"Maria" di Elisabetta Miari


bambina 2

 

Maria sedeva raggomitolata sui gradini delle scale che portavano  in giardino.

Immobile e rigida come un manichino, sembrava voler assorbire i raggi di quel  sole pallido  di tardo pomeriggio per ricaricarsi e terminare  la discesa.

«Buongiorno.»  le disse il padre con un sorriso lieve.

Quel saluto appena appoggiato, si disperse nell’aria come una benedizione.

I saluti, come le persone, se non sono ricambiati se vanno altrove, in cerca di qualcuno che li accolga.

Maria non ce la faceva a salutare. Nessuno.

Forse le sembrava un’usanza barbara quella convenzione sociale, o una perdita di tempo.

Nel suo mondo non erano contemplate queste formalità.

Silenzio. La cosa più vera per Maria era il silenzio: una via lattea di non rumore, costellata da qualche parola, perlopiù domande e numeri.

Il fascino del mondo per lei si racchiudeva in un’unica grande certezza: tutto si può spiegare attraverso la scienza e i numeri.  Non esiste mistero che non sia risolvibile.

Maria  era piuttosto alta per la sua età, con  una struttura longilinea, che faceva intuire che sarebbe diventata una bella ragazza.

Il viso ovale e i lineamenti, forse ancora un po’ infantili per i suoi nove anni, erano ben tratteggiati, lievi, ma incisivi.

Gli occhi, scuri, e profondi, come un pozzo, erano spesso volti altrove, in cerca di un approdo.

Era raro incrociare il suo sguardo, anche durante una conversazione. Quando succedeva, era solo per qualche breve istante di passaggio tra un punto e l’altro.

I capelli biondi e lucenti come fili d’oro sottile, erano spesso legati per impedire che le cadessero sugli occhi. Assieme alla carnagione pallida, quasi opalescente, le conferivano un aspetto da elfo, da  creatura fantastica.

Il rifugio di Maria era la sua mente. Lei viveva lì, in un cantuccio dal quale elaborava ogni dato come un computer, filtrando e decodificando la realtà circostante, in un processo di inevitabile isolamento dal mondo.

Occorreva chiamarla più volte perché uscisse da sé .

«Svegliati Maria!»  le  diceva spesso il padre in modo un po’ brusco  «non puoi stare sempre nel modo dei sogni, cosa penserà la gente? Che sei strana, ecco quello che penserà.»

Maria riabbassava lo sguardo senza dimostrare interesse, mentre la madre, che sempre più spesso le veniva in aiuto, ammoniva il padre:

«Lasciala stare Carlo, cosa ti  fa di male? Lo sai che lei pensa alle sue cose  di continuo, è una bambina  intelligente e noi non possiamo sapere cosa le passi per la testa.»

A quel punto Carlo scuoteva il capo poco convinto e usciva dalla stanza, lasciando la moglie perplessa a guardare la figlia, che non si era resa conto di niente, o così sembrava.

Uno sguardo indagatore il suo, intriso di tenerezza e amore.

 

Solo sei mesi prima i genitori di Maria  avevano ricevuto una notizia non facile da digerire.

Carlo e Lara Montanari, due persone normali, con una vita senza troppe distrazioni, o colpi di scena, che aveva consentito loro di arrivare indenni fino a quel momento, avevano dovuto prendere coscienza della situazione, in modo brusco e improvviso.

Da qualche mese Maria era più chiusa del solito e tendeva a non cercare nemmeno la compagnia di quei pochi amici  che aveva. A parte la sua amica del cuore e compagna di classe dalla scuola d’infanzia, Lucilla Ferrari, che per lei rappresentava, assieme alla madre e al padre, il suo minuscolo universo affettivo.

Lara l’aveva osservata a lungo e, con l’intuito che solo una madre possiede, aveva determinato che c’era qualcosa che non andava  e che doveva portarla da uno specialista.

Il medico, una neuropsichiatra infantile, dopo aver parlato con i genitori  e osservato  Maria, che si muoveva nella stanza come se fosse  sola in un’altra dimensione, suggerì di sottoporre la bambina ad una valutazione psicologica presso una struttura specializzata in patologie connesse ai disturbi della personalità.

