Era un posto da nulla. Un buco affacciato sulla San Jacinto Parkway, in pieno barrio messicano: l’unico, credo, a fianco di quelle quattro corsie senza pace.
Non ricordo chi me l’avesse indicato. So solo che ad un certo punto sapevo della sua esistenza, e mi ci fermavo spesso per un boccone smontando dal turno di notte.
Per arrivarci dovevo prendere l’uscita di Galveston Road, un paio di miglia prima di quella di casa, a Waugh Drive. Di solito arrivavo a poche decine di metri dall’uscita con l’auto lanciata ad almeno sessanta miglia, frenavo e con una brusca sterzata mi c’infilavo, rischiando ogni volta l’impatto con quelli che venivano dietro, ancora troppo addormentati per reagire alle mie manovre azzardate. Da lì imboccavo una stradina che consideravo una specie di zona di calma nel flusso continuo dell’autostrada: la percorrevo per due o trecento metri, fra vecchie casette fatiscenti, con sbarre alle finestre e giardini incolti. Il posto si trovava nel fondo cieco di quella stradina, in un piccolo slargo affacciato sull’autostrada.
Al di là dell’ampia vetrata opaca con una scritta al neon lampeggiante, c’erano un bancone con una decina di sgabelli e quattro o cinque tavoli; il linoleum, unto dai vapori di almeno due decenni di uova al bacon, era consunto appena oltre l’ingresso e sotto ogni sgabello. Nessuno però sembrava farci troppo caso.
I clienti, tutti abituali, non erano molto loquaci, e neppure il padrone, un tipo grande e grosso, non troppo simpatico, che prendeva le ordinazioni senza degnarti di uno sguardo.
Io sedevo sempre accanto alla vetrata, nell’angolo opposto a quello della televisione, sintonizzata a quell’ora sui notiziari del mattino.
Mangiavo guardando il traffico scorrere veloce verso downtown, mentre con l’angolo più remoto dell’occhio percepivo le immagini colorate e cangianti della televisione.
Ricordo bene: la incontrai intorno alla metà di gennaio, forse il ’91.
Quella mattina entrai nel locale sovrappensiero, e mi diressi verso il solito tavolo. Mi fermai solo a meno di un passo da lei. Aveva appena finito di mangiare, e beveva il caffè tenendo la tazza con entrambe le mani. Accanto alla zuccheriera aveva appoggiato una banconota da dieci. La fissai per qualche secondo di troppo, con la netta impressione che quella presenza inattesa – la sua presenza – avesse turbato un equilibrio raggiunto a fatica. Lei sollevò lo sguardo, mi sorrise e riprese a bere il suo caffè.
Mi guardai intorno: il tavolino accanto era libero. Mi sedetti. Ordinai un caffè, due uova, bacon e patate. Il tipo del ristorante prese l’ordinazione senza dire una parola, poi si girò verso di lei, allungò una mano sulla banconota e la sostituì con alcune monete.
Lei continuò a bere fissandomi da sopra il bordo della tazza. “Buongiorno”, fece di punto in bianco.
Io risposi al saluto con un attimo di ritardo.
All’altro capo della sala lo schermo della televisione era fisso sulle immagini notturne di una città. I pochi avventori sembravano calamitati da quelle forme scure, riprese dall’alto di un tetto con telecamere a infrarossi: silhouette di grandi edifici su uno sfondo verdastro, scie luminose di veicoli in movimento. Tutto sembrava tranquillo. Lento. Sospeso.
“Mi spiace” fece la ragazza.
“Non ti preoccupare, posso sopravvivere”.
“La prossima volta te lo lascio”.
Scossi il capo e sorrisi. La prima salva di traccianti ascese al cielo in quell’istante, sulla coda del mio sorriso: traiettorie verde chiaro che si perdevano nell’oscurità notturna.
Lei bevve un altro sorso di caffè, lo sguardo si era spostato sulla televisione. “Cazzo, che roba!”, disse. “Sei un habitué, vero? Ti ho già visto qui”.
“Sì, sono qui spesso. Tu?”
“Solo qualche volta. Prima lavoravo lontano, a River Oaks. Era scomodo”.
“Hai cambiato?”
“Sì, di recente”.
“Mica al Children’s anche tu?”
Lei rise.
