"Un lavoretto facile facile" di Marvin Menini


 

Incontrai per la prima volta il dottor Oswald Lawrence circa sette mesi fa, e fu facile capire fin da subito che non avevo davanti un eroe.
Non era solo per l’aspetto, trasandato e sciatto: la canottiera senza maniche sotto il camice ed il petto villoso, ormai incanutito, in bella mostra. Era anche per l’odore che si portava appresso e lo seguiva come un cucciolo fedele. Un alone, un misto di alcool e stantio, che lasciavano subito intendere la pochezza dell’igiene ed il passatempo preferito di quel vecchio anestesista. Oddio, vecchio non lo era poi così tanto. Aveva superato da poco la cinquantina, ma il viso aggrinzito come una pergamena di pecora, la calvizie disarmante ed il grosso addome da alcolista facevano sì che gli si dessero parecchi anni in più.
Avevo raccolto molte informazioni su di lui, incuriosito da quel personaggio al limite del surreale. Ed avevo scoperto che, bontà sua, nel suo campo ci sapeva davvero fare.
Da giovane, aveva lavorato a lungo come medico delle emergenze e godeva della stima di tutti i suoi colleghi e collaboratori.
A cominciare da quella figa di Laura Harris. Una rossa naturale, alta e formosa come una diva degli anni cinquanta. Dotata di ogni gingillo per far perdere la testa ad un uomo, a partire da un intenso sguardo color giada.
Laura lavorava nel suo team, molti sono pronti a giurare due cose sul suo conto. La prima, è che nessuno fosse bravo quanto lei a prendere una vena nelle condizioni più impossibili, tranne Lawrence. La seconda, è che lei si innamorò per davvero di Oswald e non di certo perché fiutò il pollo da spennare.
Il vecchio Pat, che all’epoca era in servizio presso l’obitorio dell’ospedale, ricorda quando loro due lavoravano ancora assieme. E non ha dimenticato quel pomeriggio né lo sguardo di lei: intenso, ostinato nel cercare gli occhi di quel giovane anestesista così bravo. Gli si era avvicinata, gli aveva proposto un caffè a fine turno.
Lawrence non se l’era fatto dire due volte. E dal giorno dopo, non c’erano Laura senza Oswald ed Oswald senza Laura.
Si sposarono, giusto nove mesi dopo nacquero le due gemelle; Rebecca e Rachel. Laura smise di lavorare per badare alle figlie e a tutte le altre cose da donne, mentre il dottor Lawrence si dedicava sempre di più alla sua professione. E sempre di meno alla sua famiglia. Ciò nonostante, la vita sembrava offrirgli qualsiasi cosa. Carriera ed onori, stima e soldi.
Fino a quel pomeriggio, quando rientrò a casa troppo presto; e senza avvertire. E trovò Laura che prendeva una lezione extra dal suo maestro di Tennis.
Quel biondino slavato e magro era lì, che faceva il suo dovere e pompava alla grande la signora Harris. Non colse bene il senso di quell’ultimo “Oh mio Dio”della sua amichetta.
Beh. Diciamo che non colse proprio il senso delle ultime parole che ascoltò in vita sua.
Si sarebbe evitato il grosso accendisigari di porfido sulla testa e la sua materia grigia non avrebbe riverniciato la testiera del grande letto stile Chippendale.
Invece, il colpo lo lasciò stecchito sopra alla sua allieva del cuore.
Lawrence se la cavò con poco, sette anni per buona condotta, mancanza di premeditazione e tutti i vari accessori del caso.
Uscì di galera, pronto a ricominciare la sua vita. Senza Laura, però, e senza le gemelle. Avevano cambiato non solo città, ma anche paese. E nessuno disse mai ad Oswald dove finirono.
Lawrence si ritrovò solo, reintegrato nel suo vecchio lavoro ma senza più prospettive di carriera, senza i vecchi onori e sempre circondato dalla fama dell’assassino. E, peggio per lui, troppo tempo libero da riempire con alcool e tante, tante fiches.
