(Matteo, capitolo 15, versetto 14)
Marzo, le giornate sono già più lunghe e il corpo ancora non si è abituato, così l’imbrunire coglie all’improvviso.
Mi accorgo che sta venendo sera solo perché è diventato difficile cogliere i dettagli del foglio fissato sul tavolo da disegno. Sollevo la testa e mi stiracchio per rimettere ossa del collo e spalle al posto giusto: disegno da sempre ma da sempre tengo una posizione scorretta.
Studio il foglio con un’ultima occhiata critica, controllo che sia ben asciutto, lo libero dai supporti, lo arrotolo e lo inserisco nella custodia. Questo è il momento del panico: quando dici che è finito e niente può essere aggiunto o tolto. Non è più te, ma è altro da te, anche se è più te delle tue mani e dei tuoi occhi.
Io lo so: di mani e di occhi vivo. Disegnatore. Arrangiandomi a fare lavori non sempre pagati bene o con regolarità da editori piccoli e di vita breve. Ma la passione è passione.
Fossi solo, per vivere, mi basterebbe la passione, ma Luisa ha diritto a qualcosa di più. Mai che abbia chiesto… ma ha diritto a un uomo con un lavoro serio, retribuito con regolarità, un uomo di cui non vergognarsi quando lo presenta ad amici o colleghi. Luisa è medico, io solo un disegnatore di fumetti che arrotonda con lavoro nero in qualche studio tecnico.
La serie appena conclusa sarà l’ultima.
Domani toglierò anche il poster dalla camera: via Bruegel e la sua Parabola dei ciechi.
Un bel taglio netto al passato e la settimana prossima diventerò uno dei disegnatori di uno studio di progettazioni per interni: anche solo il pensiero di un serio lavoro d’ufficio mi dà la nausea, ma ho deciso di sposare Luisa. E di cambiar vita.
Sto uscendo quando squilla il telefono.
– Pronto.
Solo scoppiettii e poi una voce non dimenticata. – Sono Ada. A Milano c’è nebbia, mi hanno dirottato a Genova.
– Sto uscendo, fatti aprire dalla vicina.
Ma lei ha già riattaccato: forse ha sentito o forse no. Così è Ada. Un tempo lontano abbiamo condiviso una vita scombinata e siamo rimasti amici. Senza rinunciare a un po’ di sesso casuale per rimpatriata e per amicizia.
Luisa non capirebbe.
Come Ada non capirebbe la mia storia con Luisa.
Dovrò dirle di non venire più… Devo dire a Luisa che questa sera non potremo vederci. Ada ha trovato il momento giusto! Luisa ha finito di pagare quell’enormità che le è costato allestire lo studio, fra mutui e prestiti vari, e proprio questa sera dovevamo festeggiare… Volevo proporle, seriamente, di sposarci.
Telefonare a Luisa non è mai facile, ma per una volta al primo tentativo la trovo. Temevo una reazione peggiore…
– Non sono una bambina, Massimo – solo lei mi chiama Massimo invece di Max. – Se questa sera non puoi, non casca il mondo. Ci vediamo domani sera.
Luisa è la donna giusta per me, mi aiuterà a mettere ordine nella mia vita. Finisco di infilarmi il giaccone ed esco sul ballatoio. Suono alla Lorenzi, la mia vicina.
– Sono Max.
E lei apre subito. Da quando è rimasta vedova ha deciso di considerare il giovane vicino “scapestrato” una specie di figlio, quello che non ha avuto. Mi rifornisce di zucchero e caffè quando resto senza, apre a quelli del gas e della luce. E mi fa regolari prediche sull’importanza di diventare adulto.
– Cosa c’è? Esci?
– Sì. – Indico il rotolo. – Consegno l’ultima serie.
La Lorenzi sorride compiaciuta.
– Ha telefonato Ada. Forse arriverà prima del mio ritorno. Può aprirle?
Il sorriso si spegne. Alla mia vicina Ada non piace, dice che è una donna leggera, una che chissà quanti uomini ha avuto. Tutto vero. Ma Ada è Ada.
