

Pur essendo coetanei, per lei ero solo un ragazzino, e di conseguenza mi trattava come tale. Sapevo che avrei dovuto aspettare il mio turno per non sentirmi più solo e riuscire a fuggire da quella vita familiare da incubo, ma non sapevo quando sarebbe accaduto.

Nel frattempo pedalavo, arrancando, mentre il rumore delle pale degli aerei da guerra cresceva con un’intensità squassante generando una tensione che contrastava con la calma piatta ed il silenzio che imperava tra i condomini della vicina via Passoni. Procedevo avvicinandomi alla parrocchia.

Alla mia destra svettava l’oratorio femminile gestito con mano ferrea dalle suore adoratrici, con il suo campo di pallavolo. Poco più avanti a sinistra c’era la porta d’ingresso dello stadio parrocchiale «Forze vive».

Tra poco sarei arrivato al bar Acli.

Ero curioso, volevo proprio saperne di più.

Me l’ero trovata di fronte all’improvviso. L’avevo notata una mattina, sulla via Padana Superiore, una strada affollata di auto, moto, camion e pullman che unisce Milano a Brescia, e che divide il paese in due ampi tronconi: da una parte il centro storico, le villette e le case popolari, e dall’altra il villaggio residenziale.

Sui lati opposti della strada c’erano le fermate dei pullman che conducevano in due opposte direzioni, l’una verso la bassa bergamasca e l’altra verso l’hinterland milanese. Come tutte le mattine aspettavo la corsa delle sette e mezza, l’unica prevista, per raggiungere il liceo.

Dietro di me c’erano un piccolo panificio aperto da poche ore e una trattoria di passaggio che faceva da contraltare al ristorante di fronte che era riservato ai ricchi, ai benestanti, a coloro che potevano davvero concedersi quei lussi, a me preclusi.

Stanco e disorientato, sopportavo il freddo straordinario di quelle settimane di ottobre, esasperato dalla coltre di nebbia che era calata attorno al paese e a tutto il circondario. Per ridurre l’attesa, perdevo tempo raggiungendo la fermata con la Dino verde che parcheggiavo vicino all’edicola.

Aspettavo che il semaforo diventasse verde per raggiungere gli altri studenti in attesa. Chi doveva andare all’istituto tecnico-commerciale, chi frequentava ragioneria, chi agraria. E chi, come me, faceva il classico.

Mancavano solo gli iscritti al liceo dei salesiani: per loro la scuola aveva messo a disposizione un pullman privato, quasi un granturismo, decisamente migliore di quello riservato a noi, una sorta di carro bestiame con soli venti posti a sedere, che doveva trasportare quasi un centinaio di persone.

Il solito grigiore di quella mattina d’improvviso si spezzò.

Non l’avevo mai notata prima. Quando la vidi dall’altra parte della strada venire verso di me con la sua sporta di libri, immersa nei suoi pensieri, orgogliosa dei suoi capelli rossi e degli occhi azzurri, vivi e intensi, nella freschezza della sua gioventù, pensai che non assomigliava a nessun’altra.

Era unica, per la sua bellezza, per il suo sguardo, per il suo inconscio modo di farsi notare nella folla. Circondata dalle sue amiche.

Eppure vedevo solo lei.

Chiacchierava aspettando l’arrivo del pullman Atm delle sette e quaranta. Delle altre ragazze non m’importava nulla. Non le vedevo neppure. Non ne ricordavo i volti, né il gesticolare. Mi apparivano tutte uguali nel loro anonimato.

Mariella, invece, aveva catturato completamente la mia attenzione senza essersene accorta.

La vidi arrivare quando il pullman della Sai curvava presso la vicina viuzza per poi sbucare alla mia sinistra, vicino al semaforo. Lei giungeva dalla direzione opposta, in mezzo alla nebbia che offuscava la vista, ma io seguivo ogni suo movimento con lo sguardo. Osservavo la sua sagoma, il suo fisico slanciato e sinuoso fasciato in un paio di jeans.

Avevo dimenticato tutto ciò che mi circondava. Non mi ero neppure accorto che il pullman era arrivato e che vi ero faticosamente salito facendomi strada fra la gente. Pur essendo riuscito a conquistarmi un angolino tra i seggiolini occupati da altri studenti più lesti di me, ero ancora scosso dall’impatto.