Maria venne quindi portata per tre pomeriggi di fila all’ospedale neurologico Carlo Besta, o Bestia come lo chiamava lei, dove fu filmata, questionata, e sottoposta, a numerosi test, mentre i suoi genitori, un po’ smarriti in questo nuovo mondo sconosciuto, rispondevano alle centinaia di domande che una giovane neuropsichiatra  di supporto poneva loro.

Occorreva redigere l’anamnesi della bambina.
Alla fine arrivò la diagnosi: sindrome di Asperger.
Fu come uno schiaffo, inaspettato, e offensivo. Arrivò secco, e violento,  in tutta sua gravità e li lasciò muti per qualche istante, con un groppo alla gola che gli impediva di reagire come avrebbero voluto. Non certo con  indifferenza, quanto piuttosto con un’apparente e pacata razionalità, che avrebbe rassicurato i dottori che erano persone in grado di affrontare la  situazione.

La prima a parlare fu Lara, che riuscì solo a dare voce alla prima paura che le passò per la testa:

«Potrà avere una vita normale?»
Questo, in fondo, importa alle madri,  una vita normale per i propri figli.
La psicologa e la neuropsichiatra, che avevano dato insieme  la notizia ai genitori, sedevano in maniera informale, di fronte a loro, in una stanzetta senza scrivania. C’era una penisola con due computer e troppe scartoffie.

Le due dottoresse avevano un’espressione dispiaciuta ed empatica. Si scambiarono un breve sguardo, prima che la più giovane delle due rispondesse.

«Signora, Maria è una bambina normale da un punto di vista fisico, la sindrome di Asperger rientra nello spettro autistico, è vero, ma ad alta funzionalità.»

Si fermò un istante a scrutare i loro volti per accertarsi di aver convogliato un messaggio rassicurante, ma capì che non era così.   Forse per lo shock, o forse per la poca dimestichezza che avevano con la materia, ma  questi due genitori continuavano a guardarla con occhi  pieni di paura e di dolore.

Era sempre difficile comunicare le diagnosi ai parenti dei piccoli. Nonostante passassero gli anni e lei diventasse ogni giorno più esperta in questa pratica, triste ma necessaria, ancora  non riusciva ad essere distaccata.

Era il dopo quello a cui pensava in quei momento,  a quando le famiglie sarebbero tornate alle loro vite e avrebbero dovuto fare i conti con qualcosa che fino a qual momento gli era sconosciuto e che  gli avrebbe cambiato la vita.

Proprio non ce la faceva a non farsi coinvolgere la dottoressa Simona Prati, una donna di quarantuno anni, sposata da dieci. Medico infantile per vocazione e senza figli per una beffa del destino.

O forse non voleva neppure essere distaccata, perché le sarebbe sembrato di averci perduto il cuore tra quelle carte e quelle stanze opache illuminate al neon, tra quegli odori, e cattivi umori. Quindi ogni volta s’immaginava quelle madri che avrebbero pianto la notte in silenzio nei loro letti, protette dal buio per non essere viste dai loro mariti, ai quali avrebbero fatto credere che tutto era sotto controllo.

Si scrollò di dosso quei pensieri ricorrenti e schiarendosi la gola e continuò: «Maria è sempre la stessa bambina di prima, per voi non cambia nulla, solo che ora sapete il perché di certi suoi atteggiamenti e come affrontarli.»

Carlo e Lara annuirono mesti e la Dr.ssa Prati continuò: «I test del QI hanno dimostrato che Maria possiede un’intelligenza al di sopra della media,  che è intorno a un valore di 90/100 mentre  lei è 130. Abbiamo notato che sembra essere più  portata per le materie scientifiche e che si esprime in maniera forbita Nel disegno poi, ha dimostrato un talento naturale.»

Lara si lasciò sfuggire un sospiro.  Sentiva che in qual preciso istante le forze la stavano abbandonando e si chiedeva come avrebbe fatto ad affrontare la situazione, ad essere all’altezza.

