"Perdere la testa" di Mirko Giacchetti


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Non so quale scegliere: bianca o gialla?
“Mi scusi” la signora dietro di me cerca di attirare la mia attenzione.
La osservo. Dice: “se non deve comprare, c’è l’uscita senza acquisti.”
Prima di rispondere, guardo cosa contiene il suo carrello. Cerco di capire qualcosa di lei.
Il volantino delle offerte è piegato con cura. Diverse promozioni sono state cancellate con una biro. Ogni articolo ha un adesivo blu: venti percento di sconto. Ecco il criterio con cui riempie il frigorifero.
In un trionfo di confezioni e contenitori di plastica ci sono: verdure nelle sfumature di verde, giallo e rosso; selezione di formaggi in fetta, mezza forma e spalmabile; pasta formato fusilli, maccheroni e spaghetti; carta igienica doppio velo, morbida e resistente. Anche pane, legumi secchi e uova hanno la stessa pellicola che li separa dal mondo.
Niente carne.
“Devo solo comprare una borsa per la spesa” dico.
“Prima deve fare la spesa, poi comprare la borsa, altrimenti a cosa le serve?”
“Ho bisogno solo di quella, grazie” rispondo.
“Ma scusi, perché non ha fatto la spesa?”
Già, perché non l’ho fatta? Tra poco non dovrò mai più mangiare. Perché dovrei riempire la dispensa?
Su ogni confezione si riflette il neon. I carciofi sono squartati dalla luce fredda, le uova splendono, i fusilli giocano con le ombre delle spirali, la carta igienica emana purezza.
La signora ha la pelle lucida; quando sorride appaiono due gocce di luce ai lati della bocca. Tutta l’epidermide, o meglio la plastica che la avvolge e la protegge dal mondo, è ricoperta da uno strato di creme con prefisso “anti”: invecchiamento, rughe, età, espressività, umanità.
Sollevo lo sguardo verso il soffitto. Fisso il neon.
“Lo sa che con tutta la plastica che avvolge la sua spesa, potrebbe farci una coperta e usarla per soffocarsi?”
La signora sta per dire qualcosa.
“Siamo quello che mangiamo, – dico – o la plastica che compriamo!”
La bocca della donna si apre, ma non ne esce alcun suono.
Le faccio una smorfia. Arretra. Mi lancia un’occhiata e si allontana, trascinando il carrello.
Afferro la borsa gialla con la chiusura lampo.

Sono a casa. L’appartamento, il luogo che mi contiene come una confezione, sembra pulito e ordinato. Non vorrei che in qualche telegiornale possa sembrare il rifugio di una persona trasandata, disordinata e sporca.
Sono solo una persona confusa, ma pulita e ordinata.
Forse non sono una persona confusa, ma solo indecisa. Comunque, pulita e ordinata.
Penso se lasciare un biglietto, un ultimo scritto, una raccomandata posticipata; ma non è il caso. Non so ancora se sono una persona ordinata che ama in maniera confusa, oppure una persona che pulisce l’amore per difendersi.
Rifletto sui miei pensieri. Meglio non scrivere nulla; come sono stati in grado di vedermi, saranno anche in grado di capirmi.
Controllo la busta della spesa; c’è tutto. Prendo le chiavi, esco.
Sul pianerottolo trovo il figlio dei vicini. Da come mi guarda, si direbbe che ha già visto tutto.
Sbuffa per spostare una ciocca di capelli dalla fronte.
“Ciao, – dico – Guglielmo, vero?”
“Yo! Chiamami G. Perché G sta per G, come il punto.”
Come ho fatto a non capire? Indossa pantaloni più grandi del necessario. Una vestaglia modello canottiera. Un berretto di lana gli tiene caldo il cervello. Scarpe verde marcio senza lacci e un anello al dito medio. Il simbolo del dollaro gli pende dal collo. Bravo ragazzo, hai capito qual è il tuo guinzaglio.
Fauna metropolitana protetta: rapper di provincia.
