"Olivier" di Christiano Cerasola


olivier

 

Questa storia appartiene alla raccolta di diciassette racconti “Uova Sbattute”, edito da Elmi’s Wold, 2013. Foto di Giovan Battista D’Achille.

 

Il Daparox con paroxetina lo ingoiavo con il caffè, poi mi fumavo una sigaretta, mi facevo un altro caffè e me ne fumavo un’altra.

Poi prendevo lo Zyprexa con olanzapina.

Raggiungevo così la quantità di veleno necessaria per uscire di casa e affrontare la giornata. Questo rito si è ripetuto tutte le mattine, tutti i giorni, per vent’anni.

Fino a sei mesi fa.

Ho scattato fotografie per vent’anni, una vita. Sono stato il migliore fotografo per due decenni, nessuno mi ha spodestato dal mio trono, hanno provato in molti, senza riuscirci, senza nemmeno avvicinarsi a me.

È che il mio era talento, inclinazione, disposizione. La mia era arte. Gli altri scattavano solo fotografie. Cercavano, illusoriamente, di fermare sulla pellicola un attimo, uno sguardo, un frammento, tentavano di impressionare la pellicola, senza venire impressionati dalla poesia, dalla luce. Stupidi. Concentrati su quello che inquadrava l’obiettivo ma miopi su tutto il resto. Ciechi. Sicuri e arroganti della loro arte, poverini, dispersi nell’illusione.

Ma non io, consapevole custode di un dono più grande.

Io ero feroce e combattivo, abitavo in Rue du Faubourg Saint-Honoré a Parigi, e avevo casa anche a Milano, Saint Barth e New York.

Regine, rock-star, dive del cinema, presidenti, Nobel e miliardari, tutti volevano i miei ritratti, volevano essere guardati da me, e immortalati nella mia poesia, nella mia arte. Proprio tutti.

Non sempre scattavo fotografie, lo facevo solo quando, e se, lo ritenevo opportuno. Quando c’era la luce adatta. Quando le circostanze lo permettevano, solo allora schiacciavo il pulsante della mia Hasselblad, senza aver timore di spazientire quelle persone, senza paura. Potevo spostare il luogo o la data dello scatto, quando volevo. Loro sapevano che sarebbero stati risarciti con una mia foto, con una foto che avrebbe fatto storia. Sapevano, tacevano e acconsentivano. Schiavi della loro vanità.

Arrivarono i soldi, i milioni, le uova alla “bonne femme” e le ostriche innaffiate con Poully-Fuissé, il Crystal, la cocaina, gli antidepressivi e il sesso. Ma mai l’amore.

Le donne e gli uomini più belli del mondo cercarono i miei occhi, alcuni li pretesero, ai più li negai. Ma non trovai mai l’amore

L’amore era riservato alla mia arte, alla camera oscura, all’obiettivo, al piano focale, al diaframma. Alla fotografia. L’amore tra un uomo e un’arte è un amore assoluto e io ero contraccambiato.

 

Poi arrivò il rifiuto, il rigetto.

Si insinuò in me lentamente, ma in maniera subdola e inesorabile. Tutto cominciò a perdere valore. I soldi, i riconoscimenti, i premi, le mostre, tutto.

In poco tempo venni raggiunto da una lucida e destabilizzante consapevolezza, da un momento all’altro mi scoprii triste. Assolutamente infelice.

Stanco di frequentare gente che si uccideva con le armi della lussuria, esasperato dalla bramosia di volere e possedere, e affaticato ad ascoltare solo sciocchezze.

Improvvisamente mi accorsi di me, e desiderai tutt’altro …

Come una farfalla che ha superato lo stadio della crisalide, costretta in un bozzolo troppo stretto, dispiegai le ali e spiccai il volo.

E decisi di vivere, scelsi di vivere.

Come un moderno Ulisse, me ne andai alla ricerca di me stesso, senza alcuna voglia di tornare. E sparii, feci perdere le mie tracce, mi dissolsi nel nulla… che poi divenne il tutto.

E iniziai a vivere, come un barbone, un senzatetto, un rinnegato. Sconfessato da quella società che mi aveva premiato.

Lasciai tutto quello che avevo.

Non c’era alcuna Penelope ad aspettare il mio ritorno.

Imparai a inspirare e espirare, a sentire il suono dei miei respiri.

Acutizzai gli altri sensi… mettendo la vista in secondo piano.

Tenni per un po’ la mia macchina fotografica, facevo le foto ai turisti sugli Champs-Élysées. Mandavo il mio amico Amir ai laboratori fotografici, per timore di essere riconosciuto. Riconsegnavo le foto a quelle persone di tutto il mondo e mi compiacevo di vedere le loro espressioni di soddisfazione. Con dieci euro, senza saperlo, ottenevano la foto scattata da un genio.

Perché io sono un genio della fotografia! Continuo a esserlo.

Poi una notte mi venne rubata l’Hasselblad e cominciai a vagare per Parigi, frequentando i bassifondi della città e mangiando nelle mense dei poveri, elemosinando i centesimi.

Ora non ho bisogno di molto, ho già avuto tutto, non necessito di nulla. Non voglio più né il consenso, né il riconoscimento. Adesso desidero vivere e guardare il mondo che c’è oltre l’obiettivo. Innamorarmi della luce, osservare come illumina, talvolta dolcemente, talvolta violentemente, i volti della gente, il mare, le mie mani. Voglio guardare il cielo e il mondo, senza fotografarlo… senza condividerlo con altri. Guardarlo e tenerlo solo per me.

Tradendo la mia amante.

Dormo spesso lungo il Tapis-Vert, giro tra i boschi, mi fermo sotto gli alberi. E penso.

Ogni tanto mi incanto ad ammirare il “bacino di Apollo”. È la fontana più bella di Parigi. Osservo quel dio che esce dalle acque, i cavalli dall’espressione furiosa, i tritoni che soffiano dentro le loro conchiglie per annunciare il suo arrivo. Apollo purificava dai mali fisici e morali. Apollo illuminava il cielo, dominava la luce. La luce…

Come Ulisse mi sono fatto crescere la barba e i capelli lunghi. Come Ulisse ha combattuto contro mostri e creature dell’Ade, così io ho immortalato i potenti e mi sono destreggiato, con abilità, tra i malvagi.

Ma a differenza di Ulisse che, partito controvoglia per combattere la guerra di Troia, le ha tentate tutte per tornare nella sua Itaca, io ho scelto di non tornare. Ho scelto di lasciarmi andare e di appartenere a questo mondo. In maniera assoluta. Nell’unica maniera possibile.

 

“… È estate. Un manovale ebbro di gioia di vivere, molto semplicemente, danza su un marciapiede. È bel tempo, è sera e il sapore della felicità e il desiderio d’amore gli fanno dimenticare l’ora. È la sua giovinezza che lo fa danzare, oppure è lui che fa danzare la sua giovinezza per farle dimenticare la fatica del cantiere, non si sa …”

  1. Prévert. (Il salone)

 

 

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