"La morte, finalmente" di Elisabetta Miari


Non è stanchezza la mia, ma mancanza di felicità. Questa consapevolezza mi assilla già da un po’, specie perché non ho modo di poter cambiare le cose.

La felicità non la compri al mercato o all’Ikea, anche se quando entri in quest’ultima, sei talmente stordita e presa, che dimentichi di essere infelice.
Continuo a ripetere che sono stanca e non ce la faccio più, ma se ripenso a quante cose facevo al tempo, a quanto ero piena di energia quando ero felice con lui, mi rendo conto di quale sia la verità.
Non credo che siano quattro anni in più sulle spalle a fare la differenza, semplicemente gli esseri umani quando vivono in questo stato di grazia, che è l’amore, sono instancabili, invincibili, quasi immortali.
Quasi. Lui è morto però, portandosi via l’energia che ci circondava, l’amore, l’incoscienza e la speranza che ci avvolgevano.
Ha portato in una fredda bara una parte di me e della mia vita, che non torneranno più.
Questa consapevolezza mi stanca e  mi sta lentamente uccidendo. Forse la massa di un tumore si sta pian piano facendo largo dentro di me, generata dalla mia profonda infelicità, creando i presupposti per uccidermi. O forse no. Sperare nell’intervento del destino per farla finita è uno stillicidio.
Questi sono stati anni d’agonia per me.
Ho cercato di sublimare la sua mancanza attraverso la spiritualità, l’arte e anche il sesso per un certo periodo. Ora questi palliativi non esistono più, c’è solo un grande vuoto pieno di stanchezza.
-Ho mal di testa – mi scrisse una sera quattro anni fa.
Non diedi molta importanza a quella comunicazione e cercai di ingaggiarlo in ben altre conversazioni. Non funzionó, il male era troppo forte, disse che sarebbe andato a letto, sperando di dormire.
Non si svegliò più, lasciandomi a fissare incredula il telefonino, dandomi della stupida per aver sottovalutato i sintomi di quello che si sarebbe poi rivelato un aneurisma multiplo.
Non sono un dottore, non avrei potuto fare nulla, e sono certa che non lo avrei mai convinto ad andare al Pronto Soccorso. Era testardo, orgoglioso e determinato a non cedere alla malattia, da bravo medico. Mai.
– O nasci medico, o nasci paziente – ripeteva sempre.
Dormirci sopra gli fu fatale. Non so se abbia sofferto, ma questo è il tipo di morte, nel sonno, che mi sono sempre augurata.
E invece sono qui, nella mia auto, mentre aspetto che il gas di scarico prima mi stordisca e poi mi uccida, mettendo fine a questa incredibile sofferenza. Faccio affidamento sul “Dio Monossido di Carbonio” per risolvere i miei problemi, per cancellare la mia inutile esistenza.
Ho dovuto brigare non poco per riuscirci, ed ora che sono qui ad aspettare la mia fine, mi viene il dubbio che non sia vero niente, che non esista l’aldilà, che non ci ritroveremo più io e lui. Sarebbe una bella fregatura, quattro anni a soffrire e una fine prematura, disprezzata dalla Chiesa e dalle brave persone.
Una suicida, un poveretta disperata mi definiranno i media. Forse finirò al Tg e intervisteranno i miei colleghi che saranno felici di dire che dalla sua morte non sono stata più la stessa.
Non diranno però quanto ero felice quando c’era lui, come mi brillavano gli occhi e splendeva il viso. Tutto in me era luce, fresca e vibrante, specie dopo aver fatto l’amore con lui, che ora è  una lapide in un cimitero di provincia, come sarò io ben presto.
La luce sta lentamente cedendo alle tenebre ed il mio unico pensiero è che la fine arrivi presto e mi renda a quel nulla a cui ormai appartengo.


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