"Chissà i ragazzi" di Massimo Fagnoni


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Racconto tratto dalla raccolta: Bolognesi per caso, Giraldi editore, 2015

 

Chissà i ragazzi come se la sarebbero cavata qui e adesso.
Erano in gamba avrebbero trovato una loro sistemazione, ne sono certo. Uno era rosso di capelli e aveva un bel fisico, magro e muscoloso, vero alpinista, aveva coraggio da vendere, sarebbe diventato un medico e lo immagino adesso con i capelli rossi appena ingrigiti, ma i capelli rossi diventano grigi? Chissà. Lo immagino in un qualsiasi reparto del Maggiore di Bologna, chirurgo, perché lui aveva quella grinta un po’ bastarda che tanto mi faceva ridere, mi piaceva, era vitale, vitale da morire. Gli piacevano le donne e le faceva soffrire, come può capitare a vent’anni, quando il corpo ha bisogno di sperimentare, ha bisogno di esplorare. Ricordo che mi convinse a fare domanda in un’agenzia pubblicitaria che cercava modelli per i giornali, e di quel pomeriggio conservo ancora le fotografie, grandi, sgranate, in bianco e nero che non ci rendevano merito. Aveva una voce leggermente afona e io la ricordo così, ma chissà se è vero, la voce degli amici bisognerebbe registrarla e conservarla in qualche file protetto, e nasconderla in cantina insieme al buon vino, perché è la prima cosa che dimentichi di chi hai amato e quella non la ritrovi.
Il cervello ti frega, si deteriora e imputridisce, come tutto il resto, non ce la fa a conservare le informazioni, i visi, le espressioni, tutti i piccoli particolari che riempiono le giornate, colmando gli spazi, componendo amicizie, amori, affetti e nello stesso tempo anche noia, abitudine, rancore.
L’altro era un vero capo, ma chissà se lo sapeva, era più piccolo del rosso, spalle larghe e braccia da boscaiolo, peloso e barbuto, era un filosofo, non aveva ancora capito cosa fare del suo futuro, lo persi di vista nell’ultimo periodo, ma era un pezzo della mia vita, uno di quelli difficili da digerire e dimenticare, aveva una fisicità contagiosa, e una capacità innata di consumarsi dietro le passioni, la musica, la letteratura, la montagna, i viaggi, le donne.
Ricordo i suoi amori fulminanti e visionari, spietati e senza speranza, si innamorava, soffriva e ti contagiava con la sua angoscia, ti riempiva le giornate che diventavano confuse come fossimo sempre ubriachi, e spesso lo eravamo. In quel tempo non c’erano i cellulari, non c’era internet, neanche la rete, potete immaginarlo? C’eravamo solo noi, negli epici anni ottanta, i primissimi anni ottanta, ci telefonavamo dalle cabine per strada o dai duplex dei genitori. Ci incontravamo in luoghi prestabiliti sotto casa, o davanti al Righi, più o meno alla stessa ora, se uno arrivava prima aspettava, non poteva chiamare al cellulare per sapere per quale motivo non eri puntuale, ma alla fine ci si trovava sempre. Ci scrivevamo lettere, piene di scarabocchi a volte disegni magnifici, a volte bestemmie urlate sulla carta, e le lettere inseguivano i mesi e gli anni, e si andava al cinema con due lattine di birra e un pacchetto di sigarette, non si scaricavano i film dalla rete, non si vedevano su Sky perché non esisteva ancora, e tutto era essenziale, non meno bello, semplicemente diverso, perché ancora non conoscevamo le meraviglie del possibile.
Uno dei due, il rosso, era fisico, indistruttibile, simpatico, travolgente, lavorava come maschera nelle fiere della città, studiava e aveva degli obiettivi.
L’altro era un sognatore, un karateka, un guerriero e un filosofo allucinato, sempre in viaggio per il mondo, sempre in sfida con se stesso.
E adesso cosa direbbero trovandosi di fronte il futuro?
Se lo avessero vissuto in diretta come è capitato a noi, il rosso lo vedrei con un tablet collegato perennemente alla rete, un occhio al piano degli interventi chirurgici della settimana e un occhio alla hostess conosciuta sull’ultimo volo Cuba Bologna, una carina, alta, gambe lunghe e molta fantasia.
L’altro avrebbe creato un blog, come Grillo, ma più simpatico, non per inventarsi un movimento di opinione, ma per movimentare le idee, i sogni, avrebbe postato poesie, avrebbe iniziato dibattiti filosofici e litigato e incantato come sempre, gli sarebbe piaciuto Facebook e Twitter, perché era nato per la comunicazione, per interagire con il mondo.
Se tornassero oggi mi prenderei una settimana di ferie e ci chiuderemmo in un qualsiasi appartamento e lì potremmo divertirci a scoprire tutta la tecnologia che hanno perso, inizierei dai cellulari, e me li vedo i ragazzi increduli, stupiti, subito reattivi, il rosso si sarebbe procurato un iPhone ultima generazione, con navigatore e tutte le applicazioni possibili.
Il filosofo si sarebbe accontentato di un BlackBerry e avrebbe trascorso ore al telefono come faceva abitualmente con il fisso di casa sua.
Con il rosso mi sarei divertito mostrandogli l’alta definizione del mio xbox, anche a lui sarebbero piaciuti i giochi. L’altro si sarebbe buttato subito nella rete facendola sua, un nuovo universo con il quale giocare.