Volevo conoscerla.

Ci riuscii pochi giorni dopo. Era una domenica pomeriggio, il giorno in cui la comunità era solita incontrarsi. Si riunivano alle quattordici in una saletta laterale usata a turno dalle varie associazioni, all’interno del cinema teatro Giglio, di fronte alla sede della Dc, a pochi passi dal bar Acli, proprio la zona che ero solito bazzicare da quando non frequentavo più l’oratorio maschile.

Avevo smesso di frequentare l’oratorio perché desideravo fare nuove conoscenze. Trascorrere i pomeriggi con ragazzi più giovani non mi bastava più, soprattutto ora che avevo iniziato il terzo anno delle superiori. Sapevo che Mariella frequentava la comunità, sicuramente sarei riuscito a vederla più da vicino, almeno speravo.

Approfittando dell’invito che ero riuscito a strappare a Marco Colombo, iscritto al primo anno di lettere alla Cattolica e che da alcune settimane mi impartiva le ripetizioni di latino, ero riuscito ad infiltrarmi nel posto giusto al momento giusto. Ora dovevo stare attento a non sprecare la mia occasione. Dovevo tastare il terreno e capire che diavolo di ambiente frequentava Mariella.

Quasi tutti i presenti erano più grandi di me. Erano studenti universitari, oppure lavoratori o coppie di sposi fresche di nozze. Un ambiente totalmente diverso da quelli che avevo frequentato fino a quel momento.

Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. In un mondo sconosciuto, stimolante e pieno di nuove occasioni di conoscenza. Tra poco sarebbe giunta. Mi sentivo agitato e cercavo di nascondere il più possibile il mio stato d’animo, nella certezza che, prima o poi l’avrei vista, e Marco me l’avrebbe finalmente presentata.

Alla fine arrivò. Stavolta da sola. Indossava una gonna arancione lunghissima, un maglione fosforescente ed un paio di stivali neri lucidi che le arrivavano fino al ginocchio.

I suoi capelli rossi e lunghi le scendevano sulle spalle. Scintillavano gli occhi azzurri e vivaci. Era come se la stanza si fosse di colpo illuminata. Le sue amiche, le stesse che si trovavano con lei la mattina alla fermata dell’Atm, la raggiunsero subito per salutarla.

Osservavo la scena tenendomi a distanza, cercando di non farmi notare. Mi vergognavo un po’ del mio abbigliamento. Non indossavo vestiti di marca, ma robaccia comprata ai saldi. Non mi sentivo affatto alla sua altezza, eppure la mia incoscienza mi spinse a superare le mie paure e la mia timidezza.

Fu così che Marco ci fece conoscere.

Ce l’avevo fatta.

Parlammo per una decina di minuti. Mariella mi disse che suo padre era un autista dell’Atm e sua madre lavorava come dattilografa all’Elco, una fabbrica del paese. Vivevano in una villetta a schiera, nel vicolo Prevosti, una traversa della lunga strada che dalla scuola media si dirige verso la zona industriale. Aveva frequentato anche lei la mia stessa scuola media statale, ma in un’altra classe perché aveva scelto in prima media di studiare inglese, mentre io avevo intrapreso, non spontaneamente, lo studio del francese.

Sembrava ascoltarmi con interesse, nonostante facessi un po’ di fatica a spiegarmi. Aveva solo pochi mesi più di me, ma sembravano rappresentare un limite invalicabile. Un ostacolo insormontabile. Mariella continuava ad osservarmi dall’alto verso il basso, con distacco.

Credo mi considerasse un ragazzino ancora acerbo, immaturo, che non sapeva come misurarsi con l’universo femminile. Lei, invece, era sicura di sé, convinta dei suoi mezzi, forte della storia della sua famiglia.

Ero stato completamente conquistato dal suo modo di gesticolare, dalla sua contagiosa energia, dalla sua voglia di superare i confini immobili di quell’anonimo paese di provincia tra Milano, Cremona e Bergamo, di quel dialetto incomprensibile, frutto di una mescolanza tra le vicine località. Parlava in un italiano perfetto. Era attratta dalla vicina Milano e dalle novità che provenivano da quella grande città.

