“La monaca ribelle” di Massimo Messa


Milano, Chiesa di San Bernardino alle Monache, nel popolare quartiere ambrosiano. 13 dicembre 1476, giorno di Santa Lucia.

Davanti all’ingresso, un sacerdote, vestito dei paramenti sacri, accoglieva un nugolo di monache infreddolite. La processione si arrestava e tre giovinette si inginocchiavano. Il sacerdote affidava a ciascuna una croce e deponeva sulle loro teste delle coroncine di fiori freschi, poi batteva tre volte al portone del monastero.
Dall’interno una voce femminile, quella della badessa, chiese: “E’ pacifico il vostro ingresso?”.
Una delle tre giovinette, rispose, impavida: “E’ pacifico, siamo venute per immolarci al Signore”.
Allora la porta si apriva e la badessa le accoglieva. Rivolta a Francesca, quella che mostrava più età delle altre, la badessa si espresse in latino: Francesca seculiaris recedat et soror Virginia, sponsa Christi, ingrediatur (Francesca, la figlia del mondo torni indietro ed entri Virginia, nostra sorella, la sposa di Cristo).
Da quel momento Francesca Sartirana, con il nome di Virginia, diventava una delle suore bernardine di quel convento ambrosiano. Aveva sedici anni e veniva da una nobile famiglia della Brianza.
La badessa le si avvicinò, le recise una ciocca di capelli. Poi un’altra monaca finì la tonsura. Suor Virginia e le sue due giovani compagne ricevevano il velo bianco, la benda e il soggolo (sottogola). Era la cerimonia della vestizione.
Accettazione, vestizione, professione, consacrazione. Questi erano i momenti fondamentali del distacco dal mondo per la dedizione al Signore.
L’irrevocabile era avvenuto. Suor Virginia lo sapeva bene, anche se vergine proprio non era. Poco tempo prima si era innamorata di un cavaliere prestante, di nome Alberto, un bel ragazzo alto e ben fatto che si addestrava alle arti della guerra, avendo come suo idolo il grande Bartolomeo Colleoni e come obiettivo quello di militare nelle schiere di Galeazzo Maria Sforza, il Duca di Milano. Nel fienile di Villa Sartirana fecero l’amore per la prima volta e per la prima volta Francesca si era sentita donna consacrata alla prospettiva di moglie e di madre, al centro di una famiglia nobile e riverita.
Ma la legge dell’opportunità non desta mai meraviglia. Francesca aveva due sorelle maggiori di lei, Elena e Beatrice, ancora da maritare, e per ciascuna di esse suo padre avrebbe dovuto sborsare doti tanto più ricche quanto più fosse stato prestigioso il blasone dello sposo. I nobili Sartirana avevano deciso di ricusare ulteriori esborsi per l’ultimogenita Francesca, sebbene bella come una rosa e istruita come si confà a una giovane di alto lignaggio. Così le fu ordinato di sacrificarsi. Si trattava di un imperativo categorico. Francesca aveva perciò intensificato gli incontri con il suo Alberto: sarebbero stati gli ultimi accoppiamenti segreti nel fienile, gli ultimi slanci di una giovane amante nel fiore della sua sessualità.
Ora suor Virginia si trovava prosternata bocconi, il volto nelle palme delle mani, sopra le lacrime un drappo nero che la copriva e la indicava “morta al mondo”. Ascoltava il richiamo del sacerdote: “Ecco, lo Sposo già viene, esci a incontrarLo”. Subito dopo professava i tre voti. Povertà, castità e obbedienza.
L’irrevocabile era avvenuto. Suor Virginia lo sapeva. Al suo giuramento doveva, nonostante tutto, rimaner fedele. Quando i voti son fatti, il debito astringe all’osservanza!
Nonostante tutto, suor Virginia non riusciva a impedirsi di ricordare la sua non vocazione, il piacere che aveva provato molte volte nel fienile, di essere stata costretta, contro il suo volere, a vincolare la sua vita alla costrizione, alla mancanza di libertà.
Mesi prima la neo suora aveva ultimato la stesura di una denuncia contro la tirannia paterna. Così aveva scritto e spedito a Cicco Simonetta, il segretario di Galeazzo Maria Sforza, questa lettera animata dal risentimento:

