“Vigilia di Natale” di Alessio Piras


 

 

24 dicembre 2008

Genova, stazione Brignole, ore 16. C’è un gran fermento nell’atrio: madri, padri, figli, nipoti, nonni e zii, giovani coppie, giovani scoppiati, ferrovieri, artisti di strada e senza tetto. Per qualche ora, la crisi sembra sparita. La signora del bar regala un Lindor rosso con ogni caffè come augurio di Buon Natale. Il tabaccaio regala il calendario dell’unione tabaccai e l’edicola fa uno sconto del dieci percento su quello della Ferilli.

L’atmosfera è serena, si respira l’aria del Natale e qualcuno dà una monetina al mendicante seduto sui gradini del binario uno. Tutti sono eleganti, la maggior parte arriva per le ultime spese, molti aspettano un parente o un fidanzato. Tutti sorridono, almeno per le prossime ventiquattr’ore si lasceranno da parte i problemi degli ultimi mesi. Il pittore un po’ matto inveisce contro il nulla: il suo bestemmiare rauco fa eco sulle volte dell’atrio facendo voltare i viaggiatori ignari della leggenda che lo circonda; chi lo conosce si chiede come mai non sia, come sempre, alla stazione Principe, seduto nei pressi del bar, oppure girovagando senza voglia di fronte al tabellone degli arrivi.

Mario è seduto davanti alla biglietteria. Ha un completo grigio, una camicia bianca leggermente lisa sui polsini, sulle spalle porta un cappotto lungo nero e in testa un berretto con la tesa stretta, anch’esso nero. Una mano in tasca, nell’altra, tra indice e medio una sigaretta si sta consumando senza essere fumata. Aspetta, con anticipo, Rosa: dovrebbe arrivare con il treno delle cinque da Roma. Si alza dalla sedia in acciaio della sala d’attesa antistante la biglietteria e va a prendersi un caffè. Esce dal bar, scarta il cioccolatino e lo mangia con gusto. Davanti a lui una madre aspetta il figlio che scende dal binario sette con due valigie, la borsa del portatile e uno zaino in spalla. Avrà vent’anni e sarà uno studente fuori sede che rientra giusto in tempo per il cenone della Vigilia. Ha l’aspetto da letterato, da intellettuale un po’ sfigato, vestito come vestiva suo padre sul finire degli anni ‘70, Clarks-Levi’s-Giacca di velluto con la toppa sul gomito. Come se quella scena l’avesse disegnata il pittore dalla voce di metallo in un gioco di contrasti, dietro il ragazzo compare il suo esatto opposto: una ragazza probabilmente coetanea vestita come Moda comanda. Una valigia microscopica con le ruote, occhiali da sole che coprono parzialmente il viso anche se si trova in un sottopassaggio e fuori è già quasi scuro; tacco alto, sciarpa e guantini di cashmere. Nella mano che non trascina la valigia tiene dei sacchetti di boutique di alta moda: è scesa dal rapido proveniente da Milano. Accanto a lei cammina disordinatamene una coppia di anziani con due grandi trolley neri. Sono bassi, “anzi un po’ nani” pensa Mario, ben vestiti, “di un’eleganza d’altri tempi e…d’altri borghi; avranno settant’anni” ripensa Mario. Hanno un forte accento meridionale, probabilmente l’ultima traccia di un’infanzia e un’adolescenza trascorse al sole della Sicilia, prima di emigrare a Milano per dare al proprio figlio quelle possibilità che loro non hanno avuto. Figlio che li aspetta devoto davanti all’edicola, non lontano da Mario. E’ un elegante quarantenne dall’aspetto pacato, ha lo sguardo di uno che nella vita è riuscito a combinare qualcosa e sorride sicuro.

