A Milano c’è un’isola che non visitereste tutta nemmeno in una settimana.
Ha una shopping gallery con librerie, gioiellerie e negozi di intimo. Ha un minimarket, bar-ristoranti e botteghe di dolciumi. Un enorme gomitolo di viali alberati e percorsi pedonali si dipana fra gli spazi verdi e le aiuole ben curate, regolato da un’inappuntabile segnaletica e da semafori. E poi parcheggi coperti e scoperti e un servizio di bus a uso interno. Edifici razionalistici di chi ha creduto, ha obbedito, ha costruito. Ma anche sculture, pitture, vetrate: vigilano le Belle Arti. Palazzi semidiroccati con mattoni malinconicamente a vista: Dresda dopo il bombardamento. Grigie costruzioni da socialismo reale: Dresda dopo la ricostruzione. Strutture all’avanguardia che non dispiacerebbero a Enzo Piano. Case da edilizia popolare del secondo dopoguerra. Infiniti portici, buoni per una corsa ciclistica al coperto.
È l’Ospedale Niguarda.
In questa città nella città, in questa enclave alimentata dalla sofferenza, un’anima nera aveva deciso di uccidere.
Aveva deciso qualche settimana prima mentre tornava nella sua camera dalla radioterapia, spinto sulla carrozzina. L’aveva incrociata nel lungo corridoio del reparto. Stava urlando contro una vecchia che aveva imbrattato dappertutto. Non aveva voluto il pannolone e quello era il risultato.
Il Generale, come tutti la chiamavano, un metro e mezzo di cattiveria, sarebbe morta. Tanto per lui non avrebbe fatto differenza.
Perché Giacomo Scalia era stato un killer, di quelli che oggi non ce ne sono più: vero, silenzioso, preciso, chirurgico. Gli amici delle cosche, con il loro inglese maccheronico, lo chiamavano Tiend, perché arrivava alla fine e la fine portava. Una carriera gloriosa, senza inciampi. Solo un magistrato, prima di saltare in aria, pace all’anima sua, l’aveva incastrato. Quando cominciava a sentirsi forte l’odore di 41 bis, si era pentito, giusto per fare un dispetto a quei cornuti che spacciavano coi negri e non con gli amici delle ‘ndrine.
Si era fatto vent’anni ed era uscito, in tempo per entrare in quest’altra prigione senza sbarre.
Nessuno lo aveva aspettato, nessuna donna.
Forse è per questo che qualcosa era scattato. Come diceva quel suo compaesano peggio della lupara è la femmina che non sta al suo posto. Una mezza nana nera come il corvo, terrona più di lui, che comandava tutti a bacchetta, persino i dottorini più giovani. Una capo reparto e sembrava dio, sembrava. Un dio che aveva scordato la misericordia. Con quell’odore sempre addosso di lavanda da mercato rionale.
E c’erano stati subito gli scontri.
Lui non si voleva alzare e voleva il pappagallo, lei che strepitava di andare in bagno con le sue gambe. Giorni di grida e offese. Finché una notte, che era lei di turno, lo lasciò senza l’orinatoio. Lui la fece nel letto. E lei lo lasciò nel piscio per due ore.
Ogni giorno Tiend ripassava le malefatte subite da quella troia. Non che avesse molto da fare. I libri li aveva solo visti sugli scaffali e le riviste, che si portavano come da tradizione agli ammalati in ospedale, erano roba per finocchi.
E rimuginava. Come quella volta della flebo. L’ago, che doveva essere non bene in vena, gli faceva male, il braccio si stava arrossando e gonfiando. Suonò e risuonò, si attaccò al campanello. Lei era nel corridoio a dilettarsi in chiacchiere con un’inserviente zoccola. Lui le sentiva mentre sparlavano di uomini, che forse ne avevano trovato uno nella vita e non vedente. E più suonava e più continuavano. E ridevano. Quando finalmente si degnò di venire il braccio era diventato un palloncino e i medici dovettero intervenire di corsa.
Il Generale lo sfidava tutti i giorni con lo sguardo, sembrava che volesse ricordargli il suo destino: carcinoma al polmone, operato inutilmente. Troppo esteso, nessuna speranza. Lo avrebbero portato fuori per i piedi fra non molto. E lei avrebbe continuato a essere per tutti il Generale.
Ma una decisione era stata presa a sua insaputa e la riguardava molto da vicino. Si sarebbe fatto tutto senza fretta, come ai vecchi tempi. Lo avrebbe chiesto a Vito, che gli era tanto riconoscente perché oramai il suo ristorante non aveva più concorrenti. Voleva radersi per bene, mica con quei giocattoli di adesso. Voleva il suo rasoio a serramanico, quello che adesso i mezzi uomini chiamano a mano libera. Vito cercò di dissuaderlo.
– La mano ferma ci vuole. Questa è un’arma impropria! –
Tiend lo rassicurò, con quello sguardo gelido che non avevano mai conosciuto replica.
– La mano l’ho avuta sempre ferma –
Aveva studiato la rotazione dei turni delle infermiere e il momento migliore: alle sei, dopo la notte, quando l’ospedale apriva il primo occhio e venivano ad aspirargli i bronchi dal buco che aveva aperto in gola. In quel momento sarebbe stata a un palmo dal suo viso.
Lui sapeva già a che altezza colpire, aveva studiato coi suoi occhi da lupo quel collo tozzo e un po’ avvizzito. C’era solo da attendere il giorno in cui il Generale avrebbe aperto le danze e all’alba avrebbe agito. La pazienza è l’arte di chi sa togliere la vita. Tastò compiaciuto la lama del rasoio, proprio come se lo ricordava: un bisturi. Il Generale se ne sarebbe andata prima di lui. E il giorno era finalmente arrivato.
Dormì tranquillo anche se buttò il tranquillante che gli davano alla sera. Anche ai tempi, quando si preparava a regolare i conti definitivamente, non aveva mai avuto un’ insonnia.
Poi il cigolio dei carrelli delle colazioni.
Prese il rasoio, lo aprì, lo tenne stretto sotto le lenzuola. e chiuse gli occhi: avrebbe fatto finta di dormire fino allo scatto finale.
Il rumore dell’interruttore della luce.
Lo scalpiccio degli zoccoli.
Era pronto. Le dita divennero un tutt’uno con il manico in osso.
D’improvviso fu investito da un delicato profumo di rosa. Tiend spalancò gli occhi e si trovò di fronte una bionda alta e magra.
– Lei chi è? Dov’è il Generale? – ruggì.
– L’hanno trasferita in Pediatria. Era il suo sognò lavorare coi bambini –
Poi, con un sorriso che avrebbe meritato ben altra occasione:
– Sono Silvia, non le vado bene? -“To uccidero