Cerco di adottare il suo linguaggio: “Yo bello, come butta?”
“Butta ganza!”
Mi mostra un “cinque” a cui non rispondo.
Ho ventisei anni. Circa dieci in più della fotocopia italiana del modello “American Gangasta”.
“Hai un cellulare?”
Dalla tasca dei blue jeans ne estrae uno.
“G sta per Guglielmo, – dice – scusi se ho esagerato, ma sa…” il fesso arrossisce.
“Senti Eminem…”
“Oh, – mi mostra il palmo della mano libera – che Eminem, quello è sepolto. Io taggo Emis Killa!”
Ma come parla?
“Chi è ‘sto Mi Killa?”
“Emis, no Mi. Roba tosta, spacca brutto. Testi ganzi…”
“Non mi frega di Killa. Con quello – indico il cellulare – vai su internet?”
Mi guarda come se fossi un alieno. Come se fossi io fuori posto in un condominio a Segrate.
“Sì” risponde.
“Posso vederlo?”
Mi porge lo smartphone.
Sposto la borsa gialla nella mano sinistra e prendo la mela morsicata da seicento euro.
“Può fare foto e filmati?”
Risponde con un cenno.
“Immagino che ti fai le seghe guardando internet, vero?”
Il ragazzo G. crescendo non sarà mai un Signor G. Gli mancano la stoffa e la risposta pronta.
Arrossisce per la seconda volta.
“Con uno di questi mi hanno rovinato” urlo, lanciando il cellulare giù dalla tromba delle scale.
Guglielmo si volta, cerca di afferrarlo. L’impresa non gli riesce.
“Houston, – dico – abbiamo un problema: non sappiamo atterrare.”
Crash. Il tonfo sordo è la soluzione.
Guglielmo si volta e urla: “mamma!”
“Lo so che hai visto il filmato. Spero che la sega ti sia venuta bene, coglione!”
La mamma, l’unica che potrebbe chiamarsi G, dall’appartamento urla: “che vuoi?”
Chiamo l’ascensore e vado incontro al destino.

Non importa se Milano si scioglie sotto i colpi del solleone, si confonde nella nebbia o si perde nell’aria color polvere sottile, perché in piazza del Duomo ci saranno sempre turisti, colombi e milanesi. Certo, ci sono anche ambulanti con braccialetti, rompiscatole da ogni parte del mondo, emigranti tornati per un saluto alla Madonnina, rivoluzionari stufi di San Lorenzo, matti, barboni e forze dell’ordine.
Sono al capolinea. Staziono sui gradini della Metro e guardo il Duomo.
Giro di gradi centottanta. Alzo una mano e saluto.
“Ciao vecchia e cara linea gialla. Grazie per avermi portato” dico.
Un tizio sulla scalinata accenna una risposta con il capo.
Chi ha detto che i milanesi sono maleducati? Questo non mi conosce, eppure mi saluta.
“Senta, – dico – deve sapere: non sono una persona confusa, ma amo in maniera ordinata per pulire l’autodifesa.”
Aggrotta le sopracciglia, mi guarda per un attimo e accelera il passo.
Forse mi conosce, perché anche lui ha visto tutto. Non sembra il tipo “guardone informatico”, ma tanto cosa cambia?
Mi confondo nella folla. Prendo il mio cellulare coreano.
Internet. trovo il sito. Faccio partire il filmato.
Non lo guardo. Non voglio vederlo. Ricordo cos’è successo.

L’odore di chiuso, la polvere ovunque, la muffa sui muri, il bianco scrostato, gli spifferi che sfuggono dalle finestre. Una lampadina pende dal soffitto. Un letto sfatto, la poltrona rossa e il pavimento in legno.
Conosco questa stanza. Sono nel casolare perso nel groviglio delle statali di Rozzano.
Era il luogo dell’amore, dei baci rubati e delle nostre anime abbracciate. Poi è diventato l’anticamera dell’inferno, il preludio alla dannazione, l’inizio della mia vergogna.