All’interno dell’ufficio informazioni due persone litigano col personale di Trenitalia. Le porte sono chiuse, la stanza isolata acusticamente, ma a volte non serve l’audio per capire ciò che succede: gesti più eloquenti delle parole, espressioni arrabbiate, occhi ricolmi d’odio, l’impotenza nel volto del personale delle ferrovie. L’ironia della sorte vuole, come minimo, che i primi a essere disinformati siano loro, ma non per una mancanza propria o per inefficienza: il punto è che proprio quell’informazione non esiste e, quindi, non la possono sapere. Le due persone arrabbiate escono sbattendo i piedi in assenza di una porta, per colpa di un vetro scorrevole che ne fa le veci. Urlano fino all’uscita della stazione: stizziti, prendono un taxi e vanno in aeroporto a prendere il primo volo per Roma. I due ferrovieri dell’ufficio informazioni sono provati, si alzano, bloccano la porta e mettono un cartello: TORNO SUBITO. Immediatamente si scatena l’ira di una donna in attesa da un quarto d’ora. Il ferroviere disinformato la guarda, allarga le braccia e col volto sembra dirle: ”mi spiace, è così”.

Nell’attesa sempre più insopportabile, Mario si sposta confuso dall’atrio e si dirige verso l’uscita. Appoggiato allo stipite della grande porta, lo sguardo verso l’esterno e la stazione alle spalle, si sente fra due correnti contrapposte, in un luogo di confine tra due mondi connessi tra loro, che si nutrono a vicenda e che non potrebbero esistere se l’altro scomparisse d’improvviso. Nel piazzale è una teoria di mezzi: macchine e taxi in prima fila si spingono per arrivare al semaforo senza nessuno davanti. I primi impazienti di riportare il parente appena arrivato a casa, i secondi nella frenesia di concludere una corsa appena iniziata e iniziarne un’altra. Al di là dei taxi gli autobus, i celere in genovese. 17, 18, l’84 piccolo per via Amarena. Il 33 che fa la Circonvalmonte. Il 40 da Oregina. E poi il 15 che fino a Nervi sul limitar del mare dà modo allo sguardo di perdersi all’orizzonte, quando, al tramonto il sole sembra indugiare su Camogli in un trionfo giallo, mentre il paese si specchia nel mare della sera. Il 31 che va a Quarto, al monumento, allo scoglio da dove i Mille partirono, o dove almeno i libri di storia dicono che partirono.

La gente dalla stazione di corsa attraversa tutto il sottopassaggio, poi il piazzale e poi la strada per andare alla sua fermata da dove, su un autobus, attraverserà un pezzo di città, o tutta la città, per andare a casa, o a un luogo che consideri sufficientemente familiare da chiamare casa e da trascorrerci il Natale. Mario vede una coppia che contratta con il tassista sul prezzo fino a casa; un giovane che dall’aspetto sembra nordico, si guarda intorno confuso senza sapere bene dove andare; non ci sono indicazioni, non ci sono le cartine delle linee. Ha chiesto al giornalaio, gli ha dato un biglietto dell’AMT e ha alzato le spalle. Un anziano sale sull’84, non c’è posto, ma un ragazzo lo fa sedere. Una donna tenta di attraversare col rosso, ma il suono improvviso della tromba del 18 in arrivo la gela sul marciapiede. Ancora al di là i giardini di Brignole. E poi, coperti dagli alti alberi, Piazza della Vittoria con l’Arco di Trionfo che si alza al centro dello spazio piano, uno dei pochi in città, delimitato sul fondo dal Liceo Andrea D’Oria. Mario sente un brivido, si volta, guarda il termometro di Corte Lambruschini e legge i gradi, sono solo due. Si volta e rientra dentro, nelle tasche trova due euro, uno decide di spenderlo alla macchinetta e prendersi un tè caldo. Intanto continua ad aspettare Rosa.

