"La Pescatrice di Voci" di Daniela Vanillo (parte quarta)


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PARTE QUARTA RACCONTO E TRADUCO

Siamo in piscina e vicino a lei una bambina le parla, sono molto preoccupata. Spesso devo intervenire per stemperare la situazione un aiuto una spiegazione una parola che manca, oppure tante parole come tante stampelle. Questa volta va bene, forse la bambina che le parla ha centrato l’argomento che apre la conversazione che apre la sua mente.

È bello vederla parlare ed incantata fermo il tempo. È passato un giorno. L’incanto è svanito. Il giorno dopo si ripresenta la stessa situazione ma questa volta la chiave non apre la stessa serratura e l’incontro non avviene. Una mia frettolosa spiegazione alla mamma ed alla nonna della bambina: “Mia figlia non è maleducata è diversa”.

Poi cerco la risposta e chiedo a mia figlia di spiegarmi la differenza fra le due situazioni e questa volta inaspettatamente risponde:

– La sua faccia non la ricordo e poi non riesco a fare due cose insieme, ieri ero libera oggi ero occupata stavo leggendo così non potevo salutarla. Voi riuscite a fare più cose insieme io faccio a malapena una cosa, quindi devo analizzarla e poi se riesco, la eseguo ma così perdo l’attimo. Ma la mia spiegazione è nulla non serve quelli come me sono la minoranza e quelli come voi la maggioranza che vince sempre e che quindi è nel giusto” poi continua a leggere camminando.

Che strano mondo sospeso è il mondo di alcuni di questi ragazzi, un mondo privato, dove la decisione psicologica involontaria del ritiro sociale li porta ad allontanarsi dal mondo reale, sterile e privo di spontanei desideri. Maria racconta:

– Un giorno mi sono accorta che non ero un gatto. Non ho mai capito bene cosa io fossi, semplicemente non me lo sono mai chiesta. Certe differenze non le notavo e non pensavo fosse importante capire cosa ero e dove camminavano. L’importante era che il suolo sotto ed il vuoto attorno a me non fossero rumorosi. Poi ho semplicemente guardato verso una finestra aperta e mi sono girata verso un essere nero e peloso con due occhi verdi che mi osservava. Non ero abituata ad essere osservata. Mi sono guardata, non ero nera e non avevo peli. Ho chiesto ad una persona, quella che si faceva chiamare nonna, cosa fosse. La nonna mi rispose che era un gatto cioè un animale.

Avevo circa quattro anni così mi ha raccontato mia madre. Da quel giorno ho incamerato il fatto che le differenze fanno la differenza e che il mondo dei gatti era più simile al mio di quanto non lo fosse quello degli esseri umani: “Adoro i gatti!”.

Come loro amo essere lasciata in pace nascondermi e non essere trovata, essere chiamata e non sentire o non rispondere. Nessuno vuole capire che sono in una dimensione parallela dove esistono anche i nostri contrari e cioè l’opposto di ciò che siamo nella versione “abitante della terra”.

 

Nella versione “abitante della terra”.

Maria gira per la casa, ma il suo giro finisce sul divano. Lenzuolino sulla testa e procione in mano. Seduta accanto a lei, la vedo dondolarsi. Le chiedo se facciamo parlare “Sophia” ma non risponde, siamo nel 1997 ha circa due anni.

Mi sono sempre chiesta dove andasse sotto il lenzuolino con i topolini. Quando passava troppo tempo cercavo di avvicinarmi lentamente per cercare la sua attenzione oppure, la prendevo in braccio con garbo. Era comunque un risveglio. Con la fretta la perdevo. Mi sentivo alla stazione ferroviaria aspettando qualcuno che non ti dice quando tornerà e se tornerà!

 

Non ti dice quando tornerà e se tornerà!

Mi sono sempre ripromessa, se ne avessi avuto la possibilità, di chiederle una volta cresciuta, di descrivermi i suoi viaggi ed i luoghi visitati in quel posto senza tempo dove le voci scompaiono.

