Ho il camice bianco, stetoscopio e tutto il resto.
I miei passi risuonano nel silenzio della terapia intensiva; a metà corridoio, un tubo al neon esaurito illumina il cartello con la numerazione delle stanze.
La 966 è nel ramo alla mia destra, la raggiungo, dalla porta aperta il riverbero dei monitor stria il linoleum con chiazze verdastre.
Entro, mi avvicino al letto; leggo il nome sulla cartella: sì, è il suo.
È arrivato qui in fin di vita con i polsi tagliati, al pronto soccorso lo hanno rattoppato come si deve e aggiunto plasma quanto basta.
Il solito ottimo lavoro.
Con una torcia gli illumino la pupilla: si contrae, è cosciente.
Occhi vacui dallo sguardo interrogativo si posano su di me.
Sorrido.
– Tutto bene?
Da sotto le cannule mi risponde con una smorfia.
Dolore? Sorriso? Sarcasmo?
Solo lui lo sa.
Mi preparo.
Modifico i valori del supporto vitale, disabilito alcuni sensori poi torno al mio “paziente”, il bip bip del monitor si fa insistente.
– Lo so, il coraggio non è il tuo forte.
Prendo la siringa.
– Avevi tutto.
Sistemo l’ago.
– Davvero stupido buttarlo nel cesso.
Aspiro da una boccetta.
– Vedi questo liquido?
La soluzione inonda flebo e io respiro la sua paura.
– Contiene particelle di ferro. Microscopiche particelle di ferro.
Il bip insiste ossessivo, faccio in fretta
– Sto solo finendo il lavoro che hai cominciato tu.
Il bip è diventato quasi assordante, mi sporgo e grido.
La squadra di rianimazione accorre.
Guardo l’uomo sobbalzare, mentre a ogni scarica del defibrillatore il campo elettromagnetico attrae le scaglie di ferro al cuore, trafiggendolo con migliaia di minuscole lame.
Un lungo bip continuo pone fine a tutto e io mi dileguo.
Domani sui giornali, leggerete della nuova vittima del killer seriale il Suicidatore.
Ma ora nella 966, sulla targhetta appesa ad un camice bianco, un infermiere sta leggendo la “mia firma”.
Vivi da uomo
o muori da stupido.