– Comunque io arrivo al più presto.
E me ne vado sapendo che lei mi sta guardando con riprovazione: ne sento lo sguardo acuto all’altezza delle scapole come una pugnalata.
Scendo le scale di corsa: l’ascensore è guasto.
Ho consegnato il materiale all’editore, se così si può chiamare, e sono anche riuscito a estorcergli il pagamento immediato: a volte Ada ha bisogno di soldi. E’ come me spesso al verde…
Torno su che è già buio. I Corsi sono nastri accesi intermittenti da luci di posizione, freni e semafori. A fisarmonica annodati alle colline che incombono sui tetti del centro storico addossato al mare.
Il mio palazzo si vede da lontano: alto, come murato, incombente sul piccolo slargo che un tempo era giardinetto e ora è posteggio vietato autorizzato.
Entro ansante, a causa del traffico e del tira molla con l’editore, ho impiegato più tempo del previsto.
Sono entrato nel portone: Ada è seduta sui gradini. Accanto ha una borsa da viaggio.
Si alza: è naturale l’abbraccio.
– Potevi salire e farti aprire.
– La stronza non mi può vedere. – E ride. Ada è bella sempre e quando ride lo è di più. Manda indietro la testa e i lucidi capelli neri, un casco nitido e setoso, le danzano attorno agli zigomi alti, mentre la luce accende lo sguardo di ironia e d’affetto.
– Dai, saliamo. – Mi chino a prendere la sua borsa. L’abbraccio mi ha eccitato e non voglio che lei se ne accorga, non perché mi vergogni di Ada, ma perché poi sarà difficile dirle che non dovrà più venire. Non potrà più venire.
– Ma dai, posso portarla da me.
– L’ascensore è guasto.
– Lo è sempre, l’avevo messo in conto.
Saliamo: sei piani di scale, a ogni piano si diramano corridoi illuminati che portano a angoli bui.
Inserisco la chiave nella toppa, ma non ce n’è bisogno: la porta è solo accostata. Ancora una volta ho dimenticato di chiudere!
Entriamo. Accendo la luce.
E’ lì, fra ingresso e cucina. Nei fumetti ne avrò disegnati mille così: bocconi, un braccio teso e una gamba piegata nello spasimo della morte. Fra le scapole un coltello.
Chiudo gli occhi e li riapro due o tre volte cercando di ritornare alla realtà, ma il corpo resta lì. Mi chino e guardo meglio, se non fosse per Ada muoverei il corpo e calpesterei chissà quanto sangue.
Mi sono chinato, ma per riconoscerlo non ne avevo bisogno: è il Sagittario. Cappotto di cammello, orologio d’oro massiccio e tutto il resto in tono.
Sobbalzo quando Ada mi posa una mano sulla spalla. – Devi avvisare la polizia.
Faccio segno di sì.
E ancora lei ad impedirmi di usare il telefono. – Le impronte. Andiamo dalla tua vicina.
Ed è lei a suonare. Una, due, tre volte con impazienza.
– Cosa c’è? Arrivo…
– Sono Max.
Ma la porta non si apre.
– Dovrei fare una telefonata.
Finalmente la porta si apre: la Lorenzi è in vestaglia, ma non c’è niente di strano, ha sempre freddo. Si passa una mano sulla fronte. – Ho un mal di testa. Mi sono coricata un po’… – Lancia di sbieco un’occhiata alla donna accanto a me. – Non l’ho sentita suonare.
– Non sono salita. Ma Max deve fare una telefonata, da casa non può. – Con gesto deciso scosta la vicina ed entra nell’appartamento non suo.
Per un attimo incrocio lo sguardo della Lorenzi e penso che deve sentirsi male davvero, perché non l’ho mai vista così alterata.
Ma la presenza di Ada le ha sempre dato fastidio…
*****
Sono stati giorni confusi, senza filo logico, o, se l’avevano, l’ho smarrito da tempo.
Polizia, giornalisti, l’appartamento rivoltato come un guanto e la mia vita pure.