Siamo in soggiorno lei sul divano bianco, io seduta sulla poltrona vicino a lei sempre con lo stesso pensiero: “Cosa faccio? Come faccio?” Nessuno mi tranquillizza, tutti mi dicono il contrario di ciò che pensano assecondandomi.

L’imbarazzo degli altri è molto più esaustivo di mille parole certe pause certi sguardi che si incontrano complici mi hanno sempre ferita di più della voce della verità.

Maria racconta:

– Non so cosa volete da me. Volete che parli? Che dica delle cose intelligenti? Ma perché, se le avete dette tutte voi. Io non ho nulla da dire e se mi fate una domanda scontata, non ho proprio una risposta. Spesso non so cos’è una risposta. Io voglio solo essere lasciata in pace. Alla vostra urgenza di comunicazione, alle vostre ansie dovete provvedere voi dato che per voi è una passione parlare. Io la mia l’ho trovata ed un giorno se riuscirò la racconterò. Mamma tu sei la persona che mi rispetta di più ed alla quale Dio ha dato una voce perfetta che non mi disturba come tutte le altre, mi chiedo come abbia fatto! A me le voci ed i rumori infastidiscono e quindi sono fortunata quando riesco a non sentirli.”

Maria racconta il viaggio sotto il lenzuolino:

Sono qualcosa e sono in un posto con tanti fili uno dentro l’altro e continuo a camminare senza sosta. Mi sento tranquilla non ci sono rumori non ci sono voci che mi rincorrono nessuno mi toglie le mani dal viso. C’è pace e la strada che percorro è a strisce nere e gialle, tutte uguali. Io ed il mio procione camminiamo e sono in pace. Incontro un topolino, tanti topolini sorridenti con la coda sollevata. Guardo le loro scarpe sono buffe, guardo i miei piedi e non li trovo. Mi chiedo se queste strade portino da qualche parte ma poi non mi interessa, è un luogo sicuro ed un giorno parlerò con topolino. Lui mi sorride sempre insieme ai suoi amici mentre saltella allegramente. Mi vieni in mente, è tardi e se sono stanca sentirò la tua voce perfetta. Tu mi togli il lenzuolino e mi asciughi la testa perché sono sudata.

Quando succede tutto questo Maria ha due anni e mezzo. Mi racconterà queste sensazioni all’età di otto anni.

Mi impegno per distrarla per non perderla. Non voglio che si perda in quel mondo che non conosco, sento che è molto facile ma io non mi distraggo e per far questo abbandono tutto. La mia speranza e l’incertezza degli altri, sono la mia forza. Niente di definitivo tutto possibile e tutti impreparati!

Quando Maria non parlava più, e dopo mesi era riuscita a chiedere un bicchiere d’acqua all’insegnante della scuola materna, mi raccontò come la voce fosse tornata.

Maria racconta:

– Mamma io gridavo imprigionata dentro la gabbia del mio corpo ma tu non mi sentivi ed io non riuscivo a toccarti perché la voce intrappolata me lo impediva”. Ero proprio in fondo e non riuscivo a sentirti. Io e la mia voce non riuscivamo a raggiungerti. Ma tu cantavi sempre, mi facevi galleggiare nell’acqua, facendomi sentire leggera e trasparente. Balli e giravolte, le stesse che ora faccio quando sono nell’acqua. Mi mostravi tutti i giorni, colori e giochi nuovi, sempre diversi. Io però volevo rimanere sicura dentro lo stomaco, ma poi riuscivo ad ascoltarti, ed era bello pensare di stare con te. La tua voce perfetta mi attirava e non volevo stare lontana da lei. Ero sempre dentro lo stomaco in compagnia della mia voce, piano piano risalivo ma la voce precipitava, mentre la tua voce diventava sempre più forte. Capisco che sto per tornare perché mi abbracci forte. Tu fai sempre così quando parlo ed ora so che tu mamma sei “Una Pescatrice di Voci”.

 

Una Pescatrice di Voci

Maria frequenta la scuola elementare ed io cerco sempre di capire come darle le istruzioni d’uso più adatte al suo stato di vita. Quando intuisco che non è nel suo “scampolo d’assenza” che non si trova nel posto dove non mi sente, cerco il vantaggio, l’attimo e se mi pone delle domande, ci metto molta attenzione anche se la domanda è incomprensibile o richiede del tempo per la spiegazione.