“Dove?”, insistetti.
Lei sembrò pensarci su, poi disse una sola parola: Caligula’s. Il cameriere arrivò in quel momento con uova e caffè, e s’infilò fra i due tavolini, ficcando il suo corpo ingombrante nel misero spazio che ci divideva. Appoggiò il piatto e versò il caffè. “Se hai bisogno chiama”, disse. Io mi limitai ad annuire.
“Il topless bar. Mai sentito?”
“Sì, l’ho sentito”.
“Ballo tutta la notte”.
“…”
“Ci sei mai stato?”
“No, mai”, feci io, e in quell’istante notai il pallore del suo viso, i lineamenti delicati, quasi infantili, le occhiaie profonde, solo parzialmente mascherate dal trucco della sera prima.
“Vale la pena”.
“Ci credo”.
“Tu?”
“Lavoro al Children’s Hospital, giù sulla Baylor. Sono cardiochirurgo”, risposi.
“Un chirurgo del cuore?”
Io annuii, e lei iniziò a ridere. Per un attimo la fissai perplesso, poi mi lasciai andare anch’io, e presi a ridere insieme a lei senza sapere perché. Dopo qualche secondo si sforzò di farsi seria, e disse: “be’, è il mio caso, ne avrei un cazzo di bisogno, un bisogno pazzesco di un chirurgo del cuore”.
Non riuscivamo più a fermarci. Ridevamo a più non posso, rossi in viso, io e lei, in quel locale da niente, in un giorno di metà gennaio del ’91.
Non so quanto tempo fosse passato quando mi resi conto di avere gli occhi pieni di lacrime. A lei il rimmel aveva iniziato a colare sugli zigomi. Quando se ne accorse si passò il dorso della mano sotto l’occhio, poi estrasse dalla borsetta uno specchietto e un fazzolettino di carta. Avvicinò lo specchietto prima ad un occhio poi all’altro valutando con attenzione lo stato del trucco, quindi tamponò le lacrime con delicatezza.
Una nuova salva di traccianti partì in quel momento: due degli avventori si avvicinarono lentamente allo schermo con le mani in tasca, il padrone si fermò in mezzo alla sala, reggendo i piatti degli avanzi. Anche noi ci girammo verso la televisione. Lei disse: “fanno sul serio da quelle parti.”
“Questa volta sì, mi sembra”.
Lei si fece seria all’improvviso, la voce perse tutto il suo calore. “Mio fratello è lì”, disse. Io abbassai lo sguardo senza sapere cosa dire. Lei scosse il capo; per un attimo ebbi l’impressione che mi leggesse nel pensiero. Ripose lo specchietto nella borsetta. “È un lavoro come un altro”, disse. Poi aggiunse: “se vuoi puoi venirmi a vedere. Sono lì tutte le notti”.
“…”
“Un chirurgo del cuore… Ci dovresti proprio venire, da noi avresti un sacco di lavoro da fare”. Riprendemmo a ridere, ma ora la risata era strana, quasi forzata, inevitabile come una specie di riflesso, non più calda di un ricordo lontano.
Fu allora che dall’altra parte della stanza un bagliore accecante, improvviso, al calore bianco, illuminò lo schermo. Ci girammo di scatto verso la televisione. Era satura di luce.
Ci vollero alcuni secondi perché le immagini ricomparissero sullo schermo annichilito da tutto quel bianco accecante, fantasmi appena accennati sullo sfondo verde acido del cielo. Fu allora che la cercai di nuovo con lo sguardo, ma lei non c’era più.
Sullo schermo un edificio bruciava.
Flavio Villani, medico neurologo, è impegnato da diversi anni in una intensa attività letteraria. Alcuni suoi racconti sono reperibili nel sito della rivista letteraria online Satisfiction (http://www.satisfiction.me) e nel blog dell’autore (https://flaviovillani.wordpress.com).
Il suo romanzo d’esordio, L’ordine di Babele, è stato pubblicato da Laurana Editore nell’ottobre 2013. Il suo nuovo romanzo è atteso per la primavera 2016.
Una risposta a “"Un edificio bruciava" di Flavio Villani”
Bastano poche parole per immergersi nel racconto. L’atmosfera cambia drasticamente ed il lettore ne è profondamente coinvolto.
Bravo all’autore 🙂