La mia faccia sui giornali è quella di un assassino e il Sagittario dà materia ad articoli succosi: proprietario di un locale notturno, equivoco lui e pure il locale. Anche se la bella gente non disdegna per farci una nottata.
Spiegare i miei rapporti con il Sagittario, di cui neppure ricordo il nome vero. Tanto tutti l’han sempre chiamato con il nome del suo locale.
Quando ho spiegato al commissario che, no, io non ero amico del morto, ma insomma… Sì, i disegni erotici alle pareti li avevo fatti io. Niente di spinto, niente che ormai non si veda alla tivu. Che no, non sapevo perché quello era venuto a farsi accoltellare proprio a casa mia. Che poi un coltello non era la polizia l’aveva scoperto subito.
Un domestico trinciapollo, usato con discreta forza e abilità.
Il mio trinciapollo, che io mai avevo usato. Più che un piatto di spaghetti e una bistecca non so farmi, figurarsi trinciare un pollo, già il pensiero mi dà il voltastomaco, con quelle budella morte e sguscianti, giallastre e flaccide: mai mi sono piaciuti i polli, anche allo spiedo dai macellai mi fanno senso.
Il commissario mi aveva bloccato e aveva riattaccato con Ada. La telefonata di Ada l’avevo ripetuta tante di quelle volte che ormai ero tentato di infiorettarla un po’ con qualche variante a effetto.
Perché Ada e il Sagittario si conoscevano: era stata lei stessa a comunicarlo con tranquilla noncuranza.
Tutti si agitavano come pazzi, solo lei era calma. Le lunghe gambe nei pantaloni di pelle nera da motociclista avevano dato gioia a più di un fotografo.
Alla polizia aveva dato gioia la notizia che lei e il Sagittario, sì, si conoscevano e anche bene e che lei aveva lavorato nel suo locale, qualche volta. Anni prima, prima di andarsene via: Milano, Roma e dove portava il vento e la corrente. Tanto lei di approdi fissi non ne voleva.
E io a ricordare l’ultima notte prima della sua partenza. – E vieni via, Max. Che qui ci si muore. Via, via da questo Staglieno. Che si è morti anche da vivi.
Ma io no, testardo a dirle che questa città l’amavo, città a strati, uno sull’altro fino a toccare il cielo. Dal mare alla collina, pietra su pietra senza requie e senza respiro. Avvoltolata di pietra.
– Ma vieni via. Non strati uno sull’altro, Max. No, uno sotto l’altro. Che ogni volta che scavano trovano resti. Come a Campopisano che le case sono su cumuli d’ossa di pisani.
La mattina dopo mi ha chiesto di tenerle in custodia il suo poster con la Parabola dei ciechi di Bruegel. – Ciechi che guidano ciechi e tutti giù nel fosso! – aveva commentato con voce ridente. Quello è stato l’addio. Dal suo Bruegel mai si era separata. Se Ada aveva un simbolo di una fede qualsiasi era quel quadro. A Napoli si va per Mergellina, lei era andata a vedersi l’originale.
Così Ada era partita e io ero rimasto lì. Cinque o sei anni, pensavo. La polizia, precisa, aveva rettificato in sette.
Sette anni. Non erano sembrati così tanti. Cosa avevo fatto in quegli anni? Avevo disegnato un fumetto dopo l’altro: a una donna avevo anche dato faccia e corpo di Ada, rigurgito di nostalgia o rabbia per non essermene andato con lei?
Luisa: lei sì che aveva preso male la faccenda. Da Ada a tutto il resto. Eppure che io conoscessi il Sagittario e anche abbastanza bene per Luisa non era una novità. Una sera, a far festa, l’avevo portata proprio lì. Lei aveva storto il naso, ma aveva acconsentito. Anche se non aveva apprezzato che il Sagittario in persona fosse venuto a “omaggiarci della sua presenza”.