Torno alla realtà, sono solo, come sempre circondato da persone che velocissime si scambiano messaggi, si inviano immagini, musica, video porno, giochini buoni per un qualsiasi telefonino ultima generazione, in linea di massima perdono tempo, si alienano, il guaio è che lo fanno a ritmo continuo, come se tutta la matematica applicata al futuro sia stata elaborata solo per fotterci la fantasia.
Controllo gli ultimi messaggi di whatsapp, e penso che sia una grande invenzione, posso mandare messaggi e fotografie e musica praticamente gratis, ma in realtà lo uso poco, utilizzo una percentuale piccolissima della tecnologia a disposizione perché sono abbastanza vecchio da non necessitare di tanti contatti virtuali, mi interessano di più quelli ravvicinati, magari davanti a una buona bottiglia di lambrusco e un piatto di tigelle e affettato, però ci vado in rete, Facebook, twitter, ho persino un blog e come tutti gli uomini d’esperienza non compromessi scrivo ciò che mi piace, ormai solo cinema e letteratura e il pensiero dei ragazzi scaraventati per un sortilegio in questo tempo, è solo un gioco, lo so, ma serve a fermare la testa, serve a riflettere sull’accelerazione dei nostri giorni dove diamo tutto per scontato, tocchi uno schermo qualsiasi e viaggi dall’altra parte del mondo, ma quando ripenso a loro lo so che non potrò incontrarli in rete, perché se ne sono andati prima di potere lasciare un’immagine, un suono, un segnale.
Sapete quei segnali nella notte più buia che indicano il cammino verso la salvezza?
Un razzo nel buio della notte lanciato da una qualsiasi riva.
Loro non hanno avuto modo di lanciarlo né per salvare me né per salvare loro stessi.
Chissà se quella maledetta notte avessero avuto i cellulari sul Bianco come sarebbe finita? Ci avete mai pensato? Forse almeno uno si sarebbe salvato, il più tarchiato, il più generoso, non si sarebbe scapicollato nel buio di un percorso pieno di crepacci in cerca di soccorsi tanto lontani quanto inutili. Avrebbe telefonato al rifugio Torino e in pochi minuti sarebbero arrivati con le corde e almeno lui non sarebbe caduto in corsa in un altro crepaccio.
In quel caso il progresso avrebbe salvato una vita e io ora non sarei qui come un cretino a chiedermi come si sarebbe sviluppato il loro futuro.
O addirittura avrebbero utilizzato una nuovissima applicazione del cellulare del rosso, una di quelle apparentemente inutili che però ti analizza la montagna e ti mostra i sentieri meno pericolosi, mostrandoti i crepacci, rammentandoti di marciare legato al compagno verso la parete, un’applicazione tanto specialistica quanto costosa che lui avrebbe avuto, perché gli piacevano molto le cose superflue, e in quel caso gli avrebbero salvato la vita, sarebbero rimasti al caldo del rifugio o avrebbero scelto un’altra strada per la parete del bianco in quella notte di trent’anni fa.
In quell’anno il cellulare forse era solo un’idea in testa a qualche giovane americano brufoloso, o forse era solo un’idea per un romanzo di fantascienza.
Allora saltavano ancora i treni e il terrorismo andava per la maggiore nel nostro paese.
Il futuro mi è venuto incontro e rimango qui nella mia navicella tecnologica mentre tutti mi scivolano intorno, e mi attraversano, senza una reale interazione, senza una effettiva coscienza.
Loro invece, i ragazzi, rimangono là nel buio di quella notte, senza avere potuto contaminarsi del nostro nulla e mi rendo conto solo ora che sono molto più vivi di noi.


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