In pochi mesi perse la macchina, l’orologio d’oro e chissà quanto altro. Poi perse anche la casa, una villetta ordinata e pulita situata nella parte di periferia buona della città.
Avrebbe dovuto chiedere aiuto. Lo fece, a dire il vero. Ve lo garantisco. Ma alle persone sbagliate, e soprattutto per i motivi sbagliati. Così, i debiti e la dipendenza dal collo della bottiglia aumentarono ancora.
Finì con il vivere nel seminterrato dell’ospedale, in una stanzetta angusta e malsana situata a fianco del locale caldaie. Un materasso, gettato sopra una stuoia di vimini, un vecchio televisore a tubo catodico con i colori ormai virati verso il verde, qualche cambio pulito ammassato sul pavimento, sopra ad un lenzuolo disteso sul bicocco. Erano tutto ciò che aveva.
Eppure, una domenica mattina di qualche mese fa il destino gli concesse un’occasione. Una grossa occasione. Diciamocelo : era un lavoretto facile facile.
L’anziano della famiglia entrò nella sua stanza bussando e chiedendo permesso. Con un fazzoletto, tolse la polvere dall’unica sedia presente nella stanza. Il suo scagnozzo tirò su la tapparella, che cigolò producendo un rumore stridente ed acuto.
Quel fischio, e la luce che si riversò nella stanza, svegliarono il dottor Lawrence.
Impiegò qualche secondo a riprendersi: o forse a rendersi conto che era vivo.
La chiacchierata non iniziò nel migliore dei modi.
-”Vaffanculo. Ma chi cazzo siete?”
Il boss spinse la sedia senza alzarsi, quel tanto che bastava per accostarla al materasso. Sfoderò un sorriso denso di comprensione e rispetto. Iniziò a giocherellare con un vecchio zippo tra le dita. Si accese una sigaretta e sbuffò il fumo verso il soffitto.
-”Qualcuno che potrebbe cambiarti la vita, Oswald. E in meglio. Posso chiamarti Oswald, vero?”
Il dottor Lawrence tossì, immerso nella voluta di fumo. Si grattò l’apice della testa.
-”Devo pisciare”
Tornò dopo qualche secondo. Aveva coperto le mutande con un paio di pantaloni verdi da sala operatoria.
Si sedette sul letto e studiò per qualche secondo i due uomini. Il più giovane, di chiare origini mediterranee, piantonava la porta. Non aveva l’aria particolarmente sveglia, ma si capiva che non era lì per dare lezioni di ricamo. Portava una maglietta nera di acrilico a mezze maniche, lucida ed aderente. Da quel torace ampio, muscoloso e senza segni di adipe spuntavano due braccia ancora più grosse: sembravano tronchi di quercia ed erano coperti di tatuaggi colorati.
Quello seduto di fianco al letto, indossava un impeccabile completo grigio, una camicia azzurra ed una cravatta in tinta di Armani. Aveva superato i sessanta e parlava un buon inglese sebbene con un marcato accento italiano.
Si studiarono a vicenda, in silenzio. Per un secondo, al boss parve di rivedere l’uomo sveglio e fiero di cui si era sentito parlare. Poi, Oswald tossì, afflosciandosi come una vescica:
-”Spero non sia una cazzata.”, disse.
-”No, non lo è. Anzi. E’ una cosa dannatamente seria”
-”Va’ avanti. E tu, dalla porta, smettila di fare la guardia al nulla, che tanto non entra nessuno. Versami un goccetto piuttosto, che ho il cervello a secco e ragiono male”
Il dottor Lawrence fissò la bottiglia di Tequila che aveva quasi finito la sera prima e che giaceva abbandonata sul pavimento. Lo scagnozzo guardò il suo capo. Lui acconsentì con un lieve movimento degli occhi.
-”Ho da darti due notizie, Oswald. Una buona, ed una dannatamente brutta. Quale vuoi sentire per prima?”
Il dottor Lawrence Rise.