Ma l’avevo portata lì perché il Sagittario mi faceva credito e in quel periodo di soldi non ne avevo, ma volevo fare bella figura lo stesso. E da scemo, pochi giorni dopo, mi ero vantato con il Sagittario della bella dottoressa che avevo conquistato… Ebete fiducioso, mentre quello mi guardava come fossi una merda secca.
Merda! Dopo tanta burrasca la calma ora fa paura.
Sto aspettando Ada che deve uscire da un ennesimo colloquio chiarificatore.
C’è vento, un vento cattivo, non la sana tramontana che viene giù pulita dalle colline ma libeccio gonfio d’umido salmastro che farende viscidi corpi e pensieri.
Esce Ada dalla Questura: candida come nata in quell’istante dalla penna di un disegnatore esperto. Non un’incertezza nel passo, non una sbavatura nell’ovale del viso o nel lontano sorriso.
– Come è andata?
Ada alza le spalle. – Come vuoi che sia andata? Più che dire quello che ho già detto non posso dire. Che sì, lo conoscevo e nel suo locale avevo lavorato. E che lavoro fosse se me lo chiedevano voleva proprio dire che erano scemi… Ma che su a casa tua io non ero salita e mi ero fermata ad aspettarti nel portone. E come sapevo che non c’eri? Prima di salire ti avevo telefonato e non avevi risposto.
Mentre parla cammina con la stessa velocità priva di fretta. La prendo per un braccio. – Ma cosa sei venuta a fare?
– Non a uccidere.
La lascio. – Io avevo tanti progetti…
– Lo so. La dottoressa. Un lavoro serio.
– Non dirlo così.
– Così come? – Il vento le ha gonfiato i capelli che le nascondono il viso come un velo mussulmano.
– Come fossero…
– Male? Spazzatura? Ma sono peggio, Max. Sono solo sogni, illusioni. La normalità non esiste. Stai costruendo un altare, ma non troverai santi da metterci in mostra.
– Nemmeno puttane.
Si inchina verso di me con la grazia di una gran dama. – Il signore sì che se ne intende! Mai le ha disdegnate! – E subito mi passa una mano sottobraccio e con un antico gesto d’affetto si stringe a me, spalla contro spalla, come da ragazzi contro il mondo. – Dai, che ora ce ne siamo dette abbastanza. Andiamo a casa.
Aspetto solo un attimo prima di cedere. Nessun corpo ha il calore di quello di Ada, un calore che scioglie solitudini e tormenti. Una droga per chi l’ha provato. Tanti: un uomo ogni porto. Tanti porti e nessun approdo.
In silenzio risaliamo verso i Corsi, una strada che tante volte abbiamo percorso insieme. Vorrei chiudere gli occhi e ritornare indietro negli anni a quella beata incoscienza che ci faceva credere padroni del mondo. Solo perché vivevamo un po’ così… Mentre padroni veri della loro vita erano quelli come Luisa che si impegnavano in cose serie, costanti e sobri.
Cammino allacciato al corpo di Ada e penso a Luisa. Dal giorno del delitto i miei rapporti con lei non sono stati facili, forse non ha apprezzato che io, in un momento di folle vanteria, l’abbia nominata come la mia fidanzata. Fidanzata: parola che nessuno usa più.
Eppure non volevo fare niente di male. Così anche lei è stata convocata per confermare di aver ricevuto una telefonata…
L’ascensore era stato riparato, forse per merito di tutta quella polizia, magistratura, giornalisti che non potevano farsi tutte le scale a piedi; ma è di nuovo guasto.
L’appartamento è come sempre, non ha mai brillato per ordine. E’ bastato rimuovere il tappeto.
Entro seguito da Ada.
– Suono alla Lorenzi per sapere come va, per dirle di non spaventarsi se sente rumori.
– Posso coricarmi un po’? Mi sento così stanca…
Annuisco. In tutti questi giorni Ada ha abitato lì, con me. Lei in camera e io nel divano dello studio.
La vicina apre al primo squillo. E’ di certo lei quella che ha risentito di più per tutto quello che è successo, penso, vedendone il colorito grigiastro e il lieve tremito delle mani.