Egregio Messer Simonetta,
mi rivolgo a voi, nella speranza che teniate in considerazione questo mio sfogo, che vale per tante altre giovinette, vittime della mia stessa sorte, et possiate aiutarci a condannare questa profonda ingiustizia perpetrata da padri nobili solo in apparenza, che, con cinismo et premeditazione, il gentile animo femminile condannano senza esitare. Tiranni d’Averno, aborti di natura, paraninfi dell’inferno, cristiani di nome et diavoli di operazioni, più crudeli et disumani delle belve. Sacrificano le figlie per accumular ricchezze, onori et grandezze per i figli maschi, i quali poi dissipano i loro patrimoni, vituperano gli onori et avviliscono i valori con i loro bagordi, vizi et indegnità. Domandate a un maschio di una delle famiglie di questi padri, nobili di fatto ma plebei di virtù, che cosa fare delle sue sorelle, et egli vi risponderà franco: saranno monache perché io voglio essere ricco. I padri? Felici e fieri di farselo ripetere.

Una lettera feroce che alla fine conclude con una lancinante invettiva:

Gli orsi, le tigri le vipere, i basilischi et ogni più cruda, velenosa et indomita fiera alimenta et teneramente ama i suoi concepiti, non distinguendo da maschio a femmina. Solo l’uomo, che d’ogni belva è più spietato et più crudele, guidato et accecato dall’avarizia, tormenta il corpo e danna l’anima delle sue carni, delle sue figlie, chiudendole vive nella tomba.

Con grande estimo della Signoria Vostra, Francesca Sartirana, il dì 24 del mese di maggio 1476. A cui faceva seguito l’indirizzo di famiglia.

L’accusa forse più grave lanciata ai padri che forzano le figlie non assenzienti alla monacazione era quella di procurare la dannazione delle loro anime. Ma dai padri, dai capi famiglia, l’accusa di suor Virginia si estendeva al governo degli Sforza che, anch’esso giustificava le monacazioni coatte, chiamando in gioco la famigerata ragion di Stato, in nome della quale si sosteneva che, se le fanciulle si fossero maritate tutte, troppo si sarebbe accresciuta l’aristocrazia e di troppo si sarebbero impoverite le case nobiliari con l’esborso di tante doti.
Francesca era arrivata al centro della questione: la monacazione, come viatico di scelte politiche e sociali. Ma confidava nella popolare benevolenza verso i sudditi del dotto Cicco Simonetta.
Una risposta che sino ad allora non era arrivata e, pertanto, nulla aveva impedito la consacrazione non revocabile di Francesca in suor Virginia. Certo Francesca sapeva bene che le speranze erano misere considerando che diverse monache valorizzavano nel senso della spiritualità il loro sacrificio, che accettavano di buon grado e persino con vocazione. Suor Virginia lo sapeva bene. Ma, spes ultima dea, una lettera era nell’archivio epistolare dell’alto funzionario e poi c’erano stati dei casi di fuga dai conventi e lei aveva in Alberto un giovane innamorato e coraggioso, che sapeva maneggiar la spada, e che avrebbe potuto liberarla per amore.
I primi giorni di clausura trascorsero lenti e uguali. La preghiera, la vita materiale di ogni giorno, le obbedienze assegnate alle varie monache: le sacrestane, le fornaie, le tessitrici, le scrivane, le infermiere, le ortolane, le lavandaie. A Virginia, anche per via della sua buona istruzione ed essendo nobile, fu concesso il ruolo di epistolaria e di postina. Cosicché avrebbe potuto controllare ogni lettera e tenersi aggiornata anche sui fatti esterni al convento come l’andamento del ducato di Milano, per quanto potesse essere reso noto a un convento.
Consacrato il giorno di Natale di quell’anno, il successivo 26 dicembre avvenne un fatto assai preoccupante per il Ducato di Milano. Mentre Galeazzo Maria Sforza e sua moglie Bona Visconti si apprestavano a entrare nella Chiesa di Santo Stefano a sentir Messa, Galeazzo venne pugnalato a morte da tre sicari della nobiltà milanese: Giovanni Andrea Lampugnani, Girolamo Olgiati e Carlo Visconti. Quando Virginia lesse questa notizia su una lettera circolare inviata dal prelato di Santo Stefano a tutte le chiese di Milano, Virginia trasalì e pensò che Cicco Simonetta sarebbe rimasto solo al governo della città almeno fino a quando non sarebbe stato nominato il nuovo duca. Nel convento, il sacerdote, nella predica del giorno successivo, fece capire in forma un po’ velata che un orco assetato di potere avrebbe potuto commissionare quell’omicidio così aberrante. E l’ipotesi non poteva che riferirsi al fratello Ludovico Sforza detto il Moro. I tre spietati assassini furono presto catturati e squartati vivi – i quattro arti legati con una fune ad altrettanti cavalli, frustati all’unisono sulle natiche – per ordine di Simonetta. Cicco venne eletto dalla duchessa Bona di Savoia ministro e collaboratore allo scopo di tutelare il potere del piccolo Gian Galeazzo Sforza; questo consentiva al Simonetta di governare a pieno titolo la città di Milano, lasciando alla duchessa poche e irrisorie decisioni.

