NOTA: la prima frase del racconto è una voluta citazione dell’incipit de Lo Straniero di Albert Camus.
Oggi la mamma è morta. La telefonata dall’ospedale mi è arrivata verso l’una del pomeriggio, quando stavo guardando il telegiornale. Come sempre, sentivo i suoni delle parole della speaker, ma soprattutto osservavo la sua faccia un po’ truce, seguivo i movimenti delle labbra e ogni tanto mi incantavo sul suo sguardo allucinato. E’ vestita strana, la tipa, con una giacca a righe verticali bianche e verdi, una collana etnica enorme, due orecchini di metallo pesanti che le trascinano verso il basso i lobi degli orecchi. Mi ero alzato dal divano per andare in bagno quando la soneria del telefono ha cominciato a trillare con insistenza. Sul display un numero che non conoscevo, e non ho risposto. Per fortuna ha smesso. Ma solo per poco, dopo qualche secondo quel suono insistente e petulante ha ripreso a tormentarmi i timpani, alla fine ho ceduto.
La mamma è morta, mi hanno detto. E io sono qui che mi guardo attorno, nell’unica stanza del mio appartamento. C’è molto disordine, molti piatti sporchi sul lavello nell’angolo cottura, la donna delle pulizie arriva domani, viene una volta alla settimana, il lunedì, peccato che mia madre sia morta proprio oggi, se fosse morta domani o martedì almeno la casa sarebbe stata un po’ più in ordine, e poi non ho camicie stirate, anzi, per fortuna me ne sono ricordato, devo metterle in lavatrice ché sennò per domani non saranno asciutte e la donna non le potrà stirare. Sto lì a fissare la lavatrice per un po’. Oggi pomeriggio dovrò anche farmi vedere all’ospedale, immagino che ci siano delle pratiche burocratiche da sbrigare, e io sono l’unico parente in vita della mamma. Solo che fa un caldo tremendo, afoso, anche se siamo già in ottobre. Le imposte sono socchiuse, per non fare entrare il sole, guardo giù ma non c’è quasi nessuno per la via, solo un cane che ansima sul portone del palazzo di fronte. D’altronde è domenica, chi è così pazzo da andarsene in giro con questa canicola infernale.
All’ospedale mia madre non me la fanno nemmeno vedere, per domattina allestiranno la camera ardente, e per un’oretta mi dicono che potrò stare con lei. Mi fanno firmare un sacco di carte, e io firmo, diligente, l’impiegata è gentile, mi guarda amorevolmente, coraggio, mi dice, mentre mi prende di mano i fogli che ho riempito di scarabocchi. Io abbozzo un sorriso di circostanza, mi osservo le mani e mi accorgo che mi hanno dato una biro che spande l’inchiostro e sporca le dita, ci sono macchie violacee sulle unghie e sui polpastrelli. Meccanicamente sollevo la mano destra e la tendo verso la donna tutta vestita di bianco dall’altra parte del bancone, come per farle notare che cosa mi è successo, e lei si ritrae, con un lieve grido, forse teme che la insudici, o forse ha paura di come ora la sto fissando, la scopro inquieta, gli occhi che vagano da una parte all’altra, le do subito dei fazzoletti di carta, mi dice in fretta, li cerca sotto il bancone, ma evidentemente non li trova, è agitata, poveretta, impreparata, e io me ne sto lì, fermo, immobile, in attesa, mentre ne studio i lineamenti, le gote rosse, la ciocca di capelli che spunta dal berrettino bianco che ha sulla testa. Gli occhi sono color nocciola, banali, senza luce, opachi come i fazzoletti che finalmente mi porge, scusandosi per l’inconveniente, non fa nulla, la rassicuro, sono cose che capitano, e la compiango per quel suo affannarsi, per il disagio che mi butta in faccia senza alcun pudore.
A pomeriggio inoltrato sono nell’appartamento della mamma e mi faccio una birra. Spalanco le finestre e resto in mutande e in maglietta, tutto in questa casa è in un ordine perfetto, non una cosa fuori posto, la cera che brilla sui pavimenti. Mi sporgo dalla finestra a contemplare dall’ottavo piano il formicolio che pervade la strada giù in basso, e volute di caldo malsano spurgano dall’asfalto salendo fino in cima, a stordirmi. Finisco la birra con un lungo sorso, respiro forte, un paio di rutti e vago indolente per le stanze.
La camera da letto di mia madre. Lo scrigno è là, in bella vista sul comò, sopra un centrino di pizzo, lei ci ha messo la fede di papà quand’è morto, tre anni fa, in novembre. La sua cosa più preziosa, diceva. Lo apro. La fede c’è ancora, e magari domani ci metterò pure quella della mamma, è tutto ciò che terrò di loro, mi dico, il resto in discarica, rimarranno solo le due fedi. Non so perché mi è venuta questa idea, non c’è un motivo preciso, magari getterò via tutto, cazzo mi frega delle fedi. Scuoto il capo e mi accendo una sigaretta, non vedo un posacenere in giro, ma è lo stesso, butterò la cenere per terra, sul parquet, nel silenzio attonito di questi muri che percorro lentamente con lo sguardo, con il santino del papa e il paesaggio dipinto da papà incorniciati tra la porta e l’armadio di noce. Muri che riflettevano impassibili i suoni della voce di mia madre, che anche in ospedale parlava parlava parlava, di cose senza senso, l’impegno, la responsabilità, la famiglia, i figli, lo status sociale. Di mio padre che si era fatto un mazzo così per garantire a tutti noi una posizione rispettabile nella società. Della mia incomprensibile abulia. Qualche giorno fa mi ricordava che mancava solo un mese all’anniversario della morte di papà, e che bisognava preparare tutto per bene, invitare i parenti e prenotare la messa in suffragio. Precisa, puntuale, le sue cazzate in cima a ogni priorità, le date e le scadenze innanzi tutto. E io sì, mamma, non ti preoccupare, sta’ tranquilla. Già. Date, scadenze, cose da fare.
Io invece sono uno che guarda.
Fisso la brace sulla punta della sigaretta e mi viene da ridere. Mi lascio cadere sul letto e rido. Solo giovedì scorso con mia madre ancora si parlava dello scrigno con la fede, di un mese, novembre, e di un anniversario, il terzo. Giovedì. Tre giorni fa. Mi sembra un’eternità, lontana, confusa.
Mi accendo un’altra sigaretta, e mi incanto a osservare le nuvolette di fumo che escono dalla mia bocca aperta. Si muovono lente, sensuali, quasi estenuate anch’esse dall’afa e dall’umidità, non riescono nemmeno a salire su fino al soffitto, si perdono a metà, come se ci fosse una barriera che cercano di superare scivolando sotto, per trovare un passaggio da cui poi riprendere il cammino verso l’alto. Ma non c’è alcun passaggio, e il fumo si ferma lì, a mezz’aria, dissolvendosi poi in un’atmosfera grigiastra uniforme che invade tutta la stanza, me stesso e i miei polmoni. Quasi fosse un liquido amniotico, la cui funzione però non è tenere in vita, bensì accompagnare verso il nulla. O verso il tutto, che è la stessa cosa. L’ineluttabile processo dell’entropia.