Dopo esserci salutati ci sedemmo, lontani. Era il momento della preghiera comune dell’ora media.

Tutto scivolò via senza neppure che me ne accorgessi, nonostante Marco mi avesse allungato una copia del Libro delle Ore, aperta sulla pagina giusta. Recitavo i salmi e le preghiere, con quello strano falsetto in avanti, ma il pensiero e lo sguardo erano rivolti a lei. Inutilmente provavo a concentrarmi su altro. Non ci riuscivo, era più forte di me.

Intanto la preghiera proseguiva, intramezzata da canti accompagnati da una chitarra. Non avevo mai sentito prima quelle musiche, forse una l’avevo udita durante la messa domenicale delle otto e mezza. Era un mondo strano, che mi affascinava e mi lasciava interdetto. Una realtà diversa da quella dell’oratorio o della parrocchia in cui ero stato confinato durante i primi anni vissuti in quel paese.

Aspettavo che tutto finisse, così avrei potuto rompere le righe, e magari parlare ancora un po’ con Mariella che si trovava dall’altra parte del salone, di fronte a me. Ero impaziente, fremevo dal desiderio di esserle di nuovo accanto, ma temevo di comportarmi in modo inappropriato, di risultarle fastidioso. Non volevo sembrare sfacciato.

Non sapendo come comportarmi, alla fine della riunione restai ad osservarla, mentre, in un angolo vicino alla porta di uscita del salone, chiacchierava con le sue amiche. Non riuscivo bene a capire di cosa stessero parlando. Forse sarebbero andate al cinema di Cassano.

Era meglio restare in disparte, mentre il grande gruppo che fino a pochi minuti prima era stato riunito in preghiera si divideva in tanti e piccoli gruppi di cui io non facevo parte. Mi sentivo un po’ a disagio. Avrei dovuto vincere l’imbarazzo e superare quella barriera che continuava a dividermi dal mondo circostante, che nulla aveva dell’atmosfera ovattata e familiare che respiravo in casa e a scuola. Sentivo che qualcosa di diverso stava accadendo nella mia vita.

Mi diressi verso Marco che stava parlando con altri suoi coetanei, forse colleghi di università. Volle presentarmeli tutti, ad uno ad uno. Effettivamente mi sbagliavo: l’unico universitario era lui.

Gli altri amici di Marco erano tutti lavoratori, c’era chi era operaio specializzato in una ditta nella stampa di copertine e buste di dischi a 33 giri, chi in una tipografia di Gorgonzola e chi in una ditta locale di utensili meccanici. Erano molto diversi dagli operai che, ogni mattina, vedevo dalle finestre del pullman, mentre entravano in fabbrica silenziosi e pieni di amarezza.

Gli amici di Marco erano felici.

Spensierati.

Stavano decidendo cosa fare durante quel pomeriggio. L’idea di andare a vedere il film con Dustin Hoffmann non gli dispiaceva affatto. Al Giglio, dicevano, sarebbe stato messo in programmazione tra due o tre mesi e sicuramente il prevosto avrebbe usato le forbici per tagliare qualche scena di troppo.

Meglio andare a Cassano, possibilmente allo spettacolo delle diciassette. Per me era troppo tardi: dovevo terminare alcuni compiti per il giorno successivo. La versione di greco mi aspettava e non potevo lasciarla a metà. Declinai l’invito, un po’ rattristato. Marco m’osservò con un fare paterno, e mi disse:

– Perché non mi hai portato la versione l’altro ieri a lezione? Almeno ti saresti trovato la domenica libera.

Aveva ragione. Maledettamente ragione.

Pazienza. Sarebbe stato per la prossima volta.

Feci per congedarmi dai vari gruppetti che stavano pian piano sciamando verso la piazzetta che si trovava tra il cinema ed il bar, per far ritorno a casa e tuffarmi in mezzo ai libri di scuola, quando Marco mi prese in disparte.

– Senti, ho capito che ti sei preso una cotta per Mariella… però è meglio che ti dia una calmata.

– No, ma che dici? Non c’è niente di vero…

– Guarda che a lei non interessi proprio per niente, è stracotta per uno che va a scuola a Gorgonzola. Un tizio dell’ultimo anno dello scientifico. Te lo dico subito, almeno non ti illudi.

Che batosta.

 


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