Dice: “Scopiamo.”
Non lo chiede, lo ordina.
Vorrei resistere.
Oppormi.
Dire: “No!”
Ogni volta credo sia quella buona, poi capisco che non è così. Magari la prossima, penso.
Questo è per credere che non andrà avanti per sempre.
Lei mi violenta.
Ancora, ancora e ancora.
Ogni volta non è mai l’ultima volta.
“Avanti, – dice – sai cosa fare!”
Mi volto, mi tolgo la camicia.
“No. Girati, voglio guardare.”
Si siede sulla poltrona rossa. I suoi occhi penetrano la mia carne, la mia volontà, la mia anima.
“Che aspetti? Via le mutande.”
Eseguo.
“Bene, – mi lancia delle manette – le conosci, vero?”
Dice: “mettile.”
Eseguo.
Inizio con il polso destro, poi, prima di chiudere anche il sinistro, lei dice: “No, non così. Ammanettati al letto e metti il culo in mostra.”
Eseguo.
Si avvicina. Sento l’odore dolce della sua pelle.
Prende un foulard e mi imbavaglia.
“Oggi ho una sorpresa per te.”
Stringe il bavaglio. Mi afferra per i capelli e mi passa la lingua sulla gola.
“Questa volta non mi spoglio, ma questa non è la sorpresa…”
Per vedere quello che fa, giro la testa. I muscoli del collo mi fanno male.
“Credi sia solo un gioco? Oggi capirai che non è così.”
Mi punta addosso il cellulare.
“Vuoi dirmi di no, vero? L’ho capito, sai!”
FLASH!
La prima foto.
Urlo e cerco di liberarmi. Mi faccio male ai polsi.
FLASH!
Un’altra foto.
“Basta così. Iniziamo a filmare! Ti piace la sorpresa?”
Mi mette una mano in mezzo alle gambe.
“Come sei asciutta, – dice- non sei eccitata?”
Sono una ragazza e amo una donna. La mia vergogna. Nessuno deve sapere.
Ne morirei e Lei questo lo sa.
La amavo.
Ora ne ho paura.
“Bene,- prosegue – urla, così mi piace di più! E sorridi, nel video devi sembrare felice.”
Come un uomo, ecco cos’è diventata. Scopa solo per avere più potere.
Ora che ne ha, non vuole perderlo.
Indossa il cazzo di gomma.
Ride.
“Ti piacerà bambina mia . Immagina sia tua madre” dice.
Penetra. Fa male. Brucia.
Mi irrigidisco, mi mordo la lingua. Inizio a piangere.
Spinge. Non finirà presto.
Dice: “sii felice e godi, altrimenti tutti sapranno!”
Non oggi e non so ancora quando, ma tutto questo finirà.
Non sento più niente. C’è solo rabbia.
Qualcuno morirà. Io o Lei poco importa.
Tutto questo deve finire.

Ho detto “NO” e il video è su internet. 6’:45’’ che qualcuno scambierà per erotismo hard. Tutti pensano che fra donne non possa essere altrimenti. Nemmeno un giorno; 3785 visioni e 8 commenti.
Nel display la scritta bianca “Replay?“ lampeggia sulla mia faccia.

Ieri mattina ho preso con me un coltello. Uno di quelli grossi, in grado di tagliare qualunque cosa, almeno così dicono in tv.
Guidando pensavo alla lama. Fredda, tagliente e affidabile.
Non sapevo cosa farmene. Era nascosta nella tasca interna della giacca di pelle nera; il suo primo regalo.
Arrivai in anticipo. Rimasi in macchina.
Ero un’impiegata di concetto in uno studio legale, abituata a eseguire ordini, che aspettava una direttrice di un negozio di intimo; una quarantenne abituata a comandare.
Amori clandestini: bulimici negli orari, anoressici nella frequenza.
Quando la vidi arrivare, presi la giacca e la strinsi al petto.
