"La banda della codeina" di Massimo Messa


 

 

Marco, Giorgio, Roberto, Anselmo, Paolo ed io avevamo quattordici anni e frequentavamo la terza media alla scuola di Piazza Ascoli. Stefano, il fratello di Roberto, ne aveva sedici ed era già in prima ragioneria.

In quel mese di maggio del 1961, incalzato da un venticello stimolante, nessuno di noi aveva voglia di mettersi a studiare di primo pomeriggio. Le ragazzine della nostra classe non ci badavano: troppo piccoli e troppo sciocchi per loro, qualcuno anche impresentabile agli occhi di una femmina in via di sviluppo per via dell’acne, qualcun altro per via di quella barba che assomigliava a dei capelli trasportati più in basso. Così ci dovevamo accontentare di trovarci tra noi.

Abitavamo vicini e, di pomeriggio, eravamo sempre insieme. Gli altri ci chiamavano La banda della codeina perché avevamo in comune dei medici che, a ogni problema di salute, dalla sbucciatura di un ginocchio, alla bronchite, alla pertosse, ci prescrivevano dalle quattro alle otto pastiglie di codeina al giorno. La codeina è un oppiaceo che calma il dolore, tranquillizza e intorpidisce come una droga, ma pareva che ci facesse bene. D’altra parte a quei tempi circolavano, come medicinali, soltanto l’aspirina, la penicillina e, per l’appunto, la codeina.

Come passavamo il tempo? Una volta mettemmo una moneta da 5 lire sulle rotaie del tram, in modo da appiattirla e renderla ovale. Poi ci recammo verso il bar di via Tiepolo, dove su una colonnina stanziava, in prossimità della porta d’ingresso, un piccolo distributore di palline di gomma da masticare. Infilando la moneta così deformata al posto delle previste 10 lire nell’apposita feritoia, essa vi rimaneva incastrata senza mai cadere nel raccoglitore interno. Cosicché girando la manopola del dispenser questa ruotava continuamente su se stessa sfornando a ogni giro una pallina. Cicche per tutti alla modica cifra di 5 lire!

A casa di Giorgio c’era l’ascensore. Vi entrammo e, dopo aver immerso le nostre cicche ben masticate in un barattolo con marmellata di ciliege, che la nonna di Anselmo aveva confezionato con le proprie mani, le appiccicammo, alzando le braccia, sul soffitto dell’ascensore. Parevano delle bombe di fuoco pronte a essere sganciate. La marmellata avrebbe sgocciolato e prima o poi, considerate le vibrazioni dell’ascensore e il rinsecchimento naturale delle gomme, sarebbero davvero cadute, magari sulla testa del primo malcapitato e noi lo consideravamo un fatto da addebitare alle spese di condominio per la manutenzione dello stabile. Nella trappola cascarono difatti alcuni condòmini, davvero godibili con la marmellata di ciliege tra i capelli! La banda della codeina aveva testimoniato la propria immaturità al chewing gum.

Un altro giorno ci fornimmo di carta stagnola, di quella che si trovava all’interno dei pacchetti di sigarette. La strusciavamo per bene sopra una moneta da 10 lire in modo da ricavarne una copia che, seppure di stagnola, apparisse identica, quanto meno nella parte superiore. Ne preparavamo cinque o sei e poi dopo che ognuno di noi aveva sputato sul retro di queste finte monete, le depositavamo l’una accanto all’altra sul marciapiede dall’altra parte della strada e poi restavamo ad aspettare che qualcuno, credendole vere e sentendosi fortunato per questo inaspettato ritrovamento si chinasse a raccoglierle. E… sai che spettacolo, da morir dal ridere, quando questo malcapitato si scrollava le dita dal nostro sputo estraendo di tasca un fazzoletto per detergerlo!