Passarono i giorni e si entrò nel nuovo anno. Suor Virginia apprendeva come fosse nel parlatorio che le monache tenevano i loro rapporti con l’esterno, attraverso finestre a grate, aperte al mattino e al tardo pomeriggio di ogni giorno. Così, suor Virginia, attraverso queste grate, ma anche attraverso le lettere che scriveva e che riceveva, strinse rapporti con esponenti del mondo letterario milanese, tra cui il giovane Giovan Giorgio Alione. A lui aveva consegnato un suo manoscritto in cui descriveva l’inesorabile vita monacale che portava le sciagurate a farsi l’inferno l’un l’altra. Per le malmaritate, fuori, c’era la possibilità di scioglimento del matrimonio, ma alle monache tutto era immutabile, lapidario, ripetitivo. “E allora che fanno?” si chiedeva Virginia “Farneticano, macchiando la impossibile liberazione da quella prigionia in cui dovevano morire. Il monastero era come il ventre della balena che ingoiò Giona, come una corte infida, come un ospedale dei pazzi, come un teatro in cui tutto era ipocrita e apparente e in cui chi non avesse saputo fingere non avrebbe potuto vivere.

Giovan Giorgio, infilò quella lettera nella propria bisaccia, e la rilesse con comodo a casa. Rimase sbalordito e nel contempo attratto dalla voce suadente di quella monaca così sapientemente esplicita. Avvertì come, nella epistola, la “u” di uomo fosse sempre stata scritta minuscola e la lettera “D” di donna sempre maiuscola. Una femmina tanto energica quanto attraente!
Il giovane letterato ritornò a trovarla, i colloqui si fecero frequenti, prese avvio uno scambio epistolare che in qualche modo regalava a Virginia qualche sprazzo di serenità.

Ed ecco che ben presto l’invidia che s’annidava latente all’interno del convento di San Bernardino uscì allo scoperto. Qualche consorella aveva chiacchierato di sue intimità con qualche prelato e con uno di quei galanti frequentatori che riforniscono i monasteri di tutti gli attrezzi necessari. La voce corse nel quartiere di Sant’Ambrogio, i negozianti ne ridevano, i carrettieri che passavano radenti al convento intonavano crudeli insinuazioni: “Un poeta e una suora, il paradiso alla malora! Il bel Giorgio e la Virginia, benedetta è la lussuria”.
Fu una crisi spirituale da cui Virginia uscì più conscia della sua complessa identità anche nei riguardi delle contraddizioni della vita nel chiostro. Virginia era una donna valida, presto divenne vicaria della badessa, la quale sapeva bene di avere con sé una nobildonna. Indossava un abbigliamento meno castigato e meno scialbo, poteva lasciarsi crescere i capelli e far uscire i riccioli dalla cuffia slacciata, Il velo sottile lasciava intravedere le linee morbide del seno. Scrisse di nascosto al suo adorato Alberto chiedendogli di liberarla. Ma, nel febbraio del 1478 a Virginia giunse una lettera della sorella Elena che le annunciava la morte in battaglia dell’adorato Alberto. La lettera venne inviata in copia anche a Cicco Simonetta.
Virginia cadde nello scoramento, era afflitta, trascorreva molte ore piangendo nella propria cella, depressa e inerme. La sospirata liberazione non sarebbe stata più possibile. La condanna alla clausura nel cuore di Virginia risultava definitiva. Anche l’ultima dea, la speranza, l’aveva abbandonata.