Maria domanda:

– Mamma, ma se qualcuno mi manda “a quel paese” io ci devo andare? Ma, tutti vanno a quel paese? Lasciano tutto e vanno? Ma prima qualcuno gli spiega dove si trova e perché ci devono andare? E ancora, quanto tempo ci si impiega per arrivarci?

Io le rispondo che no, non tutti “vanno a quel paese” ma ce li manderei io. Tanti di quelli che ho incontrato quelli che si sono avvicinati impreparati e superficiali. Ho spiegato che sono frasi che si dicono per sottintendere qualcosa di diverso sono modi di dire che non hanno il significato delle parole che sente.

Lei prende tutto alla lettera e questa spiegazione vale solo per questa frase fino alla prossima frase allegorica. Insomma nella frase “fa un freddo cane”, lei non capisce perché il cane abbia freddo dato che è dotato di pelliccia! Inoltre perché l’uomo dovrebbe aver freddo come un cane? E non ultimo: “Chi ha detto a chi, che il cane ha freddo!” Inoltre a noi cosa interessa se il cane ha freddo! Ma perché gli altri si interessano al freddo del cane!

Nel corso degli anni ogni doppio senso le è stato spiegato e lei mi ha sempre fatto capire che noi siamo complicati! È di certo più facile dire come stanno le cose senza giri di parole. Più avanti, le ho fatto l’esempio del modo di parlare di alcuni politici, e del loro modo incomprensibile di comunicare!

Le spiego che il doppio senso è utilizzato da chi non vuole dire quello che dovrebbe o vorrebbe dire e lo usa anche chi dice una cosa, ma poi spiega che non intendeva dire quella cosa in quel senso, ma di certo voleva dirne un’altra. Le allegorie e i doppi sensi la fanno ridere e divertita ne cerca sempre di nuovi. Il suo divertimento è un mezzo, un argomento per mettersi in contatto con me ma se percepisce che non mi diverto almeno quanto lei inizia il ritiro, accompagnato dalla delusione.

Ogni tanto ci provavo, tentavo di porle la domanda sul perché non voleva relazionarsi. All’età di dieci anni mi risponde così:

– Mamma, sento dentro di me la tua ansia che mi porta a respirare in un modo strano. Devo rincorrere il respiro quando mi sento così. Stai tranquilla io sono felice. Siamo tutti come frutti alcuni interi, alcuni spezzati. Io sono intera sono completa, non mendico alla ricerca dell’altra parte di me. Non sono stata spezzata dalla nascita. Per come agite nella vita voi sì! Lo siete! Io invece non sento i bisogni, i desideri di qualcosa o di qualcuno e non ho aspettative. Siete voi gli spezzati come delle mele tagliate in due. Il mondo spreca la vita nella ricerca di parti di mele che per lo più non coincidono con la metà di colui che le ricerca. A volte pensate di aver trovato la parte spezzata, vi fermate felici e vi illudete. Ma è solo una ubriacatura effimera, un momentaneo adattamento fatto poi di strappi e delusioni future. Per me né amici, né compagni, né mariti, né figli!”

I problemi alle scuole medie sono iniziati. Con gli insegnanti non ci si capisce, le certificazioni non finiscono mai le spiegazioni e le delucidazioni non sono esaustive. I certificati scadono come prodotti alimentari e corriamo a destra e a sinistra per tre anni. Per il triennio ho scelto ancora una scuola privata che pare ben frequentata, così pensavo. È un ex collegio restaurato di stampo cattolico. Penso che per orientamento abbiano un certo tipo di sensibilità verso le persone come mia figlia. L’insegnante piace a Maria.

Un giorno sono estremamente in ritardo, non lo sono mai. Come dicevo sono in ritardo e quindi Maria mi aspetta in segreteria, così erano gli accordi in caso di ritardo. Purtroppo al mio arrivo, non c’è.

