"Mi capitava una sera" di Dario Villasanta


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Mi capitava una sera di essere solo, ma in una di quelle sere in cui sei più solo del solito, che non hai più voglia di fare niente tanta è la voglia di fare tutto.
Mi capitava quella sera di avere la sensazione di perdermi, in quel dilatato altrove che è il blu virtuale, nel mondo parallelo delle chat internettiane, che poi tanto altrove non è e tanto parallelo neppure, se vogliamo, ma tant’è: quando si ha voglia di qualcuno intorno non è mai solo per due chiacchiere, per quello basta il droghiere del paese, o il barista del locale sotto casa. No, per sere come quella serviva qualcosa di più profondo e libero, che solo gli incontri fortuiti e ricchi di strani incidentali fattori possono avere.
Dov’ero? In penombra nella mia stanza da single in condivisione. Che tempo era? Non aveva importanza, lì il tempo non esisteva: solo io, il monitor e l’altrove.
Era così che approfondivo qualche amicizia casuale attraverso la tastiera, senza nulla aspettarmi ma nulla escludere allo stesso tempo: scrivevo, ciao come stai, dimmi di te, che persona sei, eccetera eccetera eccetera… Finché stavo per spegnere tutto, anche il cervello stanco da tanto nulla, che poi era l’oblìo che avevo cercato da ore per tentare la via di fuga risolutrice di un sonno riparatore. Ne avevo abbastanza di foto di donnine discinte che sfilavano su quella passerella azzurra priva di vita e ricca di storie, nascoste dietro a schermi che non raccontavano in realtà niente che non fossero le voglie altrui di apparire ciò che non erano e non sarebbero mai stati. Il sonno dunque come unica via di fuga, unica strada percorribile per un domani ancora da sperare. Eppure, l’ultimo messaggio buttato lì a una donna (che non era foriera di alcuna aspettativa neppure in una pessima foto che la presentava) mi sfuggì dalle dita frenetiche e dalla testa stanca, l’occhio cerchiato e pesante intanto mi pregava di starmene un po’ lontano dalle luci artificiali delle chat e dei miei desideri frustrati di nuove scariche di adrenalina… Perché poi è quello che si cerca, no? Un pizzico di vanità, amplificato dal pessimo perderci in un esplosivo noi stessi di glorie effimere e inesistenti, l’apprezzamento di sconosciuti che ci danno soddisfazioni fuori stagione e fuori contesto ma sempre presenti, quasi a comando, quasi a ordinazione, come a un ricco buffet telematico…
Andai alla finestra per accendermi una pessima sigaretta stantia che avevo scovato nel cassetto, vecchia di chissà quando, dimenticavo sempre che l’orario di chiusura del tabaccaio non coincideva con l’orario di apertura della mia mente: vale a dire la sera tardi, allorché le tensioni del giorno scemavano rapidamente per far posto alle inquietudini che liberavo all’avvicinarsi delle ore notturne.
Girato di spalle al PC, appoggiato al davanzale gelato della mia finestra che dava sulla notte di Natale più fredda e buia dei miei ultimi otto anni, puntavo lo sguardo ora su una luce ora sull’altra colorata di stelle natalizie e luminarie varie che adornavano l’orizzonte prealpino di quella sera, non disturbate da invasive luci di città e fari di automobili. Tutte a riposo queste, nei garage ad aspettare che i proprietari godessero del loro pieno giorno di festa insieme ai parenti tutti, o a chi per essi.
Capitava poi, sempre quella sera, che prendevo in mano il telefono e provavo a chiamare Moira, che mi aveva piantato pochi mesi prima e che avevo speranza mi rispondesse almeno la sera di quell’infausto Natale da solitario forzato, anonimo e feroce come solo le feste passate senza coloro che si amano possono essere. Nessuna risposta: solo un piatto, sordo e fastidioso suono di linea occupata (o interrotta, più probabilmente) stordiva le mie orecchie con il rumoroso significato che portava con sé.
Poi di nuovo il “blip”: guardavo e c’era scritto “perché no?” Il mio messaggio precedente era stato: “Mi sto rompendo le palle, se ti va prima di andare a nanna facciamo due parole…”.
Ignoravo chi fosse, perché lo facesse, soprattutto cosa cercasse dal momento che, diciamocelo, tutti cercano, consciamente o meno, qualche cosa dal dialogo. Sta di fatto che io le rispondevo, lei controbatteva, io raccontavo come stavo vivendo e lei anche, trovavamo punti in comune uno dietro l’altro, tanto che si instaurò una sorta di intreccio tra coincidenze incredibili che stavano segnando la nostra notte di Natale e che non porto qui per non venire a noia. Però racconto solo che il telefono diventava poi il passo obbligato per due anime che si erano cercate senza saperlo, riconosciute e forse trovate nella solitudine in mezzo alle luci colorate altrui.
Mi capitava una sera che andammo avanti fino alle cinque del mattino, io e una sconosciuta che già non mi appariva più tale, tra una chat e una lunga chiacchierata al telefono, senza il filtro di dover per forza passare per il giudizio dell’altro, senza la paura di esser giudicati, senza l’importanza che può dare il dover apparire a ogni costo, in quanto le messaggerie sono sicurezza per la propria identità intima ancor più che per quella anagrafica: non importa chi c’è dall’altra parte, il domani non aspetterà per forza che ci sia un qualcosa su cui basare un rapporto come un altro, il rapporto che si instaura non aspetterà per forza un domani…
Non importa ora cosa capitava quella sera, non importa cosa ci dicevamo e cosa no, importa che sentivo una sorta di magia pervadermi il petto e lo stomaco. Importa che non aspettavo più una telefonata che non arrivava. Importa che, da solo, non ero più solo lo stesso o, comunque, non mi sentivo tale.
Andai a dormire tranquillo, sorridendo e pensando a tutto quello che sarebbe o non sarebbe stato.
Mi capitava una sera che ero da solo, più solo di altre sere, ma grazie ai messaggi di una sconosciuta mi accorgevo che chi pensavo mi avesse regalato un sogno mi aveva invece proposto soltanto una splendida e traditrice illusione.
Mi capitava, una sera, che ricominciavo a vivere.


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