La trattengo il meno possibile e torno di là.
Ada è già in camera, sta dormendo sotto il poster che non è stato rimosso; passo in cucina, ma dal giorno del delitto mi fa uno strano effetto sapere che il trinciapollo era lì… Chi ha seguito il Sagittario e ha usato quel trinciapollo per ucciderlo?
Ada. Ada. Ada. Il nome ripercorre un ritornello. Conosceva il Sagittario, conosceva l’appartamento, era lì… Infatti continuano ad interrogarla.
E di motivi poteva averne mille.
Lo studio, forse lì starò in pace.
Il tavolo da disegno, quello che volevo smontare, è ancora pronto all’uso, come il mio assortimento di fogli e di penne.
Le mani disegnano da sole.
Ada. Ada che uccide. Ma l’angolatura dell’inquadratura non viene. Ma viene bene Ada che dorme nel mio letto. Nuda, come ha sempre dormito… Il tempo passa in fretta quando si lavora.
Suonano alla porta, vado subito ad aprire, perché Ada possa continuare a dormire.
Luisa. Impeccabile e serena.
La precedo nello studio, che è soggiorno e salotto, le indico la poltrona. Passando ho controllato che la porta della camera sia ben chiusa e che non ci siano indumenti di Ada in giro.
– Come stai?
– Abbastanza bene, Luisa. Spero che questa storia finisca al più presto e noi si possa…
E’ la voce di Ada a interrompermi. – Ma che ore sono? – E lei è sulla porta, appoggiata allo stipite. Almeno ha avuto il buon senso di infilarsi un accappatoio come vestaglia. Ma non si può negare che sotto sia nuda.
Vedo Luisa impallidire, come se il colore scivoli via da lei rendendo i suoi colori ancora più levigati e impalpabili: se Ada è un acrilico, Luisa è un acquarello. La vedo aprire e chiudere le labbra sforzandosi di formulare parole che non vengono.
– Ada. Luisa. – E’ proprio il momento giusto per presentazioni formali, ma non mi è venuto in mente altro da dire.
Ada è molto più tranquilla di Luisa, da gran signora porge la mano all’altra donna, lasciando che l’accappatoio si apra. – Ho sentito tanto parlare di te, da Max.
Dovrei essere io a dirigere la scena, ma non è così.
Il suono del campanello mi fa sobbalzare, vado ad aprire, ma è solo il ragazzo dell’acqua minerale che mi chiede se può lasciare da me il solito cestello di Fiuggi della Lorenzi.
Annuisco e pago.
Ada e Luisa sono immobili come le ho lasciate ed è per sbloccarle che dico che era quello dell’acqua minerale della vicina.
Luisa resta silenziosa, ma Ada si volta verso di me. – Eppure quando siamo arrivati era in casa.
– Non avrà sentito suonare.
Ma Ada è già in piedi e si sta dirigendo verso la porta. – Proviamo.
Suona, due o tre volte, sempre più a lungo, senza risultati. Luisa è rimasta nel mio appartamento.
– Una volta mi hai detto che hai la sua chiave.
Annuisco. – Da quando è stata male…
– Prendila.
E’ Ada ad aprire con gesti decisi. Sembra il duplicato della scena vista pochi giorni fa: corpo riverso fra cucina ed ingresso.
E’ Ada ad avvicinarsi, mentre io resto immobile.
– La tua Luisa è un medico. Chiamala.
Ha ragione. Ancora una volta tutto accade così rapidamente da non riuscire ad abituarsi a quanto sta accadendo.
Ora è Luisa a dirigere il gioco. Ictus. Telefonate varie, sempre qualificandosi come medico. Ada e io veniamo spinti ai margini da tutta quell’efficienza ospedaliera.
L’interessamento di Luisa ha fatto sì che tutto scivolasse liscio come l’olio: ambulanza a tamburo battente, rapido ricovero in cameretta a quattro letti.
Prima di sera la Lorenzi è sistemata nel suo letto d’ospedale e le stanno prestando le cure necessarie. Povera donna, troppe emozioni… Sono stati tutti chiari. Ma dovrebbe rimettersi senza gravi danni.