Il territorio della scuola è vasto ed io inizio a correre. Su per la scalinata fino alle classi, giù nel refettorio percorrendo il sotterraneo e ancora su per le scale in giardino in palestra ed ancora in cortile. Sono angosciata e sfinita. Torno in segreteria e chiedo se l’hanno vista, ma niente. Allarmati mi aiutano a cercarla. L’hanno portata via? Lei non si oppone, non sa difendersi. Disperata penso al peggio quando da lontano e con il respiro affannato vedo una scarpa, la riconosco è la sua. Corro e con gli occhi cerco il suo viso. Mi avvicino chiamandola. La scarpa giace abbandonata vicino al fondo scala. Vedo il piede senza scarpa apparire dalla parte più estrema e nascosta dello scalone. È sicuramente scivolata dalla scala penso e nessuno se ne è accorto. L’insegnante è andata via e non l’ha accompagnata in segreteria. Non succederà più. Maria mi guarda e allunga le braccia verso di me, io mi chino e l’abbraccio forte forte. Poi guardo dove si può essere fatta male e mi accorgo che il suo ginocchio è sanguinante, capisco sollevata nel cuore che è andata bene. Le chiedo se ha dolore in qualche parte del corpo. Mi abbraccia. La sollevo prendendola in braccio. In direzione andrò il giorno dopo, nel frattempo vado dal medico.

Maria racconta:

– Ho sentito dire che sono un “bradipo” l’animale più lento del mondo così mi chiamano gli studenti della scuola per la mia lentezza. Sono i ragazzi più grandi che mi chiamano bradipo, così mi hanno spinta. Volevano vedere quanto ci mettesse un bradipo, a scendere le scale volando. In cima ero l’ultima della fila e nessuno li poteva vedere.

Il giorno dopo furiosa vado in direzione e mi chiedono di fare poca pubblicità. Pubblicità o no, devo capire cosa è successo! La scuola farà le sue indagini silenziose. Mi calmano assicurandomi che mia figlia sarà protetta ed i colpevoli se esistono saranno puniti. Io non mi rassegno, le loro parole non sono per nulla convincenti e decido di attuare una strategia tutta mia. Parto con delle indagini basate sulle differenze intervenute dopo l’accaduto.

Il giorno dopo vado a prenderla.

Mi avvicino lentamente alla scuola un po’ prima che suoni la campanella. Osservo mia figlia e le persone che le sono attorno al momento dell’uscita. Sono le quattro e tutti i genitori sono accalcati sulla gradinata ad aspettare il suono della campanella. Io aspetto i colpevoli, sono testarda e so che fra i tanti che escono c’è il persecutore di Maria. Guardo soprattutto chi la guarda e i suoi movimenti; infatti, quando lei esce lo fa con sospetto guardandosi attorno come lo può fare lei, ma ora lo fa in un modo diverso, come se avesse paura. Vedo poco più in là tre ragazzini che parlano girandosi verso di noi. Individuati! Loro ed anche i loro genitori. Sottovoce avviso Maria dicendole di non aver paura che ora sapevo chi erano quelli che l’avevano spinta e che avrei sistemato tutto.

Il giorno dopo è il giorno della verità.

Mentre aspetto il suono della campanella individuo la madre di uno dei ragazzi più grandi. Mi scuso per l’invadenza, mi presento e le chiedo se può chiamare il figlio. Il ragazzo a guardarlo da lontano si presenta molto più grande della sua età e potrebbe frequentare la terza classe. È molto alto almeno un metro e ottanta ed ha un fisico corpulento, capelli mossi ed occhi scuri. Avanza timidamente scendendo dalla gradinata e scorgendomi con sua madre, si ferma e si gira verso i compagni. Un ultima occhiata e poi avanza un po’ impacciato. Sto cercando nel suo avanzare lento, di capire, di leggere in qualche movimento la sua colpa.

C’è un modo per iniziare questi discorsi? Io non lo conosco! Non ho esperienza sto cercando le parole, d’altronde non ho prove e chiunque sia stato a spingere mia figlia dalla scalinata, per almeno quaranta gradini, crede che lei non possa parlare. Poi penso che dietro le sembianze di un uomo c’è poco più di un ragazzino. La madre stranamente non mi chiede il motivo della richiesta.