Avevo fatto bene a portare il coltello.
La seguii, entrai e, ancora prima degli ordini e tutto il resto, le dissi: “NO”.
Il coltello mi dava la forza.
Lei si limitò a ridere.
Capì che non le avrei più obbedito, allora urlò tutti gli insulti contenuti negli estremi “sciocca” e “lurida puttana”.
Non riuscì a impressionarmi.
Quando alzò la mano per colpirmi, feci l’errore di non pensare più al coltello.
Mi distrassi dal mio coraggio e dalla mia rabbia.
Mi spinse sul letto. Dopo avermi strappato la giacca , la gettò a terra. Mi bloccò. Stringeva i polsi. Le sue unghie pizzicavano la mia carne.
Il terrore mi aveva paralizzata.
Ci guardammo negli occhi. Quei suoi due pozzi neri avevano inghiottito il tempo. Sospese tra “il mai” e “l’eternità”, avvicinò le sue labbra e mi baciò.
Lei, Giovanna, non era più la stessa. I suoi baci non erano la delicatezza dell’amore, ma una pressione umidiccia di una lingua che scavava dentro di me.
La paura non aumenta il desiderio: lo uccide.
Mi sono voltata. Ho chiuso gli occhi.
“Guardami” disse Giovanna con una voce morbida, di velluto. Le sue mani allentarono la presa.
Iniziai a tremare e fuggii nei ricordi.
Capelli neri come la dannazione per il peccato più dolce: amare un’altra donna. Labbra passionali, carnose, colme di purezza.
“Guardami, amore.”
Giovanna cercò di richiamarmi alla realtà.
I suoi occhi, erano la sua anima; forte, decisa e gentile.
Il mio angelo dagli occhi di miele era caduto; ero preda del diavolo custode nascosto sotto le sue bugie.
Sentii la sua bocca sul mio collo. I suoi morsi non richiamavano brividi, estirpavano ricordi.
Sentiva la mia paura. Sussurrò il suo amore nel mio orecchio.
Disse: “non volevo farti male. Scusami. Ti amo, come potrei? Sono qui. Sono Giovanna, l’unica donna che può amarti. Sono pentita, non dovevo, hai ragione tu amore.”
Mi lasciò e si alzò dal letto. Aprii gli occhi.
Si tolse la maglia e disse: “facciamo l’amore, vuoi?”
Me lo chiese come se mi amasse ancora.
Il suo corpo perfetto, aveva un profilo delicato; una promessa di felicità mi chiamava a sé. La pelle morbida, da baciare, abbronzata e piena di vita. Il suo ombelico, la prima stazione verso il piacere proibito. Per ciò che era stata per me, il mio corpo aveva bisogno di lei, ne sentivo il richiamo, mi attirava: la desideravo.
Amavo quella donna, ma non era più la stessa donna.
Mi alzai e presi la mia giacca.
“Cosa fai?”
“Me ne vado” risposi.
Mi afferrò per i capelli. Mi gettò sul letto, quasi fossi un oggetto.
“Tu sei mia e farai quello che voglio, capito?”
Doveva avermi scambiato per quella figlia che non aveva, che non avrebbe mai potuto avere.
“Stai giù” urlò, minacciandomi con il dito indice.
Sfiorai il coltello. Sentii tornare la rabbia, il coraggio aumentare.
Mi alzai.
“Cosa cerchi sempre in quella giacca? Vuoi nasconderti?”
Fece uno scatto avanti, con un manrovescio mi fece cadere.
“Ora, – disse – tutti sapranno.”
Prese il suo cellulare.
“Ti faccio vedere. Pronta? Senza di me sei solo una lesbica, ricordatelo!”
Iniziò a ridere e disse: “Ecco fatto, il tuo video è su internet. Sei contenta?”
Appoggiò il cellulare sulla poltrona rossa e disse: “vai pure, sei libera! Denunciami, così tutti sapranno. Cosa diranno mamma e papà? Ti accetteranno? Sarai ancora la loro figlioletta, oppure una lesbica di cui vergognarsi?”