La macchinetta gli dà un tè che è più acqua calda e sporca che tè. Ma non fa niente, l’importante è che scaldi. Con le mani che avvolgono il bicchierino di plastica per non disperdere il calore e bevendo a piccoli sorsi torna verso l’atrio. Stanco si siede davanti alle biglietterie. Ora ha un’immagine opposta a quella di prima. Da coloro che arrivano a coloro che partono, dalla luce negli occhi, dal labiale soffocato dal freddo e dal sorriso a pronunciare la destinazione, Mario cerca di indovinare le mete di questi piccoli viaggiatori del nuovo millennio. Un giovane uomo ben vestito compra due biglietti, probabilmente è sposato o fidanzato. Coi biglietti in mano va incontro a una giovane donna incinta, molto elegante, con un piccolo trolley blu. L’uomo la guarda con occhio schivo, non abbassa lo sguardo sul pancione. La bacia freddamente e lei, triste con lo sguardo abbassato, lo segue due passi indietro. Chissà quel figlio se e quanto sia figlio del caso o programmato da un piano voluto. Chissà se lui ha un’altra, o lei è entrata in crisi vedendo il suo corpo trasformato, cambiato e ingombrato dalla presenza del bambino. No, non è così. Lei si accarezza il grembo, lo tiene e lo protegge. Lo guarda ferma, mentre lui oblitera i biglietti, e sorride. Severa, però, alza lo sguardo verso di lui e lui impassibile non sorride, non volge lo sguardo sul figlio protetto dal grembo materno. Lui, che si è escluso fin da principio da quel rapporto, ora già esclusivo tra madre e figlio, si sente uno in più, un elemento esterno che oltre alle operazioni iniziali non può più intervenire in quel rapporto. “Ti sbagli”, sussurra Mario, “la tua assenza sarà come un macigno di peso insopportabile sulla schiena del ragazzo e alla lunga, quando sarai vecchio e solo e stanco sarà un coltello piantato nel cuore della tua coscienza e pungerà, pungerà fino a che non morirai”.

Una giovane coppia si abbraccia felice con in mano i biglietti appena acquistati. Sono poco più che ragazzini, liceali, tuttalpiù al primo anno di università. Probabilmente è la loro prima vacanza insieme, soli, o con qualche amico, ma insieme. Dormiranno insieme e forse sentono già l’odore e la consistenza della pelle del corpo dell’altro. Ne pregustano il sapore, unico, di una prima volta che vogliono indimenticabile, nell’oasi temporale di una vacanza durante la quale il tempo si fermerà, in una notte nella quale il mattino sarà ospite sgradito, in un risveglio che non dovrà arrivare e che, nell’istante del primo bacio del primo mattino da uomo e da donna, si esaurirà ed entrerà definitivamente nell’antro dei ricordi, ritornando con un movimento improvviso o calcolato lungo tutta la loro vita: esattamente come ora Mario ha in mente gli occhi di Rosa la mattina dopo averle fatto l’amore per la prima volta: azzurri e acquosi, spalancati come a voler trattenere l’immagine di quel giovane uomo al quale si era concessa, primo e ultimo maschio a giacere tra le sue braccia. Fu la concrezione fisica di un sentimento consolidato negli anni. Oggi di anni ne sono passati cinquantadue, “quindi fanno due anni che te ne sei andata, che ti ha portato via, vestita di nero e oscura”.

Finito il tè, Mario si dirige verso i bagni pubblici. Ne esce dopo essersi abbondantemente lavato mani e viso e si appoggia alla colonna in centro all’atrio. Sono le cinque e mezza: il treno da Roma, puntuale, è arrivato da mezz’ora. Rosa non c’era. Poco importa, tornerà domani, e dopodomani, e poi il giorno dopo, e poi quello dopo ancora, e così sarà fino a quando le gambe gli reggeranno, fino a quando il cuore continuerà a battere e i polmoni a pompare aria.

Mario si scosta dalla colonna, controlla l’orologio della stazione; abbassa lo sguardo e con le mani in tasca se ne va in mensa, alla Caritas, a consumare la sua prima vigilia di Natale da invisibile.


Una risposta a ““Vigilia di Natale” di Alessio Piras”

Lascia un commento