“Un grido senza parole” di Roberto Mistretta


L’uomo guarda il mare. La distesa azzurra sciaborda in vortici di schiuma, il sole cala incendiando l’orizzonte. L’uomo si sofferma ad ammirare il tramonto rosato. La fitta acuta lo colpisce senza preavviso. Ricordi nitidi, crudi, sassate per l’anima.
Sono trascorsi sette anni. Da quel giorno maledetto ha giurato che mai più parlerà ad essere umano. Le sue labbra si sono chiuse. Sono diventate di marmo, lapidi che custodiscono scheletri. E strazio.
Si è ritirato in campagna. Era il suo posto preferito da bambino. I monti si stagliano contro l’orizzonte e si rispecchiano nella conca azzurra. Lo chalet era appartenuto ai nonni, lo ha rimesso in sesto e ha imparato a coltivare la terra grassa.
La natura ha continuato a scandire i suoi ritmi stagionali, semi e piante si sono aperti alla vita. La terra si è schiusa come una donna feconda al quotidiano lavoro dell’uomo. I calli gli dolgono nelle mani e le unghie, un tempo corte e pulite, adesso immagazzinano residui scuri. Gli occhi si colmano contemplando i frutti del suo lavoro, ma le labbra si serrano sempre più a celare quel segreto seppellito anni prima.
Chi è quel tizio che non dà confidenza a nessuno? Se ne sta tutto il giorno da solo a coltivare carote e patate. E’ un orso.
La gente del posto si era incuriosita. Voleva sapere. Il farmacista leggeva i quotidiani, ricordava di lui e ciò che era accaduto. E, diligentemente, li aveva informati.
Naufragati i tentativi di instaurare dei rapporti di buon vicinato, agricoltori e allevatori avevano fatto in fretta a etichettare il nuovo arrivato come un tipo con qualche rotella fuori posto. E con l’indice si picchettavano là dove nascono e muoiono i pensieri.
Il disco del sole abbraccia l’orizzonte e bacia il mare, fuoco e acqua fusi nel ballo impossibile che prende forma nella magica ora del crepuscolo.
L’uomo ama il tramonto, dà un senso pieno alle cose, le avvolge di luce viva e buona. Si illude che quell’abbraccio possa scaldare anche il suo cuore freddo.
Un gabbiano vola a punteggiare di bianco l’azzurro infuocato. Il volo quieto dell’uccello gli ricorda l’articolare roco della propria voce imprigionata da anni. Il timbro che risuonava acuto quando si imponeva nelle discussioni familiari, l’andamento lineare che imprimeva alle frasi condendole con aggettivazioni ricercate e forbite metafore. Quante donne lo avevano ringalluzzito vantando la carnalità di quella voce con la quale le inondava di complimenti e bugie.
Quante avventure!
Odia la sua voce. Se solo fosse rimasto zitto quel giorno maledetto…
I giorni sono susseguiti ai giorni, le albe ai tramonti, le stagioni alle stagioni, ma il tempo non lenisce un bel nulla, continua a scivolargli addosso lasciando inamovibile la punta di pugnale che lo squarcia.
Quanto tempo ancora? Quanto durerà la condanna?
Certe risposte non arrivano mai.
Il respiro dell’uomo inciampa nei denti. Un gorgoglio di animale ferito gli esce dalle labbra serrate. Comincia a sentire freddo: è ora di rientrare. Si avvia verso la sera con passo fermo, le spalle curve e scompare nelle ombre che già si allungano a disegnare sagome scure sulla spiaggia deserta.
E’ autunno. Le prime piogge hanno favorito la nascita dei funghi. Si dice che domani sarà un buon giorno per trovare i porcini. Il vento è calato e nei boschi gonfi di rugiada le cappelle carnose aspettano mani esperte per essere raccolte. Lei amava quelle tenere protuberanze, quel profumo di muschio dal sapore così forte e delicato. Ricorda la prima volta che l’aveva portata lassù. I nonni erano stati felici, un raggio di sole aveva attraversato la ragnatela delle rughe ricamata dal tempo sui volti antichi.