Quando in famiglia ci davano i soldi, li spendevamo all’Astor, di corso Buenos Aires, il cinema con le poltrone imbottite di velluto rosso dove c’era da divertirsi all’ingresso. Difatti, si accedeva alla sala dal fondo, dove iniziavano i lunghi gradini che si defilavano verso il basso tra due schieramenti di posti. A film iniziato, il buio in sala imponeva attenzione. I gradini non erano ben visibili e, non essendo disposti l’uno dopo l’altro, non si poteva mai calcolare con precisione quando abbassare il piede. Ricordo che le prime volte cercavamo i posti liberi strisciando come si fa con le pattine ai piedi dopo che la mamma ha dato la cera. La banda della codeina pensò di sfruttare questa circostanza. Cosicché cercavamo di entrare sempre a film iniziato insieme a qualche altro spettatore, meglio se un po’ vecchiotto. Noi ci spostavamo in maniera un po’ disordinata e, individuato il vecchiotto o la vecchiotta di turno, ci posizionavamo davanti e, fingendo di essere in prossimità di un gradino, che in realtà non esisteva, simulavamo lo spostamento del corpo che scende di un balzo, piegandoci sulle ginocchia. Il livello del corridoio non era per niente cambiato ma noi lo facevamo credere anche mormorando un paio di esclamazioni del tipo “Attento al gradino!”. Andava da sé che gli spettatori che ci seguivano pensavano davvero che il gradino ci fosse e procedevano come degli zombi. Poi, quando il gradino arrivava per davvero, per compensare, raddrizzavamo le ginocchia e allungavamo le gambe. Nessuno dei nostri malcapitati bersagli era mai caduto, ma qualche inciampo con le mani che afferravano le teste o le spalle di coloro che stavano già comodamente seduti questo sì, si verificò senz’altro.

Ma l’impresa clou del nostro gruppo di ragazzi era quella di vederci dei film gratis vietati ai minori di sedici anni. La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli e Psyco erano infatti tre film vietati a noi quattordicenni e, perciò, furono messi, a buon ragione, nel mirino delle nostre scorribande. Come facevamo?

Al Cinema Diana di Porta Venezia il primo spettacolo pomeridiano cominciava alle 14,30, il secondo alle 16,30. A noi andava bene il secondo. Con una colletta consentivamo a Stefano, che aveva già l’età consentita, di comprarsi il biglietto ed entrare. Noi altri cercavamo sul marciapiede, attorno all’uscita del cinema, se vi fossero dei biglietti buttati per terra. Di solito qualcuno c’era, lo prendevamo e ce lo mettevamo in tasca. Ci sarebbe servito in caso di controllo.

Stefano entrava con un cacciavite infilato nella cintura, pagava alla cassa ed entrava nella sala cinematografica durante la pubblicità. Si dirigeva verso il bagno attraverso un breve corridoio. Ma, ecco dove stava il trucco. Accanto alla porta d’ingresso dei servizi si trovava anche l’uscita di emergenza che era tenuta chiusa da una barra di metallo bloccata da una vite piuttosto robusta infilata nel legno. Stefano non doveva fare altro che svitare con cura quel fermo, alzare la sbarra e aprire l’uscita d’emergenza che dava su via Mascagni. Lì avrebbe trovato tutti noi in attesa che quella porta si aprisse. Perciò, non appena Stefano la dischiudeva, noi entravamo alla spicciolata in silenzio ed entravamo nel bagno. Una volta tutti dentro, Stefano richiudeva e risistemava la porta così come l’aveva trovava. Rimesso via il cacciavite, attendavamo insieme il buio in sala che preannuncia l’inizio del film. Poi ci accomodavamo a due a due in posti distanti l’un l’altro nella sala per non dare nell’occhio. E la visione del film vietato ai minori di sedici anni era tutto a nostra disposizione. Gratuitamente.

In questo modo ci gustammo La dolce vita e Rocco e in suoi fratelli.

Le cose andarono diversamente per Psyco. Non vedevamo l’ora di vederlo perché in classe si mormorava che ci fosse Janet Leigh nuda sotto la doccia che veniva accoltellata. Una leccornia che non ci potevamo perdere.

Stefano entrò, come al solito, al cinema Diana, armato di cacciavite. Pagò il biglietto e si diresse al bagno. Ma il film stava iniziando. Entrammo in fretta, l’uno dopo l’altro, nel buio della sala. Fatto sta che una coppia di rompiscatole, marito e moglie anziani, aveva capito che noi sette eravamo penetrati nel cinema da quel percorso insolito. Il marito si alzò a controllare, mentre noi avevamo già preso posto qua e là nella sale, e si rese conto che dovevamo essere entrati da quell’uscita di sicurezza. Si diresse verso le tende rosse all’ingresso del cinema e informò la maschera.

Pochi minuti dopo, proprio mentre Janet Leigh stava facendo la doccia, la proiezione fu interrotta e si accesero le luci in sala.

