“Sabato sera” di Alessandro Reali


Diego accese la sigaretta, poi lanciò il pacchetto a Leo, che stava seduto di fronte. Con la mano destra s’accarezzò la cresta, unta di gel. Col piede prese a sbattere la Nike sul pavimento in ceramica della veranda.
Il bar Panama, il sabato sera, era sempre affollato. Samuele, detto Sam, il nuovo gestore, e Niki, la sua compagna rumena, spillavano birra in grandi quantità.
Diego, polo aderente a rivelare il fisico scolpito dalla palestra, e jeans a vita bassa stracciati alle ginocchia, allungò il piede percussionista e realizzò lo scopo che si era prefisso: fare inciampare Lella, la figlia di Sam, quella che tutti chiamavano la “matta”.
La ragazza, in minigonna rossa, barcollò sulle zeppe, facendo tracimare la birra dai boccali, sul vassoio che reggeva con la mano destra, quindi finì dritta in braccio al Sechi, che ne approfittò per toccarla, facendo scoppiare gli altri due in una risata acida, stridula e cattiva.
Lella si alzò stizzita, senza dire nulla, limitandosi a guardare male il ragazzo, un piccoletto dal viso butterato e la testa rasata che si ostinava, nonostante fosse sera, a portare un paio di Rai Ban verde scuro.
– Ti vuoi fare la pazza, albanese?- disse Leo, aggiustando il colletto della polo.
– ‘fanculo, Leo, l’ho solo palpata-
– Eppure, una botta, si potrebbe anche dargliela, non fosse così fuori di testa. Se la fa pure coi vecchi, l’hanno vista. Secondo me anche con suo padre: Sam, lo sciancato- sentenziò Diego che, tra gli amici, era considerato il vero duro, quello cui toccava, nelle scelte importanti, l’ultima parola.
– Sam lo sciancato e, pure, truffatore sfigato-
– Mio padre dice che in cantiere rompeva le palle a tutti con le sue scommesse e il colpo che vale una vita. Non sai cosa avrebbe dato per licenziarlo, il mio vecchio, quand’è rimasto sotto al muletto che l’ha reso sciancato, invece coi soldi dell’assicurazione, la volpe, ha rilevato il bar- aggiunse Diego, impegnato a scrivere un messaggio.
– Poi dicono che siamo noi albanesi a fare i furbi. Io penso che quello s’è fatto male apposta, in cantiere, così ha fregato tutti, per mantenere la rumena e quella scema della figlia- aggiunse il Sechi accendendosi la sigaretta.
– Mia sorella ha detto che Lella è in cura dallo psichiatra. La imbottiscono di psicofarmaci, ma lei ha il vizio, il morbo, non può stare senza maschi: una volta è scappata pure con uno sposato, uno di Quarto Oggiaro che vendeva aspirapolvere. Quando il tipo si è reso conto di quanto fosse pazza e l’ha scaricata, ha dato fuori di brutto, tanto che hanno dovuto ricoverarla un mese- proseguì Diego, il bello del gruppo, quello a cui, grazie al padre imprenditore edile, giravano più soldi.
– Per certa feccia ci vorrebbe Hitler, altro che palle, lo dice sempre mio fratello. Lui ci crede in queste cose: una bella pulizia, forno crematorio, per questi scarti –
– Hitler era un grande – ringhiò Diego, salutando con un cenno del capo Silvia, l’ex ragazza del Sechi, che veniva avanti con una lattina di birra in mano. Aveva appena attraversato il viale alberato di fronte alla stazione, nell’afa, tra nugoli di zanzare. Qualche prostituta nigeriana, appena scesa dal treno, s’incamminava sulla strada, verso i centri commerciali. Un’auto della polizia era ferma di fronte al bar. Un agente aspettava, a braccia conserte, appoggiato al cofano.
– Avete da fumare?- chiese, chinandosi leggermente, mostrando il perizoma sull’adipe, tatuata con un paio d’ali viola, oltre i jeans a vita bassa.
– Prendi- rispose Diego senza guardarla.
Sapeva, Diego, che Silvia aveva scaricato il Sechi perché s’era presa una cotta per lui, ma lui non era interessato. Era brutta, Silvia, in fondo andava giusto bene per un albanese, come il Sechi.
– Tua sorella?- chiese la ragazza, estraendo il cellulare dalla borsetta taroccata Prada.
– A casa, il mio vecchio la tiene sotto chiave. Lui è fatto così. Se te la giura poi la paghi, e la scema s’è fatta beccare sul divano della sala, alle tre di notte, con quel coglione di Carlo. Il mio vecchio lo odia, Carlo, il tipo che voleva correre in moto-
– Carlo è uno a posto- replicò Silvia.
– Uno a posto non si fa sorprendere da mio padre, in casa, con mia sorella tutta nuda-.
– Che ne dite di andare a fare un giro?- chiese il Sechi, nervoso.
A lui, Silvia, piaceva ancora. Le piaceva e la odiava. Lasciandolo, gli aveva fatto fare la figura dello sfigato, di fronte agli altri.
– Ma sì, dai, andiamo al Covo. Ci sta che magari c’è un po’ di bella gente. Mica come qua. Tutta feccia al capolinea- aggiunse Diego alzandosi, dandosi una sistemata al cavallo dei jeans prima di riporre in tasca l’ I Phone.
– Ci vieni, tu?- chiese il Sechi rivolto a Silvia.
– No, aspetto Micaela-
– Ma sì, resta in sto buco morto, a fare gli interessi dello storpio e della sua bella famiglia. Poi, buttati in Naviglio! – ringhiò l’albanese, gli occhi lucidi di rabbia.
– Certo che la moglie, quella vera, ha fatto proprio bene a piantare Sam lo Sciancato- disse Leo.
– Già, ma lui l’ha subito sostituita con la zingara. Pescata sulla strada, la puttana- fece Diego.
– Perché, secondo voi, Lella che cos’è? Non vedete come muove il culo, la scema? Sbronza e fatta di pasticche, sempre- aggiunse Silvia, cercando gli occhi di Diego, indifferenti.
– Allora, si parte o no? Io mi sono rotto!- urlò il Sechi, dirigendosi verso la Golf nera di Diego.