Lei correva sui prati a raccogliere violette, amava osservare i grilli saltellare, adorava giocare a rincorrersi con le caprette. Aveva inventato per loro i nomi più belli, battezzandole con le intuizioni di un momento irripetibile: Chicco di sale, Fiocco di luna, Palla di lana.
Com’era dolce quella mattina. Si era svegliata imbronciata lamentandosi per il troppo sonno, ma al contempo era risoluta ad andare a cercare funghi con nonno e papà sugli arditi pendii.
Dio, come si può sopravvivere quando il cielo che tenuto stretto al petto s’è schiantato trascinandoti con sé?
Come, si può quando si è colpevoli?
L’uomo esce all’alba.
Il cielo è solcato da ferite rossastre, sciabolate che aprono squarci drappeggiati d’azzurro. Si avvia lungo sentieri noti. Il paniere di vimini stretto nella sinistra, procede con passo spedito. Il bosco non è lontano. Conosce quei posti.
Dopo quella levataccia, lei era voluta tornare ancora ed ancora e ancora per raccogliere gli ombrelli erbosi. Così li chiamava.
Quel pensiero gli fa male, come sempre. Una lacrima si posa sulle ciglia, le attraversa fugace e si perde nella pioggerella che comincia a venir giù. Dopo la salita il sentiero digrada e si apre in una vasta radura. Querce e castagni si protendeno a solleticare il cielo coperto.
“Il tempo si sta guastando. Tanto meglio: non incontrerò i soliti seccatori”.
Non gli piacciono i suoi simili. Vogliono chiacchierare, sono molesti, importuni, privi di tatto.
Commiserazione e finta solidarietà.
Poverino, è muto, forse pure sordo. Forse un tumore alla gola. Quanto mi dispiace.
Si avventura nel fitto del bosco. L’apparizione della cappella bruno fulvo del pregiato porcino nero, mimetizzata ai piedi del castagno, allenta la tensione delle sue solitarie riflessioni. Si china per meglio raccogliere il prezioso bronzino. Con delicatezza, col coltellino, scava attorno al gambo panciuto per estrarlo intatto. Lo pulisce dalla terra e lo libera dalle spore che presto si trasformeranno in altri funghi.
Il grido risuona stonato e fin troppo vicino, si perde tra le fronde che ondeggiano sotto la pioggia. Possibile che qualcun altro si sia avventurato sin lassù? O è stato un cinghiale? Trattiene il respiro. L’invocazione disperata lacera di nuovo la quiete del bosco. Proviene da vicino, ma sembra ovattata, imprigionata da invisibili barriere. Guidato dalle grida, l’uomo si fa largo tra i rovi, il cuore gli martella in petto, ansima. Sta correndo.
La voragine si apre sotto di lui all’improvviso. Sente mancargli il terreno sotto i piedi e precipita per metri. Il budello si restringe, si ritrova prigioniero in un pozzo abbandonato.
La donna ha la voce sofferente: “Siete arrivati finalmente, il cellulare si è scaricato dopo aver dato l’allarme, devo avere una gamba rotta, aiutatemi”.
“Non sono un soccorritore”
Lo stupore lo colpisce come una frustata. E’ il suono della propria voce. Della sua voce. Gli risuona estranea. Da anni non la sente.
“Oh, no” piagnucola la donna. E’ giovane, è allo stremo, semiassiderata. I nervi pronti a cedere. E’ rimasta intrappolata da troppe ore in quel budello scuro, le forze la stanno abbandonando.
L’uomo intuisce il dramma della ragazza. Non riesce a vederla e gli è impossibile raggiungerla, ma la sente gemere semisepolta nella terra. Quell’angoscia risale sino a lui, è una presenza viva e palpabile. La disperazione della ragazza prende forma e si trasforma in un dolore così simile al suo.
Comincia a parlarle con dolcezza, una parola dopo l’altra, come avrebbe fatto con sua figlia. Con naturalezza. Senza accorgersene. Vuole tranquillizzarla. Le narra di lui. In quel buio fatto di umori e radici si sente stranamente calmo come non gli accade da troppo tempo. In quell’alveo freddo e umido la quiete lo avvolge in un alone di pace.
Sta facendo la cosa giusta.