Conosceva le mie paure.
“Vai via! Fai schifo” disse.
Mi gettai su di lei.
Volteggiammo come se facessimo qualche giro di valzer. L’equilibrio ci privò del sostegno, in balia della forza di gravità cademmo. Giovanna picchiò la faccia contro il bordo del letto, io sul materasso.
La mia giacca di pelle ripiena di coltello era vicina.
Giovanna era a terra, non si muoveva. La voltai. Vidi il suo naso. Era spostato a sinistra: rotto. Perdeva molto sangue.
Tutta la faccia iniziò a gonfiarsi.
Corsi al cellulare e controllai. Sul display appariva la scritta: Vuoi caricare “Mi scopo quella troia di Elisa T.?”
Era connessa a un sito porno di filmati amatoriali.
Non aveva caricato il video.
Decisi di agire in fretta. Rovesciai il contenuto della borsa di Giovanna, raccolsi le manette. Sulla poltrona c’era anche il suo cazzo di gomma. Lo presi in mano e sentii che era sporco di me. Un violento attacco di nausea mi colpì allo stomaco, bruciandomi sino in gola. Lasciai cadere l’oggetto. Andai da lei.
La sollevai da terra. Si lamentò. Aprì gli occhi.
La misi sul letto.
“Aiutami” disse.
“Certo, stai tranquilla” le risposi, legandola alle sbarre del letto.
Raccolsi la giacca e uscii all’aperto. Liberai il coltello.
Con Giovanna, o quello che era diventata, non potevo continuare. Mi aveva presa in giro, illusa, voleva solo una schiava e la mia ribellione mi sarebbe costata cara.
Quello fu il momento in cui decisi di ucciderla.
La rabbia e il coraggio hanno iniziato a confondermi.

Finito di ricordare.
Guardo la piazza nel tardo pomeriggio; non sembra piena. Voglio che più persone vedano chi sono e di cosa sono capace.
Decido di bere il caffe più caro della mia vita. Entro nella galleria e mi siedo nel dehor di un bar molto chic. Appoggio la borsa gialla vicino alla sedia.
Il cameriere arriva. Ordino. Un minuto e il caffe è davanti a me.
Inganno l’attesa, prendo il mio cellulare dalla borsa.
Anch’io ho fatto un video.
Il cameriere non sembra fare caso a me. Milanesi, gente laboriosa e discreta.
Avvio la riproduzione.
L’inquadratura è chiara ma non fissa
Giovanna tossisce, appena muove la testa chiude gli occhi e urla. Giro il cellulare e appare il mio viso in primo piano.
“Ciao, sono Elisa T.! Presto saprete chi sono.”
I miei capelli rossi sembrano più chiari. Forse è per via della luce.
Guardo il mio sorriso. C’è una leggera asimmetria a sinistra. Questo particolare fa sembrare che io sia incapace di ridere, ma solo di schernire.
Giovanna notò subito questo dettaglio. Senza che le dicessi nulla in proposito, sosteneva che il mio sorriso fosse unico. Con le sue attenzioni mi aveva intrappolato.
Una goccia di sangue macchia le mie labbra. Impossibile non notarla.
Nel video torna il volto di Giovanna pulito dal sangue. Con una mano le accarezzo i capelli.
Scompare la mia mano e appare la punta del coltello.
Forse è in questo momento che ha capito di essere vicina alla morte.
“Sei pronta?” dico.
Scuote la testa.
“Non importa.”
Le appoggio la lama sulla gola e prendo il suo cellulare.
L’inquadratura trema molto.
Il video di Giovanna era più stabile. Forse lei non provava emozioni mentre filmava.
Il display si vede bene. La mia faccia appare sotto le opzioni.
Con il pollice seleziono YES. Parte l’upload.
Io ho caricato il video in cui mi violentava.
Ecco dov’è iniziata la mia confusione.