Diego Storari, 21 anni, iscritto a economia e commercio a Pavia, figlio del geometra Storari, imprenditore edile, e di Lucrezia Sani, quelli del panificio Sani & Borella di Corsico. Benestante, descritto dai suoi ex professori come un soggetto dotato di intelligenza superiore alla media, pessimi voti in condotta, arrogante e altezzoso, con frequenti scatti d’ira.
Leo Castrovillari, 19 anni, ripetente in quinta ITIS, figlio di Oscar e Sara, gestori di un distributore di benzina a Trezzano sul Naviglio. Fanatico tifoso interista, più volte coinvolto in episodi di violenza nei pressi allo stadio Meazza di Milano.
Rudi Sechi, 23 anni, di origine albanese. Lavori saltuari nei cantieri edili. Rapporti ai minimi termini con la madre e con la nonna, con le quali vive proprio a due passi dalla stazione. Il padre, manovale in nero, è morto cadendo da un ponteggio, a Rozzano. C’è in corso un’inchiesta. L’uomo non indossava la cintura di sicurezza.

I tre ragazzi salirono sull’auto, direzione il Covo, locale che andava per la maggiore nell’ultima estate milanese. Spesso, all’interno, capitava d’incontrare qualche calciatore pure certe ragazze che avevano fatto la televisione. Oltre alle solite facce patinate, abbronzate, le tipe più belle, i vestiti più giusti, la coca che migliorava di molto la considerazione di se stessi, la sensazione di essere vivi, molto più vivi della massa brulicante nel pantano di un mondo tanto difficile quanto noioso.
Il primo giro lo offrì Diego, come sempre. Rum e Coca. Poi Negroni, Gin Tonic e ancora Rum e Coca. A pagare, nemmeno a dirlo, quasi sempre lui, Diego, col passare del tempo sempre più avvilito. Lui, il più fico di tutti, lucido e spalmato di creme, fisico perfetto, epidermide ruggine di lampade. Proprio lui che, tra tutta quanta quella bella gente, non veniva notato né apprezzato. In fondo, quelli che lo ammiravano e lo invidiavano, davvero, erano solo i suoi amici. Quella sfigata di Silvia, al massimo. Questo pensiero lo faceva stare male, come se avesse un grumo di sangue rappreso di rancore, al posto del cuore. Quelli che contavano davvero erano altri, lì dentro. Si capiva da come si muovevano, come parlavano. Lui ne doveva fare ancora molta, di strada, per raggiungerli, mentre le ragazze, quelle più fighe, da copertina, non si accorgevano nemmeno della sua presenza. Il suo trono era retto da due amici balordi: Leo, cervello sterilizzato, come lo chiamava lui quando si arrabbiava, e Sechi, un albanese in cerca di rivincita, disposto anche a subire certe angherie morali, pur di farsi vedere in giro con uno come lui.
Dopo una sniffata offerta dai gemelli Savio, suoi ex compagni di scuola, uscirono nell’oscurità fresca del parcheggio, dove il Sechi, come sua abitudine, vomitò un paio di volte sotto la volta celeste, sull’asfalto che puzzava di piscio e gas di scarico.
Montarono sulla Golf e sgommarono verso la periferia, a finestrini abbassati, urlando insulti contro le prostitute nigeriane e i transessuali brasiliani semi nudi, nel via vai sordido del traffico notturno.
– Maledetti froci, andrebbero bruciati col lanciafiamme- gracchiò Sechi, che andava riacquistando colore, dopo un’altra sniffata di coca, che alla fine Diego aveva pensato
bene di comprare da uno spacciatore slavo.
– Una sera ne catturiamo uno e lo impaliamo- bofonchio Leo, che schizzava come un pendolo, avanti e indietro, sul sedile accanto a Diego.