La dottoressa Prati la guardò con più attenzione e  vide innanzi a sé una donna forte e coraggiosa, anche se in quel momento piegata dalla vita. La luce lieve della stanza pareva infossarle gli occhi e scavarle il viso. La mascella serrata e l’aria determinata le indurivano il volto minuto e gli occhi scuri sembravano bottoni in un’ asola troppo grande. Fuori da quel contesto sarebbe sembrata molto più graziosa. Ma l’esercizio di certe funzioni torchiano il senso della bellezza. Sospirando Lara si scostò i capelli chiari dal viso, fissandoli dietro l’orecchio e fu in quell’istante che la dottoressa comprese la somiglianza con la figlia e capì, come d’istinto, il legame fortissimo, non solo fisico, che le univa.

Il silenzio imbavagliò la stanza per alcuni secondi. Una sospensione temporale d’ansia e domande senza risposta. Questi pochi istanti consentirono a Lara di riprendersi e di stringere la mano del marito, che invece non sembrava affatto reagire, e questo la preoccupava.

Seduto, con le spalle ricurve, e l’aria di chi ha già dato, e che con  difficoltà potrà trovare la forza per dare ancora, Carlo ascoltava la dottoressa e la moglie che parlavano di Maria. Quella figlia che aveva criticato, sgridato, solo per il suo bene, per spronarla a fare meglio, senza capire però, senza comprendere.

Era esausto.

Ora, innanzi a quel problema che sembrava una montagna da scalare di cui non si poteva scorgere neppure la vetta, si sentiva senza forze, fiato, e gambe.

Carlo taceva, teneva dentro di sé il mostro della sofferenza e  suo aspetto ne  risentiva in modo visibile.

A chi lo conosceva, sarebbe parso più vecchio in quel momento. I capelli ancora molto scuri, sembravano più radi. Gli occhi verdi, di solito vivaci, non filtravano più nulla: due finestre spalancate su un’anima spaventata.

Dall’alto del suo metro e novanta, sembrava come appoggiato su una sedia troppo piccola.

Ascoltava le due donne e pensava alla sua bambina. Aveva capito che si comportava in quel modo non per stranezza, cattiveria, o sbadataggine, ma perché era nata così. Un difetto nel sistema. O forse non era un difetto. Forse per la sua piccola non provare troppe emozioni e non perdere tempo a decifrarle, rappresentava invece la perfezione. In quel caso sarebbero stati gli altri a essere difettosi.

Ci si arrovella tutto il tempo su problemi inutili, pensò Carlo, ci si crogiola nelle nostre piccolezze e ci si strugge per i nostri sentimenti volubili. Pensiamo che il mondo ci guardi anziché il contrario, e consideriamo solo importante  e grande tutto ciò che ci riguarda.

Maria è troppo intelligente per curarsene, rifletté Carlo provando una specie di sollievo, e gli venne quasi da sorridere

Poveri illusi, gli venne da dire, forse è meglio razionalizzare e semplificare tutto come fa lei, e così fu colto da un guizzo di speranza. Provò a considerare la bambina come un dono, come uno strumento di Dio per imparare a guardare il mondo con gli occhi dei giusti e non degli stolti egocentrici che siamo.

Ripensò alla loro vita dalla nascita di Maria, a come la famiglia si era solidificata intorno al silenzio della bambina, che anche quando parlava, lo faceva con un tono di voce basso e monocorde, e mai per troppo tempo.

Il senso di silenzio che trasmetteva Maria era qualcosa di diverso, d’interiore, come comunicasse con il pensiero. Un’aura di non rumore sembrava avvolgerla e sussurrare un sibilo impercettibile agli umani.

I vicini di casa erano felici di questo silenzio irreale. Quando Lara era incinta cominciarono a lamentarsi in via preventiva, da brava coppia di mezza età senza figli che non sopporta lo schiamazzo dei bambini.

Passati i primi tre mesi però, in cui ogni bambino piange  a meno che sia muto, si resero conto che le loro paure erano ingiustificate.

Faceva più rumore la giovane coppia al piano di sopra, che litigava troppo spesso per i loro gusti, urlando a squarciagola ogni genere di insulti. Lui usciva e tornava alle tre del mattino e lei a sbraitargli dietro. A volte volavano oggetti e venivano persino alle mani.
Nell’appartamento di Maria, invece, regnava una pace insolita.