In silenzio attendiamo il suo arrivo. Maria è rannicchiata nel sedile posteriore dell’auto ed è agitata. A lei non posso chiedere se conosce il ragazzino, ma a lui sì.

Il ragazzo finalmente è arrivato e la madre mi precede nella domanda chiedendo al figlio se mi conosce. Senza tentennamenti, il figlio risponde che sono la mamma di Maria dicendo la frase: “Sai… quella bambina…”

Tento ancora di parlare ma la madre freneticamente mi precede. Gli chiede se conosce Maria e come mai la conosce dato che hanno un’età molto diversa; infatti Maria ha undici anni e lui quindici.

Mi rendo conto che è un ragazzo ripetente e osservandolo mi porta alla memoria i ragazzi delle classi differenziali degli anni sessanta. Allora, chi aveva problemi di apprendimento, o non studiava veniva inserito in una classe differenziale frequentata da bambini dai sei ai sedici anni, con le conseguenti problematiche di relazione e di autostima.

La madre lo incalza riproponendo la domanda. A quel punto il figlio risponde:

– Io con quella faccenda non ho niente a che fare”.

Lo guardo e penso: “Li ho trovati!”

Bene, ora li conosciamo ora è finita. Dopo la risposta inizio io a parlare e la comprensione per l’età è svanita e sono furiosa! Domando subito:

– Chi sono gli altri?” Ma come vi è venuto in mente di spingere una bambina indifesa giù dalle scale con premeditazione?

Il ragazzo risponde:

– Me lo hanno fatto fare gli altri, volevamo divertirci a vedere come quel bradipo volasse giù dalle scale.”

Ero furiosa e gli risposi:

– Sei grande e grosso, se io che sono una persona adulta ti incontrassi di sera, in una strada buia con la faccia che hai me la darei a gambe! Quella bambina ha un nome ed è molto più coraggiosa di te. Ha sempre subito le vostre gesta e sentito i vostri commenti sgradevoli e non si è mai lamentata. Ogni mattina si è presentata come un bersaglio mobile ricevendo i vostri insulti. Non vi avrebbe mai denunciati al preside. Siete solo dei vigliacchi!

La madre apprende il motivo della mia brusca presentazione proprio in quel preciso momento. La guardo mentre si scaglia sul figlio con male parole e con ceffoni, tanto che nel frastuono non mi accorgo del loro brusco allontanamento e resto seduta sulla gradinata con lo sguardo pensieroso ed attonito. Maria scorge il viso dal vetro interno del finestrino posteriore della macchina. Scorgo i suoi occhi azzurri che mi cercano mentre mi alzo dal gradino e penso che tutto è finito. Sono soddisfatta domani andrò in direzione e mentre mi avvicino alla macchina, mi giro stupita e consapevole che ora la situazione è sotto controllo.

Il giorno dopo mi reco in direzione perché la scuola prenda atto della situazione e successivamente provveda a contattare i tre ragazzi e le loro famiglie. Mi rassicurano chiedendomi nuovamente di non fare troppa pubblicità. I ragazzi saranno richiamati, ma nessuno porgerà delle scuse né a me né a Maria.

Da quel giorno lei non si fermerà più a mangiare nel refettorio che si trova nei sotterranei, preferisco non lasciarla mai sola. Erano proprio il refettorio ed i corridoi dei sotterranei i luoghi dove veniva insultata.

Maria nei i tre anni della scuola media non parlerà mai più dei compagni. Riconosce tre compagne che erano nella sua classe alle elementari, ma solo quelle. Degli altri sente il nome quando fanno l’appello ma per lei sono senza faccia.

Mi racconta, che quando riesce finalmente ad abbinare la voce al volto il riconoscimento non dura per molto tempo. Se poi il compagno effettua un cambiamento, anche solo il taglio dei capelli, lo perde e si ricomincia da capo con l’identificazione visiva.

Lei possiede un limitato contatto oculare, non guarda mai il suo interlocutore negli occhi. Dice che se incontra lo sguardo degli altri le rubano i pensieri. Non che lei ne abbia di particolari, ma dice che sono solo suoi, non sono condivisibili né spendibili con nessuno.


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