"Sally, nata per correre" di Alessandro Reali


 

E’ l’alba. Fuori piove. Vedo un ritaglio di cielo. Nuvole rotte dal vento.
Stanno venendo a prendermi.
Aprono e mi danno da mangiare. Passano oltre, sento il clack delle chiavi che aprono gli sportelli, serrature ben oliate, il crock dei catenacci. Rumori così abituali, per me e per tutti quelli come me. Nati per correre. Rumori che stanno dentro le nostre teste, penetrati e penetranti, nella carne e nelle ossa. Nei muscoli gonfi.
Come la voce dei padroni. David il grassone, scorreggione, ciucciabirra scura, il seminalattine di Guinness (tanto non ricrescono), quello che non ci risparmia il nerbo. E Patrick, suo fratello, il muto. Mi hanno detto che ha tentato più volte di uccidersi. Forse una volta o l’altra ce la fa. Ci sono cicatrici rosse sulle sue braccia, in mezzo ai tatuaggi.
Sono loro che ci portano, attraverso il sentiero esboso protetto dalla rete metallica, sul campo di allenamento. Grazie a questi due posso scatenarmi, dare tutto quello che ho dentro, fino all’esaurimento delle forze. E loro, David il ciccione e Patrick il suicida, ci fanno le iniezioni per farci andare più forte, ancora più forte, il pelo accarezzato dal vento, le orecchie piegate, verso quella preda che non prenderemo mai.
Ma non per questo smettiamo.
Noi siamo nati per correre.
Ma questa mattina ne farei volentieri a meno. Ho un buco, sotto l’unghia, mi fa molto male e, ogni tanto, sanguina. Se quei due se ne accorgono mi mettono il laccio al collo e stringono fino a farmi soffocare. Così finisce per quelli come noi. Il tempo delle corse, il tempo della vita, che poi sono la setssa cosa. Sotto i loro sguardi sadici o indifferenti. Dopo che abbiamo dato tutto quello che potevamo, nelle corse.
Ecco, entrano. Mi fanno uscire. Ma, perché non mi conducono al recinto, come sempre? No, m’indirizzano verso un corridoio, dall’altra parte rispetto alla pista. Mentre avanzo mi raggiungono altri, riconosco Lucas, Sigfrido, mia sorella Ruby e Pompeo, anche il vecchio Pompeo, un campione. Siamo terrorizzati e non alziamo gli occhi dal sentiero, reso un pantano dalla pioggia incessante.
Cosa ci faranno?
Usciamo dal cortile, come quando si parte per una corsa lontano ma, al posto di Alex sigaro puzzolente, ci aspettano due ragazzi. Alzo la testa e li guardo negli occhi. Annuso. Odore diverso, occhi diversi. La ragazza ha lunghi capelli chiari. Si avvicina a David e dice qualcosa. David allarga le braccia, annuisce, torna indietro. Ci abbandona, paurosi e increduli, con la diarrea dovuta all’emozione. Il ragazzo, uno spilungone barbuto, accarezza il capo di Ruby, poi quello di Pompeo. Si volta e fa un gesto con la mano tesa, verso un furgone gigante, a due piani, con tante piccole gabbie. Senza usare il nerbo ci fanno salire, uno per volta, con calma. La ragazza segue l’operazione parlando dolcemente. Sarà una tecnica nuova per eliminarci? Hanno forse scoperto i nostri difetti, le piaghe, i muscoli lesionati, sfibrati o, nel caso di Pompeo, i limiti della vecchiaia?
– Cosa dici, ci sarà nebbia domattina?
– Come faccio a saperlo… sto così male.
– Non scendi per cena?
– No, vai tu, ma torna presto. Mi spiace ma non ce la faccio proprio.
Jacopo sfiorò la fronte madida di Teresa, sua moglie. Entrò in bagno e si lavò la faccia, cambiò la camicia, prese il tabacco e la pipa e, in silenzio, uscì sulle scale fiocamente illuminate.
Avevano scelto, su Internet, un buon hotel tra Modena e Carpi. Teresa desiderava essere lì il giorno prima dell’adozione poiché sapeva che, ogni qualvolta affrontava un viaggio, anche breve come in quel caso, la sera stava molto male. Cali di pressione, giramenti di testa, nausea.
Anche quella sera, mentre visitavano la bella piazza di Carpi, aveva avvertito capogiri sempre più frequenti. Jacopo, che aveva voglia di andare a zonzo per la città, l’accompagnò in farmacia dove una giovane di colore le provò la pressione. Molto bassa, ovviamente. Teresa stava male davvero. Ma Jacopo era scocciato lo stesso. Capitava raramente di stare fuori, solo loro due, senza il bambino di cui già cominciavano a sentire la mancanza.
Quando Jacopo lasciò la stanza Teresa era quasi addormentata. Uscì in strada e mise in bocca la pipa, una bella Savinelli diritta, senza accenderla. Atrraversò il giardino, umido, tra rododentri e palme nane. Uno strano posto che gli ricordava certi villaggi degli spaghetti western che da bambino andava a vedere al cinema dell’oratorio, la domenica pomeriggio.
Il ristorante era un’unica grande sala con riproduzioni di Botero alle pareti, un bancone di legno scuro, lavorato, greve e due ficus giganti contro la parete rosa antico, in contrasto con il soffitto a botte dalle volte candide.
La cameriera, polpacci da ciclista, lo accompagnò a un tavolo all’angolo. Dall’altra parte, una tavolata di uomini in giacca e cravatta, forse reduci da una fiera. Più vicino, una coppia. Faccia da rappresentante, lui, ossigenato e con una cravatta lilla. Bionda e prosperosa, sicuramente loquace, lei, scrutata da Jacopo mentre ingurgitava, con una certa voluttà, un cucchiaio di cremoso tiramisù.
Ordinò la tagliata all’aceto balsamico e una bottiglia di Lambrusco. Mangiò in fretta, cercando di non pensare a niente, ma la testardaggine di Teresa, esaltata all’idea dell’adozione di un levriero ( avevano già altri due cani), lo disturbava e, allo stesso tempo, lo divertiva. Per rilassarsi scolò l’intera bottiglia di rosso, leggero e fruttato, spumoso come l’espressione di certe donne della bassa.
Uscì di nuovo in strada e accese la pipa. Banchi di nebbia grassa fluttuavano, inutilmente rotti dalle auto sfreccianti verso Modena.
Terminò la pipa passeggiando, meditò su un possibile incontro casuale, qualcosa di erotico degno di un film, quindi ripercorse il viale posticcio, tornò in camera e s’infilò sotto le coperte.