-”Suppongo che per prassi sia necessario ascoltare prima quella brutta”
-”Come vuoi. Allora, la brutta notizia è che devi un sacco di soldi, ad un sacco di gente. Si dice quasi tre milioni di bigliettoni.”
Lo scagnozzo consegnò bottiglia e bicchiere al boss, che a sua volta li passò con un sorriso gentile al dottore.
Oswald tracannò di colpo il contenuto del bicchiere, gettando indietro la testa, e tirò fuori la lingua per passarla all’interno in modo da asciugare ogni singola goccia.
-”E questo già lo sapevo. Come portatore di cattive notizie non sei molto originale. Spero che tu vada meglio con quelle buone”
-”Dannatamente meglio, Oswald. Perché la buona notizia è che ora tutti quei soldi li devi solo a me. Ho comprato ogni centesimo del tuo debito. E la notizia ancora migliore è che sono pronto a dimenticarmelo. Per sempre.”
Il dottor Lawrence sussultò, quasi che un razzo bello grosso gli si fosse infilato nel posteriore. Si grattò ancora il capo e tirò giù un altro colpo di Tequila con la stessa rapidità.
-”Che cosa vuoi in cambio?”
-”Sei un ragazzo sveglio, Dottor Lawrence.”
-”Beh. Diciamo che fin qui non ci voleva una laurea. Ma veniamo al punto e tagliamo gli orpelli. Che cosa vuoi?”
-”Giusto, giusto. Non perdiamo tempo. In rianimazione, in questo fottuto ospedale, è ricoverato un certo Ronald Lansdale. Ti dice niente?”
-”Sì. Mi dice. L’ho visitato ancora ieri sera. Ha avuto un brutto ictus. Ora è in coma farmacologico, ma si riprenderà. Per lo meno quel tanto che basta per parlare, respirare ed usare almeno una mano per farsi le seghe.”
-”Ecco. Noi non vogliamo che si riprenda, Oswald. Prima di avere questo benedetto ictus – sia lode al Padreterno – solo qualche momento prima, stava andando a denunciarci. Per questo non è sotto sorveglianza. Non lo sa nessuno. Lo sappiamo solo io e lui. E noi vogliamo che tutte le cose che vuole raccontare al procuratore sul nostro conto, schifezze ed infamie senza senso, finiscano in una bella bara. Ed alla svelta. ”
Il dottor Lawrence ingollò un terzo bicchierino. Il labbro iniziò a tremargli.
-”Mi stai chiedendo di farlo fuori?”
-”No, Oswald. No. Questa cosa la voglio fare io. Voglio essere io a chiudergli il rubinetto dell’ossigeno. Tu devi solo farmi strada, constatarne il decesso e riaprire la maledetta valvola dopo che me ne sarò andato.”
-”Lo sai che mi stai chiedendo una cosa che va contro l’etica di un medico?”
-”E quindi? Forse che la tua etica non valgono la libertà e tre milioni di banane?”
Insomma, per quanto ne so a questo punto della storia Oswald stava per dire di no. Anzi. Lo disse. E invitò i due ospiti a girare i tacchi ed andarsene.
Ma come si sa bene, non sono proposte che si possono rifiutare.
Il boss fece scattare lo zippo che continuava a tenere tra le mani e si accese una seconda sigaretta. Aspirò una generosa boccata, continuando a tenere viva la fiamma ed arroventando per bene l’ugello di metallo attorno. Poi guardò il suo scagnozzo: senza bisogno di altro si avventò sul dottor Lawrence. Lo sbatté sul letto con una spinta, gli si sedette sopra e con una mano gli tappò la bocca. Con l’altra, gli afferrò il braccio per il polso.
L’uomo affondò lo zippo rovente sul dorso della mano di Oswald, il cui urlo si spense tra le dita dello scagnozzo. Nella stanza si diffuse un acre odore di pollo bruciato.
Quando staccò lo zippo, Oswald corse a mettere la mano sotto l’acqua gelida. So per certo che continuò a piangere come un bambino per molti minuti.