«Carlo ci ascolti?» fece Lara, all’improvviso toccandogli il braccio «sembri da tutt’altra parte. La dottoressa ci stava spiegando com’è meglio comportarsi con Maria.»

Carlo si scosse ed ebbe un tremito. Faceva freddo nella stanza.

«Si certo.» rispose, mentre avrebbe voluto urlare a quelle due donne che non ne sapevano un cazzo di come ci si sarebbe dovuti comportare con sua figlia. La conoscevano bene forse? Erano mai stati avvolti dal suo silenzio per giorni, mesi e anni? No, però erano dottori e come tali, in quel contesto, avevano il diritto di parlare.

«Dovete solo fare i genitori, non vi è richiesto di essere psicologi o medici, ma solo di fare quello che avete fatto sinora, ma con la consapevolezza del problema, quindi dare meno importanza a certi suoi atteggiamenti.»

Si fermò sorridendo, rivelando una dentatura che non aggiungeva certo fascino a una già scarsa avvenenza.

«Maria, come tutti i bambini, ha bisogno di amore, di essere guidata, contenuta, e anche sgridata, nei dovuti modi. Insomma continuate a trattarla come al solito.»
Tutto qui?

Lara, che faceva sempre più domande del marito, scalpitava per riuscire a chiarire le proprie perplessità.

«Vuole dire che non dobbiamo dirglielo? Del suo problema intendo.» chiese non appena riuscì a farlo.
«Le andrà detto, certo, ma i tempi e i modi sono soggettivi e di solito vengono gestiti e supportati da una psicoterapeuta. Un percorso a lungo termine di psicoterapia, specie se di gruppo,  gioverà di sicuro a Maria. Aiuterà anche voi, e le fornirà gli strumenti  ad affrontare l’adolescenza che è un momento abbastanza difficile per gli Asperger.»

«Perché è così difficile?» chiese questa volta Carlo in maniera inaspettata, e la dottoressa Prati sorrise. La domanda le fece piacere, quasi se l’auspicasse.

«Perché alla difficoltà nel decifrare le proprie emozioni, tipica di questa sindrome, si unisce anche il subbuglio ormonale che genera a sua volta confusione, disorientamento, e inadeguatezza. Viene tutto amplificato, insomma.»

«Bene» balbettò Lara con desolato sarcasmo, e guardò il marito scuotendo la testa incredula del fatto che stesse capitando proprio a loro e infine aggiunse caustica: «ci sono altre belle notizie?»

Le due donne sorrisero ancora, ma solo per stemperare la tensione e questa volta fu la psicologa, che era stata sempre in silenzio sino a quel momento, a parlare:

«Vi chiameremo per comunicarvi il nome di uno psicoterapeuta che sia in grado di prendere in cura Maria, qualcuno che abbia già lavorato su questa problematica. Non sono tanti  in verità, questa sindrome è stata identificata non molti anni fa e in Italia è se ne è cominciato a parlare  solo di recente.»

Fece una pausa, guardò la neuropsichiatra, che la fissò di rimando e concluse:

«Penso che per oggi possa bastare, sempre che non abbiate altre domande.»

Lara e Carlo si guardarono, scavandosi negli occhi in cerca di qualcosa che potesse essere sfuggito,  ma non gli venne in mente  nulla.

«No, nessuna domanda, per ora, grazie.»

Si alzarono così  in piedi e furono accompagnati alla porta dove, strette le mani e ringraziato ancora, e ancora, ma senza troppa convinzione, si incamminarono lungo il  corridoio più tetro che avessero mai percorso.

 

Carlo e Lara uscirono dall’ospedale che era già buio.

L’aria secca, e cattiva, di quella sera di metà febbraio aveva un che di persecutorio. Si strinsero nei loro cappotti rabbrividendo. Lei lo  prese sottobraccio nel breve tragitto sino alla macchina.

Non una parola  fu pronunciata durante il viaggio. Solo pensieri che aleggiavano nell’abitacolo, senza incontrarsi.

Paura e sconforto. Senso d’impotenza. Due anime che piangevano in silenzio. Una triste danza. Il dramma di una vita che sa colpire dove fa davvero male, negli affetti più cari.


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