La sala era semivuota e noi sette davamo nell’occhio essendo ragazzini presenti alla visione di un film proibito a minori di sedici anni. La maschera ci fece alzare uno dopo l’altro e ci invitò ad andarcene senza mai più farci vedere. Usò parole molto delicate del genere “Ringraziatemi di non chiamare i carabinieri, brutti scarafaggi, ma lo farò senz’altro se dovessi vedervi ancora in giro da queste parti!”.

Non ci aveva affatto spaventati, ma non ci rimaneva da fare altro che andarcene e addio al film di Alfred Hitchcock. Lo avremmo rivisto da grandi.

Ci ritrovammo in piazza Oberdan un po’ dimessi. Roberto disse a suo fratello “Ora il cacciavite puoi anche buttarlo via, il cinema Diana ce lo dobbiamo scordare”.

“Non importa!” ci aggredì Giorgio che, abitandoci, conosceva bene quella zona “Al cinema Cielo possiamo entrare dall’uscita di emergenza senza bisogno del cacciavite. Non c’è la vite ed è sufficiente alzare la sbarra”.
“Stanno riproiettando il film Rififi, in questi giorni!”.
“E la settimana prossima danno Exodus, con Paul Newman” aggiunse Anselmo.

Terminammo l’anno scolastico usufruendo di un paio di film al cinema Cielo che aveva anche le poltrone assai più comode. Agli esami fummo tutti promossi col minimo dei voti. La scuola media era finita per tutti.

Ma la banda della codeina non si era del tutto sfaldata. Io, Paolo e Anselmo ci iscrivemmo all’Istituto Tecnico Commerciale Pietro Verri di corso di Porta Romana 110. Col tram 22 quarantacinque minuti per raggiungerlo ogni mattina. Ma, secondo i nostri genitori, era una scuola dotata che ci avrebbe consentito un posto in banca una volta conseguita l’abilitazione.

E fortuna volle che tutti e tre fossimo accolti nella stessa classe, la 1^ A.

Il primo giorno di scuola vi fu un congresso tra noi tre sul tram 22, su cui eravamo saliti con un notevole anticipo sull’orario d’ingresso al Verri. Dovevamo definire una strategia comune per accaparrarci i banchi più arretrati in modo da non sentirci costretti a stare tutti i giorni per cinque ore, imbalsamati come delle mummie nelle prime file sotto il controllo serrato dei professori. I primi banchi, secondo noi, erano destinati alle ragazze e ai secchioni leccherini, che non mancano mai in una classe che si rispetti.

Arrivati per primi sulla soglia della 1^ A, al primo piano dal lato che guarda verso Corso di Porta Romana, entrammo in un battibaleno e ci installammo nei tre posti decentrati che più ci garbavano. Poi, arrivarono i nostri compagni e le nostre compagne, tra cui alcune di notevole attrazione. E così, in quei tre banchi, in fondo all’aula i professori ci lasciarono.

Quel giorno fece il suo ingresso la professoressa di lettere, poi quella di matematica, il professore di chimica e, infine, quello di merceologia.

Nell’intervallo fummo messi al corrente che Dora Pasini, la prof d’inglese era una donna piuttosto giovane che portava delle minigonne mozzafiato. Ora, considerato che la cattedra non era altro che un tavolo con due cassetti che lasciava spazio libero sotto il piano di lavoro, l’intera classe aveva disponibile la visione più o meno piacevole delle gambe dei professori.

Quando, nell’intervallo del giorno dopo, notammo nel corridoio la Pasini, fummo catalizzati dalle sue gambe, davvero un bel pezzo di donna. A questo punto Anselmo sostenne, che nell’ora d’inglese noi tre avremmo dovuto cambiar posto e metterci nei primi banchi. Individuammo tre elementi mocciosi che avevamo classificato come secchioni leccherini, timidi e introversi. Li prendemmo in disparte separatamente e li convincemmo con le buone (avendo in tasca pronte anche la cattive) di scambiarsi con noi durante la lezione d’inglese. “Abbiamo problemi di udito” dichiarammo “e, dato che la pronuncia in inglese è piuttosto importante, abbiamo esigenza di sentirla bene”. Ci fu qualche esitazione, ma il nostro trio era ben amalgamato e non ci furono versi di fallire l’affare.