La ragazza si acquieta, lo ascolta, dimentica il freddo, il dolore, la sete.
“Non smettere, ti prego, continua a farmi compagnia” lo supplica.
L’uomo parla, parla. Dalla gola salgono parole e frasi a torrenti. Si sente una rondinella di mare, vola leggero, e le narra di quel giorno maledetto.
Lei si era appena diplomata, era raggiante. I lunghi capelli spettinati riflettavano i raggi del sole infuocato.
Papà, posso fare un giro sulla tua Porche? Dai ti prego, un giretto, uno solo, per festeggiare la maturità.
Lui aveva guardato sua moglie, lei aveva serrato le labbra sottili, disegnate. Aveva scosso decisa la testa. Sua figlia aveva insistito, era sempre la sua bambina, quella che quando voleva andare in montagna dai nonni a cercar funghi metteva su la sua solita irresistibile aria imbronciata.
Non sapeva dirle di no.
Un giro solo. Uno. E non correre.
Aveva fissato sua moglie, la donna si era girata altera, aveva disapprovato. Aveva raggiunto la sdraio ai bordi della piscina e non lo aveva più degnato di uno sguardo. Lui si era versato del Glen Grant Gran Reserve, aveva aggiunto due cubetti di ghiaccio e con aria di sfida lo aveva portato alle labbra. Aveva allungato le chiavi a sua figlia, le aveva indicato la Porsche Cayenne. Aveva pronunciato soltanto due sole parole: È tua.
Un’ora e 47 minuti dopo, due poliziotti della Stradale si erano presentati al cancello della villa. L’incidente era avvenuto nei pressi della scogliera.
Forse uno pneumatico scoppiato all’improvviso, il guardrail non ha retto, mi dispiace.
La risata isterica della moglie si era levata a lacerare l’aria, la bottiglia Gran Reserve era caduta, si era frantumata in mille schegge. Ognuna rifletteva gli occhi della moglie fissi su di lui. Lo accusavano: assassino, assassino. Anche adesso, imprigionato nel budello, poteva sentirli addosso, a gridare al mondo intero la sua colpa.
L’uomo parla, parla. Ad ogni parola i sassi del suo cuore rotolano uno alla volta lungo i dirupi della colpa. Ogni creatura ha le sue ombre, deve soltanto abituarsi a conviverci. Pian piano un sentiero prende forma nella giungla delle emozioni da tempo sepolte, si apre la strada, raggiunge la lapide, la fa in mille pezzi. Dalla lapide sale la voce della figlia adorata: Papà ti voglio bene, non è stata colpa tua, ti voglio bene.
La voce maschia domanda: C’è qualcuno qui?
Siamo quaggiù, presto calate una corda, tirateci fuori. Signorina, coraggio sono arrivati i soccorsi, siamo salvi.
Il vecchio lo aiuta a venir fuori.
Mi aiuti, tiriamo su anche la signorina, è incastrata, deve avere una gamba spezzata, dice Gabriel.
Il vecchio lo squadra con aria interrogativa, scruta la piccola buca dove lo ha trovato rannicchiato e lo fissa di nuovo, senza capire.
Gabriel ripete: Mi dia una mano, tiriamo la ragazza via di lì. Ma già i suoi occhi scrutano ciò che non c’è. Ciò che non c’è mai stato. Soltanto una pozzanghera si allarga di fronte a lui. Poco distante nota il canestro abbandonato sull’erba col porcino raccolto prima.
Il vecchio si allontana picchiettando l’indice sulla tempia.
Questo è proprio strambo.
Gabriel confuso si china a raccogliere il fungo, lo rimette nel canestro. Il nastro di seta rosa è lì, impigliato nei vimini. Una striscia di tessuto uguale al nastro col quale sua figlia aveva legato i capelli quel giorno maledetto.
Un lungo brivido gli sale dai lombi. Le iniziali ricamate sul nastro spiccano come papaveri scarlatti nel grano maturo. Le iniziali di sua figlia. Le lacrime arrivano impetuose come la domanda che squarcia il cielo. Gli risponde la voce del tuono.
Anche le domande più assurde a volte trovano risposta.

 


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