Prima che da casa la portassero via con l’ambulanza si è ripresa qualche minuto e ha avuto un’esplosione di collera vedendo Ada e ha cominciato a gridare che in casa sua quella non la vuole.
Senza una parola Ada si è allontanata: un giorno dovrò dire alla Vicina che, se è ancora viva, è merito del sesto senso di Ada.
Invece con Luisa è tutta sorrisi. Anche Luisa con lei.
Ho lasciato l’Ospedale e ora sto tornando su verso casa. Sarà vuota. Ada ha deciso di prendere una camera in un albergo, vorrebbe andare via, ma le indagini…
Quando le ho chiesto perché se ne andava, ha risposto con un’alzata di spalle.
Apro la porta: il silenzio è un muro.
Mi metto al tavolo da disegno, ma neppure quello mi dà pace. Il poster, staccato dalla sua solita posizione sul mio letto, se ne sta in terra a faccia in giù, ma il suo monito è forte e chiaro.
L’immagine della Vicina a terra continua a rimbalzarmi davanti agli occhi.
Dietro di lei la cucina in disordine. Il cassetto rovesciato e tutte le posate a terra. Forse le stava asciugando, quando si è sentita male di colpo e ha cercato di appoggiarsi al cassetto aperto con l’unico risultato di farlo cadere.
Povera donna. Eppure lo sapevo che anni prima aveva avuto problemi di cuore e deve starci attenta. Lei per me ha sempre avuto molti riguardi.
E io cosa ho potuto fare? Scaricarla in un letto d’Ospedale e avvisare il nipote, figlio della sorella, che vive a Piacenza. Ha detto che verrà al più presto.
Ma una cosa posso farla: andare di là, bagnarle i fiori e rimetterle in ordine la cucina, so che ci tiene.
Ho raccolto posate e cassetto. Lavoro senza pensare a quello che sto facendo, ma quando è lì, nella mia destra, so cosa è accaduto anche se non so perché.
Continuo a rigovernare con calma. Mentre il perché mi sfugge.
Ospedale, orario di visita. La mia vicina sta già abbastanza bene da poter ricevere una breve visita. Luisa, che si tiene in contatto con i medici, me l’ha confermato.
Entro. E’ pallida, ma calma, con flebo e scialletto rosa.
Mi odio: so che prima o poi la disegnerò in un fumetto. Perché smettere di disegnare è solo un’illusione: ormai lo so.
Mi avvicino. il suo viso è ancora più grigio, ma mi esibisco nell’incoraggiante sorriso che si riserva ai malati. Mi sorride in risposta.
Parliamo per qualche minuto, le dico che ho provveduto a bagnarle i fiori sul terrazzino e poi non riesco a trattenermi e aggiungo: – Già che c’ero ho riordinato la cucina.
Ha lo sguardo da animale braccato.
– Il cassetto si era rovesciato.
Annuisce.
– Ho lavato le posate e le ho rimesse a posto.
– Sì.
Capisco che non sta dicendo sì al mio rimettere a posto ma alla silenziosa domanda che le ho posto. Sì, è stata lei ad uccidere. E’ il mio turno di annuire.
Apre due o tre volte le labbra senza che esca suono e quando la voce trova strada è strozzata. – Avevo comprato il pollo per farlo in fricassea. Prendo il trinciapollo e la rotellina della molla è scappata.
Annuisco. So che un’altra volta le è successo e gliel’ho riparato.
– Mi dico “vado da Max e prendo il suo”.
– Sì, certo.
– Suonano mentre sto uscendo con il tuo trinciapollo in mano. Apro. Penso che sia quella. — Da grigio il suo viso si sta raggrinzendo in una maschera.
So che “quella” è Ada.
– Ma è quell’uomo. Lo conosco perché tempo fa veniva spesso.
Sì, gli facevo vedere le bozze per il suo locale.
– Così l’ho fatto entrare e mi dice che non ti aspetta, che ha fretta. E, per il tuo bene, di dirti che la devi convincere. — Si interrompe.