Il boss alzò culo e completo dalla sedia e si fece fare strada dall’altro nell’uscire dalla topaia del dottor Lawrence.
-”Pensa bene a ciò che risponderai quando quell’ustione sarà guarita, Oswald. Perché tornerò a chiederti che vuoi fare. E se continuerai a dirmi di no, la prossima volta ti brucio la cappella. Ah. Dimenticavo. Mi devi tre milioni.”
E con un gusto invidiabile per le uscite di scena, sbatté la porta.
Nei giorni a seguire, so che il dottor Lawrence girò per l’ospedale con la mano fasciata. Tra l’altro non toccò nemmeno un goccetto e parve a tutti più nervoso ed irritabile del solito. Ma so anche che continuò con varie scuse a tenere in narcosi Lansdale.
Insomma, il figlio di puttana stava prendendo tempo.
Dopo cinque giorni si sfasciò la mano; puntuale come l’odore di terra all’inizio di un temporale il capo tornò a bussare alla porta del dottor Lawrence, sempre in compagnia dell’altro.
Li guardò, pieno di terrore. Ed inspirò a fondo prima di parlare.
-”Va bene. Domani sera alle dieci”
L’uomo sorrise, come un padre il giorno della laurea del figlio, ed abbracciò forte l’anestesista.
-”Lo sapevo. Lo sapevo che avresti fatto la cosa giusta. Ora ascoltami bene. Domani sera alle nove e quarantacinque parcheggerò la mia Mercedes dalla porta di emergenza della rianimazione, dietro all’ospedale. Tu aprirai quella porta ed io farò il resto. E subito dopo, parola d’onore, mi sarò dimenticato di te e del tuo debito. Oswald, sorridi. Stai per avere di nuovo una vita felice.”
E la storia del dottor Lawrence sarebbe potuta finire qui. Voglio dire, un figlio di puttana morto in più sulla coscienza ma tanti debiti in meno. Scelse al contrario la strada più difficile : ma abbiamo capito tutti quanto gli piacesse complicarsi la vita.
Come? Diciamo che le cose non stavano proprio così. Ed io questo lo so bene.
Ma per capire meglio che cosa sarebbe accaduto è necessario tornare indietro di trentasei ore, al momento in cui due agenti federali chiamati dal vecchio parassita ubriaco entrarono con un certo disgusto nella sua tana.
Oswald cantò come un’esordiente al provino e descrisse ai due sbirri perfino i tatuaggi dello scagnozzo.
Svegliò dal coma Lansdale, che confermò la versione dei fatti e diede pure un nome al vecchio boss.
Si trattava di Tommasino “Big Bull” Anatoli. Non era un semplice pregiudicato, ma il boss dei boss. Uno dei mafiosi più pericolosi ed allo stesso tempo più difficili da beccare con le mani nel sacco.
Il piano era semplice. Polizia e federali avrebbero atteso l’arrivo della Mercedes. A quel punto, sarebbero intervenuti per fermare Anatoli, trarlo in stato di arresto ed interrogarlo. La testimonianza di Lansdale avrebbe completato il quadro ed il vecchio Tommasino si sarebbe preso tre o quattro ergastoli. A Lawrence, promisero una faccia nuova, un nome nuovo e pure un lavoro in qualche buco di culo sperduto in Canada.
La sera della trappola faceva molto caldo in città. Era così umido che si poteva sudare come un ciccione in una sauna con addosso un sacco della spazzatura. Non si muoveva un filo d’aria, nemmeno quel tanto che bastava a far frusciare le foglie delle querce attorno all’ospedale. Anche i rumori apparivano tenui, attutiti come da una sordina per tutta quell’umidità. Quel silenzio spettrale era rotto a singhiozzo dalla sirena di qualche ambulanza, che sfrecciava verso il pronto soccorso dall’altro lato del lungo e grande edificio.