Quando arrivò la Professoressa Pasini, eravamo così in pole position. Questa si presentò a tutti noi rimanendo in piedi dalla parte della lavagna, e ci fece attendere diversi minuti prima di sedersi e di accavallare le gambe come sanno fare solo le donne. Per noi fu un tripudio. Per tutto l’anno scolastico la Prof non poteva dubitare che noi tre non fossimo in quei banchi nelle ore di lezione diverse dalla sua. Della visione delle cosce della Parini ci facemmo una scorpacciata e, qualche volta, anche di un po’ di mutandine. Ce le sognavamo anche di notte. Ma noi contraccambiavamo questo privilegio riuscendo bene nella sua materia. L’inglese a noi dava i migliori risultati, in tutti i sensi, e la Prof ci avrebbe corrisposto, alla fine dell’anno scolastico, valutandoci come i migliori studenti d’inglese della classe.

Non ci fu facile ambientarci perché questa volta c’era da studiare parecchio e quindi dovemmo dare addio alle nostre scorribande pomeridiane.

Avevamo però provato interesse per le ragazze nostre compagne di classe, tra cui alcune davvero carine. Pensammo che se dovevamo fare qualcosa di divertente, avremmo dovuto farlo a scuola.

Un giorno ci armammo di specchietti che infilammo nella traversina dei nostri mocassini e, durante, l’intervallo, quando, per cambiare l’aria, aprivano le finestre che davano sul corso di Porta Romana, invitavamo le nostre compagne in minigonna a guardare giù. Ci sarebbe bastato così infilare la scarpa con lo specchietto tra i piedi della ragazzina di turno per goderci un bel film, sempre senza biglietto.

Ma la prodezza clou fu di Anselmo, il più piacente di noi tre e ambito dalle ragazze.

Accadeva che le aule davano su un lungo corridoio interno che girava tutto intorno all’edificio sino a formare un quadrato. Sui lati del corridoio si affacciavano i bagni, costituiti da un’anticamera, con tre o quattro lavandini, che era comune sia ai maschi, sia alle femmine. Dall’anticamera poi sulla destra si dipartivano i servizi femminili, sulla sinistra quelli maschili.

Un giorno Anselmo si accorse di avere il fondo della tasca sinistra dei suoi pantaloni scucito. Durante l’intervallo, alla vista sullo specchietto di un bel paio di gambe femminili alla finestra, si era eccitato e, di conseguenza, come spesso avviene a quella età, il suo pene aveva assunto la posizione eretta. Come sfruttare la situazione? Si domandò. Lo infilò per bene nella tasca sinistra attraverso la parte scucita e raggiunse l’anticamera dei bagni più vicini. Si sciacquò le mani. Poi, alzando le bracca e agitandole per mettere in bella mostra le mani bagnate si avvicinò alla prima ragazza piacente e le chiese se per favore poteva prendergli il fazzoletto che aveva nella tasca sinistra per non bagnarsi i pantaloni. La ragazza piacente affondò la sua mano sino in fondo e, siccome il fazzoletto non c’era proprio, si ritrovò a toccare il glande di Anselmo che le disse: “Sì, ecco il fazzoletto, ora afferralo bene e toglimelo dalla tasca”. Ne seguì un urlo e la ragazzina era rossa in viso come un peperoncino.

Nei giorni che seguirono, la notizia dell’evento fece il giro dell’istituto e molti ragazzi si strapparono le tasche dei pantaloni, per usufruire anche loro di quella fruttuosa esperienza. Ma ormai le ragazze avevano mangiato la foglia e fu così che Anselmo fu il solo a godersi quella bravata e a recitarla ai compagni per tutto l’anno scolastico.

Gli anni poi passarono e chi più chi meno, noi tutti maturammo, io e Paolo riuscimmo a piazzarci in banca. La banda della codeina era diventata un bel ricordo. Ma ancora oggi i sette amici non si sono persi di vista e qualche rimpatriata goliardica alla nostra veneranda età è prevista ancora di tanto in tanto. Ora che abbiamo raggiunto l’età dell’incertezza (ogni giorno in più che viviamo è un giorno in meno) potremmo chiamarci I Vecchi del Voltaren. Ognuno di noi ha moglie, ognuno di noi ha figli, ognuno di noi ha nipoti, ognuno di noi se ne andrà, prima o poi … Meglio poi!


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