Ma nell’estate del 1479 accadde l’imprevedibile. Ludovico il Moro desiderava conferire un aspetto artistico a Milano, era risoluto a farne un vanto che distribuisse invidia a tutti gli staterelli della penisola. Intendeva chiamare a corte un giovane di talento di cui si parlava come un genio insuperabile: Leonardo da Vinci. Si trattava di individuare le chiese e i luoghi deputati a ospitare le opere di Leonardo a cominciare dal castello Sforzesco. Simonetta, che già in passato era riuscito a far lavorare a corte Antonello da Messina, si diede a documentarsi, riprese in mano i libri storici e dell’arte sin dai tempi di Federico Barbarossa e ne attinse preziose informazioni. Si appuntò alcune alternative da raffigurare: La battaglia di Legnano, le imprese di Bernabò Visconti, il matrimonio di Francesco Sforza con Bianca Maria Visconti e poi, ancora, soggetti religiosi, come L’ultima cena o la Madonna in trono. Si tratterà di parlarne con l’artista e con Ludovico. E bisognerà anche scegliere i luoghi più idonei. Sant’Ambrogio? Santa Maria delle Grazie? Santo Stefano o il Convento di San Bernardino alle Monache? Saranno necessari dei sopralluoghi.

Nel mese di settembre di quell’anno, un corteo a cavallo, partito dal Castello degli Sforza raggiunse la Chiesa di San Bernardino alle Monache. La facciata in mattoni rossi, tipicamente lombardi, rispecchiava alla luce del mattino. La badessa uscì dal portone affiancata da Suor Virginia e accolse Cicco Simonetta, accompagnato dal figlio Antonio, esperto d’arte e di storia, e dai suoi cavalieri.
“Siete i benvenuti, messeri. La chiesa è pronta per la vostra venuta. Accomodatevi.
I visitatori entrarono in silenzio ed esaminarono le pareti. Nel presbiterio erano presenti degli affreschi che raffiguravano una Madonna del latte, la fuga in Egitto e altri episodi religiosi mentre le pareti laterali e le colonne risultavano ancora spoglie.
“Mi sembra già ben decorata questa chiesa, madre” esordì Simonetta.
“Sì, ma sono opere umili, concepite per la consacrazione della chiesa più che per dare risalto al convento, sua signoria”.
S’era fatto mezzogiorno e la badessa invitò a desinare alla mensa del convento Simonetta e Antonio che accettarono di buon grado.
Un tavolo con quattro sedie era già stato allestito nel refettorio. Al centro del tavolo svettava una bottiglia di vino rosso attorniato da due canestri di pane fresco.
I quattro si accomodarono a quel tavolo che era posizionato nella parte più luminosa del locale. Di fronte a Cicco Simonetta la badessa, dirimpettaia di Antonio, Virginia.
“Avete già pensato ai soggetti da affrescare, Messer Simonetta?” chiese la badessa.
“Sì,” rispose Cicco mentre affettava un tozzo di pane, nella torre settentrionale del castello avremmo pensato alla Battaglia di Legnano, a dimostrazione della forza del nostro territorio contro l’imperatore usurpatore, Federico I di Svevia. Ma abbiamo delle remore in quanto non esiste un figura rappresentativa della battaglia, come fu per esempio Bartolomeo Colleoni per la conquista del Castello di Trezzo”.
“In effetti, per rappresentare la battaglia saremmo costretti a inventarci un baldo comandante della Compagnia della Morte” aggiunse Antonio “ho letto un trattato tramandatoci un paio di secoli dopo dallo storico Galvano Fiamma, ma anche da lui nessun nome, nessun eroe”.
“Beh, ma lo si potrebbe creare,” aggiunse suor Virginia “così come hanno fatto gli svizzeri per Guglielmo Tell”.
“Ah, Guglielmo Tell non sarebbe mai esistito?” le chiese Cicco.
“No, Signore, la confederazione elvetica aveva bisogno di una figura di riferimento e di coesione che rimanesse per i posteri a testimoniare la costituzione del nuovo Stato”.
“Ma chi siete voi, sorella, per sapere così bene di queste cose?”.
Rispose per lei la badessa: “Si tratta di Suor Virginia Sartirana, messere, una nobildonna di Giussano”.
“Sartirana? ho già sentito questo nome” esclamò Cicco “avete forse una sorella che si chiama Elena?”.
“Certo, Signore, è una delle mie sorelle maggiori”.
Dopo un momento di pausa, necessario a trangugiare un bel boccone d’agnello, il Simonetta soggiunse: “Ah, sì, ora ricordo, vostra sorella mi ha scritto per raccomandarmi la vostra storia, dopo la morte in battaglia di un nostro bravo cavaliere, tal Alberto da Giussano”.
Virginia ebbe un sussulto. Non sapeva di questa lettera, che, come detto, altro non era che la copia di quella indirizzata a lei. Ma non ebbe l’ardire di aggiungere che anche lei stessa gli aveva scritto, nella speranza di evitare la clausura indesiderata e denunciando la forzatura dei padri nobili sulle figlie, obtorto collo obbligate a prendere i voti.
“Da quanto o capito, voi, sorella, lo conoscevate bene”.
Dopo un attimo di esitazione, Virginia si decise a rispondere di sì. “Era un soldato della mia famiglia, assai valido e coraggioso”.
“Ecco, padre, potrebbe essere questo il nome da passare alla storia!” propose Antonio, con in mano una fetta di formaggio che agitava in compagnia delle parole.
“Alberto da Giussano, il Comandante della Compagnia della Morte, il famoso vincitore della Battaglia di Legnano!” corre bene, figlio mio. Ne sono convinto. Dai subito ordine ai nostri scrivani di recuperare i testi di Galvano Fiamma e di inserire nella descrizione della tenzone questo noto e affermato condottiero”.
“Ma, modestamente, vorrei farvi notare che si tratterebbe di un falso” ingiunse la badessa, con severo cipiglio.
“Già, proprio come hanno fatto gli Svizzeri e, se lo hanno fatto gli Svizzeri, noi vogliamo essere da meno?”.
“Certo che no!” rispose Antonio “Potremmo inserirlo nella sua Chronica Galvanica.
“Bene, figlio mio, provvedi subito a far cambiare i testi di Galvano Fiamma e rappresenta Alberto da Giussano come un indomito guerriero che ha prestato solenne giuramento, prima della battaglia, sulla piazza di Pontida, dove gli uomini della Lega partirono per Legnano”.
Virginia accennò a un sorriso controllato alla consapevolezza che il suo amato sarebbe passato alla storia come un eroe e chissà quanto di lui ci avrebbero poi ricamato i futuri storici!
I due uomini si congedarono, con un grappolo di uva ciascuno in mano, ringraziarono, rimontarono a cavallo e si diressero verso Santa Maria Delle Grazie.
Per Virginia restava la conferma della condanna alla clausura, ma quella innovazione le aveva donato un grande conforto e un grande aiuto nel continuare questo officio. Il suo amato Alberto, quello che le aveva tolto la verginità e istruito ai piaceri della carne, sarebbe per sempre passato alla storia. Date le circostanze, tanto le bastava per tirare avanti con recuperato coraggio.