— Chi dovevo convincere?
Ma non mi ascolta. — Dovevi convincerla a continuare, se smetteva ci andavi di mezzo tu. Dovevi dirle che il loro non è lavoro a tempo che quando vuoi smetti; quando ci si è dentro, ci si è dentro e non se ne esce.
— Da cosa non si esce? — Lo chiedo ma solo per conferma. Anche se continuo a non capire il mio ruolo: sono come il pezzo fuori posto di un puzle.
— Dalla droga.
— Con la droga non ho mai avuto niente a che fare.
— Se lei smetteva, ci andavi di mezzo anche tu. Ma tu hai tutta la vita davanti, ora hai anche la donna giusta, una brava ragazza.
I pezzi continuano a non combaciare; solo uno ha trovato posto: lei, la Lorenzi, ha ucciso per me. – Chi? Chi dovevo convincere? — Sì, l’ho già chiesto, ma lei non ha risposto.
– Lei, la tua donna. – E d’improvviso si mette seduta e punta la mano libera verso di me. – Via, devi mandarla via. Ada. Quella. Quella in casa non la voglio. Puttana. Non gli bastano e spaccia. Via! Via!
A stento mi accorgo dell’infermiera che, brusca, mi allontana e si china sulla Lorenzi a placarla.
Sto salendo verso casa, già il palazzo è incombente su di me, quando gli volto le spalle e scendo giù verso la città vecchia. Cammino. Vicoli e strade. Ancora vicoli. Ho bisogno d’aria e di mare davanti.
Cammino fino al porto antico e mi fermo lì davanti al vuoto.
Vorrei avere il vuoto dentro di me.
Un telefono pubblico, forse sono l’unico a non avere ancora un cellulare. Il telefono dell’albergo. Chiedo che mi passino la camera di Ada.
Risponde al primo squillo.
– Cosa c’è?
– Niente. – Perché ora che ho chiamato non so cosa dirle. Non posso accusarla di spacciare perché so che non può essere vero, il Sagittario si è sbagliato. No, non Ada. So che ha fatto molto per soldi, quando le mancavano, ma non quello. Come dice lei ha sempre dato del suo.
– Mi autorizzano a lasciare la città. Domani parto. Parti con me.
– No, devo restare.
E’ come averla di fronte, tanto facilmente l’immagino nel rapido gesto di allontanare i capelli dal viso. – Auguri.
– Per cosa?
– La nuova vita, il matrimonio. Luisa. La tua donna.
– Sì, grazie.
Riattacco. Non mi sono mai sentito così solo. Senza Ada. Mi scuoto: vivrò anche senza di lei, ho Luisa. Ho la mia donna.
La nausea arriva acida e improvvisa come dopo una nottata a bere e fumare troppo e solo un’altra sigaretta può tenere a bada il disgusto.
Se non avessi smesso di fumare, accenderei una sigaretta.
Allora fumavo ancora… E bevevo forte. Anche quella sera avevo bevuto troppo: mi rivedo ora a vantarmi con il Sagittario della mia dottoressa. La mia donna. Uno come me che conquista una così.
La mia donna.
Luisa.
Non ha sbagliato il Sagittario, ma è stata la mia vicina di casa a mal interpretare la destinataria del messaggio: la mia donna.
Non Ada. Il Sagittario sa bene che nessuno ha potere su Ada… Non sarebbe venuto da me, sapendolo un passo inutile.
Il Sagittario sa che non Ada ma Luisa è la mia donna. Quello studio che è costato un patrimonio, ricordo quando mi ha parlato dei preventivi; in neppure sei mesi è stato pagato. Dicono che in Ospedale la droga giri come fuori se non di più: qualcuno insospettabile. Uno come Luisa…
Luisa.
Una risata mi scuote. E la Vicina che uccide il Sagittario per proteggermi da Ada e consentirmi una nuova vita con Luisa!
Luisa.
Chiudo gli occhi.
Ciechi guidati da ciechi.
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