L’auto frenò bruscamente di fronte al bar.
La serranda del Panama era abbassata. La luna arancione illuminava la desolazione di bottiglie lasciate in terra e scritte oscene sui muri, a confondersi con nomi di squadre di calcio e insulti a fazioni politiche avverse.
Un’ombra lunga rasentava il muro, sul marciapiede.
– Ma quella è lei. Proprio lei, la matta!- ringhiò Diego, accostando l’auto.
– Ciao Lella, monta su, che ci facciamo un giro- urlò il ragazzo.
La ragazza esitò, sorrise senza convinzione e proseguì il cammino.
Il Sechi, felino, decise di mostrare ai suoi amici di che pasta era fatto. Aprì la portiera e saltò giù al volo, agguantò Lella di sorpresa e la trascinò sul sedile posteriore, premendole il volto contro il tessuto dei sedili, facendo in modo che i suoi lamenti si riducessero a mugugni.
Diego, esaltato, intanto, sgommava in direzione della periferia, puntando preciso un posto ameno, lungo Naviglio.
La ragazza si agitava, provava a gridare. Gli occhi spalancati, il dolore fisico e la paura, insieme: ecco l’orrore.
Quest’orrore, nei suoi occhi, era la medicina che alimentava il senso di onnipotenza dei suoi aguzzini, ma lei non poteva saperlo.
Il Sechi le aveva già strappato la gonna e le mutandine. Leo li aveva raggiunti sul sedile posteriore. Lei stringeva le ginocchia con tutta la forza di cui era capace.
Raggiunta la radura in riva al canale, Diego spense il motore, puntando i fari sulla riva erbosa. Scese. Il cuore gli scoppiava in petto. Provò a concentrarsi, a pensare: niente, solo un banale : “ma fino a dove dobbiamo arrivare, adesso ?”
Il Sechi trascinò la ragazza sull’asfalto ancora caldo e la colpì con un calcio al ventre. Poi disse: eccola qua, tutta per noi, questa vacca da sacrificare. La figlia dello storpio, il truffatore!
– A morte, a morte!- urlò Leo, il brufoloso, ridendo assatanato, gli occhi fuori dalle orbite, mentre Diego, defilato, le mani ai fianchi, camminava avanti e indietro sulla riva, come cercasse qualcosa nell’acqua calma, in cui si specchiava la luna.

Romeo Meriggi, pensionato di Trezzano, prese le canne, come ogni domenica mattina. Quindi si chinò sulla moglie che ancora dormiva e gli disse: vado in Naviglio a pescare.
Sulla riva che aveva scelto, scoprì il corpo di Raffaella Agosti, detta Lella. Era rannicchiata, completamente nuda, con tracce di sangue secco sul naso, sulla bocca e all’altezza del ventre. Era stata picchiata e stuprata con una bottiglia. Ma era viva. Scossa dai brividi, piangeva piano.
Dopo quattro giorni di mutismo assoluto, in ospedale, rivelò alla psicologa il nome dei suoi aguzzini, arrestati poche ore dopo tra lo stupore generale di quanti li conoscevano.
Di seguito, ecco le foto, sul Corriere della Sera:
Sechi aveva l’espressione di un cane bastonato ma, in fondo allo sguardo, si percepiva delusione, afflizione e sdegno. Cattiveria ottusa e paura. Tracce di umanità primordiale. Un mondo persecutorio che giustifica qualsiasi gesto, per quanto orrendo.
Leo, occhi sbarrati e sguardo assente, sorrideva, incredulo, inconsapevole di quello che gli stava capitando, convinto di non avere fatto niente di male. Non un animale, ma un involucro vuoto del pur minimo barlume di vita.
Diego si faceva notare per l’espressione enigmatica, miseramente enigmatica: non sorprendeva l’arroganza, la spavalderia, che tutti gli riconoscevano: ma questo era solo l’albume. Il tuorlo rivelava paura, infinita paura, a sprazzi alleviata dal tentativo infantile di scaricare sugli altri le sue responsabilità.


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