Intanto Ludovico il Moro era divenuto reggente del Ducato di Milano, in attesa della maggiore età di Gian Galeazzo Sforza, figlio del fratello assassinato, che aveva solo nove anni. Il Moro ricusava ogni intenzione di rinunciare al titolo di duca e lo relegò nel castello di Pavia, lontano da corte, lontano da sua madre e in compagnia di tutti gli omosessuali di cui il ducato disponeva che lo sodomizzassero e si facessero da lui sodomizzare. Gian Galeazzo era un adolescente gracile e insicuro. Non sarebbe stato difficile screditarlo, considerati questi suoi antefatti.

Quando Cicco Simonetta capì le reali intenzioni di Ludovico il Moro, fece di tutto per riportare Gian Galeazzo a Milano, considerato che ne era il tutore. Tuttavia Ludovico era troppo potente per permettersi un avversario e fu così che, con un processo teatrale e delle false accuse, Cicco Simonetta fu torturato, condannato a morte e, infine, decapitato sul rivellino del Castello di Pavia il giorno 30 ottobre dell’anno domini 1480. Ma suo figlio Antonio aveva già provveduto a far modificare, con la partecipazione di Alberto da Giussano, tutte le copie della Chronica Galvanica, di Galvano Fiamma, sulla battaglia di Legnano …


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