Ma alle dieci meno un quarto, all’arrivo della Mercedes e di altre due auto, i rumori non tardarono a farsi sentire. Non appena i tre veicoli iniziarono ad accostarsi all’ingresso, una marea di agenti sbucò fuori dal nulla, di colpo. Sembravano formiche in fuga da una tana in fiamme. Circondarono i mezzi. L’immancabile voce dal megafono non tardò a gracchiare.
-“Anatoli, sappiamo che sei lì dentro. Esci con tutti i tuoi uomini ed alla svelta.”
Dopo qualche secondo di silenzio, dai finestrini oscurati della auto di scorta spuntarono dei mitragliatori che iniziarono ad aprire il fuoco sugli agenti. La risposta non tardò ad arrivare, anche la polizia dimostrò la propria capacità nel maneggiare il piombo. Le tre macchine erano a prova di proiettile e la Polizia stava già chiedendo rinforzi. Ma la fine del conflitto a fuoco era vicina. Venne decretata dall’esplosione della Mercedes di Anatoli, che volò in alto e ricadde al suolo in fiamme, rotolando sul fianco.
Senza più il capo, gli uomini del boss nelle altre macchine si arresero e si fecero ammanettare.
Quando l’incendio fu domato, vennero estratti tre corpi; compresi i resti di Big Bull, ormai carbonizzati e fusi con la pelle dei sedili posteriori. Il test del DNA dopo qualche giorno confermò l’identità di Tommasino e la notizia finì su tutti i giornali. Venne anche dato ampio spazio al coraggio del dottor Lawrence, che smise di bere e riacquistò la sua vecchia dignità, fiducia nella vita, ed una nuova casa. Trovò anche una nuova compagna, dalla quale ebbe un’altra figlia femmina. Hope. Che nome del cazzo. Si dice anche che Laura si fece di nuovo viva e che lui riuscì a riabbracciare, dopo qualche mese, Rebecca e Rachel. Oswald era un eroe, con Tommasino fuori dai giochi non c’era nemmeno bisogno di tutte le cazzate che gli avevano proposto i federali.
La storia di Lawrence finisce qui. Ma non tutta la storia.
Mi sono dimenticato di raccontarvi una cosa, e me ne scuso. Quel giorno, in cui Tommasino entrò per la prima volta nella stanza, il vecchio Oswald non fece abbastanza attenzione a due particolari. A dire il vero, gli sfuggirono del tutto. Tanto per cominciare, non vide la cimice che lo scagnozzo piazzò sopra lo stipite della porta quando Oswald andò a pisciare. La sua chiacchierata con l’effebiai non passò inosservata. Ma questo era stato previsto.
Diciamocelo, non è che Big Bull si fosse costruito un impero fidandosi del primo cazzone ubriaco che incontrava. Seconda cosa, non si accorse dell’incredibile buon gusto in fatto di scarpe di Tommasino Anatoli: un paio di mocassini italiani fatti su misura, che Oswald nemmeno degnò di uno sguardo. E ve lo posso dire con certezza, perché quell’uomo ero io.
Mi è costato un po’ di grana far sì che il DNA risultasse il mio e non quello del povero Felice, pace all’anima sua e che Dio lo benedica.
Ma ora, mi godo i miei soldi e la mia vita, qui, in Argentina.
Mi chiamo Teddy Ramirez: allevo cavalli e setter e vado a caccia tutti i giorni. E ciò che più conta, dormo sereno come un bambino. Perché nessuno al mondo va a cercare un morto: né i federali né i miei rivali, che stanno ancora brindando per la mia dipartita.
Certo, prima o poi potrei far uccidere quel piccolo verme infame di Lawrence. Se lo meriterebbe. Ma in fondo, devo a lui tutto questo.
E se solo un anno fa mi avessero chiesto se sarei stato disposto a barattare la mia libertà in cambio di tre milioni ed un insetto vivo, beh: avrei detto di sì. Quindi, chi se ne fotte.
Ed ora, scusate la fretta ma vi saluto. Vado a sparare. E questa volta, non ad un cristiano.


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