Il cellulare di Giovanna scompare.
L’ho buttato a terra. Si sente il tonfo.
Afferro il coltello.
L’inquadratura si allarga. Si vede il cuscino, il volto e il collo di Giovanna.
Peccato che il filmato continui a tremare.
“Sai perché l’ho fatto? Perché voglio ucciderti e dopo tutto questo sarò libera. Ora non posso più tornare indietro. Tranquilla, non sarai l’unica a morire.”
Affondo il coltello nel suo collo.
Solleva la testa, spalanca gli occhi e urla. Il foulard si macchia di sangue.
Affondo ancora, ancora e ancora.
Il suo corpo si ferma.
Giro ancora una volta il cellulare. il mio viso ritorna al centro dello schermo.
“Ho ucciso la mia vergogna” dico.
Il filmato finisce.
Dopo aver terminato le riprese, le ho tagliato la testa.
Non è vero che quei coltelli tagliano tutto. Se volete decapitare qualcuno, portatevi un seghetto, è molto più pratico.

Sono sui gradini del Duomo all’ora dell’aperitivo. Ci sono molte persone.
Invio il mio filmato. Arriva la conferma. Getto il cellulare.
Apro la borsa gialla, afferro la testa per i capelli e inizio a farla dondolare. Vorrei lanciarla come una palla da bowling, ma i lastroni di pietra ne fermerebbero subito la corsa. La lancerò e, con la giusta traiettoria, arriverà molto lontano.
La gente inizia a urlare. Non controllo, ma credo che sia a causa di quello che sto facendo.
La gente inizia a correre. Sì, è sicuro: si sono accorti di me.
Un paio di persone a terra sembrano degli ottimi bersagli, ma cambio idea appena la vedo. Una ragazza è a circa sei, forse sette, metri davanti a me. Ha la bocca spalancata. Salta sul posto e alza le mani. Sembra stia facendo aerobica. I suoi seni sono acerbi, è giovane. Il viso ha lineamenti orientali, ma non credo che sia cinese o giapponese. Non che riesca a vedere la differenza, ma ha una pelle troppo scura; forse dev’essere filippina.
Niente cartine o macchine fotografiche addosso.
I nuovi milanesi. A Milano siamo razzisti? No. Forse gli altri lombardi lo sono, ma noi no.
La guardo saltellare. Penso, chissà per quanto tempo si ricorderà di me?
“Prendi” urlo.
La ragazza afferra la testa al volo, urla e poi la lascia cadere.
Inizia a correre in tondo.
Dalla borsa gialla prendo lo stesso coltello che ha ucciso Giovanna. Sulla lama c’è ancora il suo sangue.
Questo è il momento.
Appoggio la lama sul petto, dove, credo, ci sia il cuore.
Il primo a corrermi incontro è un carabiniere. Appena vede il coltello si blocca ed estrae la pistola.
“Ferma lì” dice.
“Mica voglio muovermi” rispondo.
Ha un’espressione da punto interrogativo. Non deve avere capito la mia risposta, infatti ripete: “ferma lì.”
Con gli uomini non puoi parlare. Se non sono ottusi, sono cattivi o tutte e due le cose insieme.
Spingo il coltello. Entra poco nella carne.
Fa male. Molto male. Troppo male.
Arrivano anche un altro carabiniere, un poliziotto e un soldato.
Non è scoppiata la guerra; parcheggiano i soldati fuori dai monumenti per controllarne gli accessi.
Tolgo il coltello dalla ferita e lo lascio cadere.
“Getta il coltello” urla il poliziotto.
“L’ho già fatto!”
Ecco gli uomini in tutto il loro splendore.
Chiedo: “cosa devo fare?”
I quattro mi guardano.
Prendo l’iniziativa e mi stendo a terra.
Non credevo, ma il dolore, l’istinto di sopravvivenza e tutto il resto, a volte, possono superare anche la vergogna.
Sono libera e tutti sanno chi sono.
Inizio a ridere.

 


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