Aprì gli occhi che faceva chiaro. Un chiarore perlaceo, nebbioso. Teresa si mosse, al suo fianco, lasciando scivolare il lenzuolo sotto la coscia e mostrandosi nuda. Lui allungò una mano, l’accarezzò e fecero l’amore.
Dopo la doccia si vestirono e scesero per la colazione. Latte, caffè e fragranti cornetti ripieni di marmellata, serviti da una cameriera molto gentile, con un bel neo tra la narice destra e il labbro superiore, tocco ispanico sul viso algido, avvolto in un aureola di boccoli chiari.
– C’è nebbia – disse Teresa.
– Andremo piano- rispose Jacopo, intento a sfogliare il Corriere.
– Sarà proprio lei? Quella che ho visto su Internet?
– Penso di sì. Sono persone serie, a quanto pare. Volontari che si prendono cura di questi cani che, altrimenti, nella maggior parte dei casi, fanno una brutta fine, quando non sono più buoni per le corse. Ho visto un servizio al Telegiornale.
– E’ da un mese che guardo la sua foto, è troppo bella! – sospirò Teresa, che quando si metteva in testa una cosa obbligava, in un modo o nell’altro, il marito a seguirla.
Dopo mezz’ora d’auto raggiunsero la cascina Buonamici, una vecchia casa di caccia, isolata in una bella radura, rischairata dal sole che, lentamente, dissolveva la nebbia del primo mattino. Proprio i cacciatori, che gestivano il club, avevano pensato di prestarla ai responsabili dell’associazione perché potessero farne il centro di arrivo e partenza per i levrieri provenienti dall’Irlanda e dalla Spagna.
Jacopo e Teresa parcheggiarono e raggiunsero il portico. Si misero in fila e attesero il loro turno, preparando il contrassegno di prenotazione e la cifra simbolica da donare ai volontari.
Quando toccò a loro, Jacopo pagò e firmò il foglio in cui s’impegnava a non sfruttare il cane nelle corse, pena il sequestro dello stesso e conseguente denuncia.
Già, il cane, era proprio lei, una femmina stupenda, nera, con una macchia bianca sul petto, la testa affusolata, gli occhi dolci, mansueti, il torace ampio, il ventre concavo e le natiche possenti.
– Si chiama Sally, ha solo due anni, ma sarebbe stata eliminata a causa di un problema alla zampa destra, una ferita che stenta a rimarginarsi – disse la ragazza dai lunghi capelli chiari, la stessa che era andata in Irlanda a recuperare gli animali.

Una signora un po’ strana, gentile, con una vocetta squillante come non ne ho mai udite (io sono abituata ai grugniti birrosi di David e al vociare assatanto degli scommettitori) non la smette più di accarezzarmi sussurrandomi parole dolci. Guardo gli altri. Loro mi guardano, increduli. Proviamo tutti le stesse emozioni, a causa di questi esseri di razza strana: vomitiamo e defechiamo, a causa del viaggio e dei sedativi, e loro, invece d’arrabbiarsi, ci coccolano con carezze e sussurri dolci, come nemmeno dopo una gara vinta, di quelle che fruttano al padrone un bel po’ di soldi. Buffi, questi uomini. Alcuni ti picchiano a sangue, altri ti trattano con amore. Io ne ho visti… ne ho visti molti, durante i trasferimenti per le corse, sulle strade delle città, alcuni addirittura più disperati di noi.
Ecco, mi fanno salire su un piccolo furgone nero, mettono una coperta, la rete, e salgono anche loro. Partiamo, diretti chissà dove. Ma non ho paura. Sono tranquilla. Dolcemente tranquilla. Ascolto voci gentili, rassicuranti, mentre l’auto corre sulla strada e io m’addormento, cullata da questo bellissimo sogno.


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