"La Pescatrice di Voci" di Daniela Vanillo (parte prima)


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Questo racconto, che in realtà è uno romanzo edito da StreetLib Write, che pubblicherò diviso in 5 parti per questioni di lunghezza, parla dell’esperienza personale dell’autrice con il fantasma dell’autismo. Tutti dovrebbero leggerlo, a prescindere dall’essere coinvolti o meno dall’argomento, perché testimonia un’esperienza umana di grande valore.

 

Ho scoperto di avere un futuro prevedibile, spingo un carro sperando che si muova sul ghiaccio. Proseguo aiutata da forze ciclopiche: mi giro e non ho fatto un passo.

Ascolto la tua voce “Maria” e riparto senza meta. Nel cammino incontro folle di benpensanti armati di voci prive di sostanza. Cani sciolti ed urla di giudicanti improvvisati che bisbigliano consigli: “Io farei, io avrei fatto”.

Ma il “Mostro del Silenzio” è invincibile. Nato con me, l’ho sempre combattuto ma non l’ho riconosciuto subito

Mi ha sempre inseguita serpeggiando dal principio.

Ero molto piccola, amavo correre su e giù per le scale in marmo bianco scendendo dal secondo al primo piano in scivolata, con il sole in faccia che entrava dalle finestre della scala. Era il 1966 ed all’epoca avevo sei anni. Tutte le volte che scendevo le scale in questo modo, cercavo di farlo velocemente per via di un racconto che avevo ascoltato.

Nel palazzo al primo piano viveva una famiglia con due figli. Mia madre raccontava che alla signora in questione i maschi nascevano malati, le femmine no.

Io non capivo ma dalla porta si sentivano urla e rumori. Abitavo in quella casa da poco e non avevo ancora degli amici. Più tardi conobbi la sorellina del bambino, quello che urlava e che rompeva tutto. I genitori erano come due fantasmi, ricordo di non averli mai visti parlare con nessuno.

Il padre era un artigiano la madre la prigioniera della casa “dalla porta misteriosa”. La domenica più o meno alla stessa ora, il padre si allontanava verso la collina trattenendo a se il bambino sottobraccio che ogni tanto, cercava di liberarsi dalla stretta paterna.

Mia madre, diceva che era proprio una disgrazia e per la famiglia una vita rovinata.

Le raccomandazioni, erano quelle di transitare velocemente davanti alla porta e di non entrare nell’appartamento poiché il bambino che urlava, mi avrebbe potuta prendere e strangolare.

Il tempo passava, io crescevo e lui anche ed era diventato per altezza e corporatura due volte suo padre. Passando, a volte incontravo il suo sguardo severo, quasi ad ammonire la mia furtiva curiosità infantile. Intuiva guardandomi, che anche una bambina così piccola si fosse accorta di quel segreto. Spesso nascondeva il bambino girandolo dietro di sé, facendolo passare da un braccio all’altro.

Nel frattempo nella loro famiglia era nato un altro bambino malato. La sorella cresceva e non aveva molti amici. Mi raccontava il suo disagio nel dover presentare a chicchessia una situazione familiare così complessa. Intanto i genitori erano sempre più vecchi e più stanchi.

Lei viveva per lo più blindata in casa, prigioniera della madre e della sua stanza. Un giorno mi confidò che i fratelli erano affetti da una cosa che si chiamava “Autismo”.

Mi confidava, che nessuno l’avrebbe mai sposata con una genetica simile e lei stessa, aveva il timore di generare dei figli come i suoi fratelli. Di lei non seppi più nulla e dei ragazzi malati si diceva che fossero stati affidati ad un istituto.

È il 1994 ho trentaquattro anni e aspetto un figlio, è una bambina.

Ricordo che una sera guardando un film, assisto alla trama della storia di una famiglia nella quale una bambina di circa cinque anni, diventa autistica. Fui presa da sconforto e pensai che io, ad essere la madre di una bambina autistica, proprio non c’è l’avrei mai fatta.

Mia figlia è nata in cinque minuti, tre chili e centocinquanta grammi, bianca e rossa con due grossi occhi azzurri proprio bella come i neonati della pubblicità. I mesi passavano e mi accorsi che dopo le prime vaccinazioni dormiva troppo e muoveva le manine in modo strano.

Osservazioni comunicate meticolosamente alla pediatra: “Qualcosa non andava”, ma lei prendendo nota diceva che ero particolarmente apprensiva e che tutto si sarebbe sistemato nel tempo.

Ho cercato sin dall’inizio di annotare tutto quello che succedeva. Ero sola e la piccola Maria nel corso dei mesi era sempre più assente. Per meglio dire, non ero sola ero spiata da qualcosa di inusitato, da qualcosa di rigido e silenzioso.

Timidamente senza far troppo rumore, ho cercato di conoscere il nuovo compagno indesiderato. Di nascosto perché gli altri mi avrebbero diagnosticato la sindrome post parto o ancor peggio di avere qualche “rotella fuori posto”. Mi avrebbero deconcentrata dalla mia missione. Dovevo conoscere il nemico di Maria “Il Mostro del Silenzio” volevo capire dove si nascondeva e quali fossero i suoi punti deboli.

Sicuramente si trovavano da qualche parte nel “DNA” familiare. Dentro qualche catena polinucleotidica avvolta a spirale dove si intrecciavano tutti i miei avi conosciuti e non conosciuti. Mentre aspettavo Maria, mi documentavo sui progressi di crescita dei bambini nei primi mesi di vita.

Senza esperienza davanti alla sua indolenza, avevo iniziato a leggere di nascosto alcuni libri sui disturbi pervasivi dello sviluppo.

Nel frattempo cercavo soluzioni improvvisate suggerite da lei stessa. Il sonno ad esempio. Annotavo quante volte si svegliava da sola. Dovevo controllare in continuazione poiché non piangeva e non emetteva vocalizzi che potessero attirare la mia attenzione.

Per gli altri: “Un amore di bambina, averne di così buone!”. A volte si svegliava e si riaddormentava senza mangiare. Infinite stimolazioni alla ricerca della sua attenzione senza perdere nemmeno un secondo, sin dai suoi primi mesi di vita.

Osservavo che questa mia attività, caratterizzata da rumori, musica e stimolazioni tattili, la rendeva attiva, sveglia e attenta. Man mano che passava il tempo il sonno si stabilizzava.

Fin dai primi mesi l’attività è sempre stata quella, ma con una attenzione spasmodica e quasi maniacale da parte mia per ogni tipo di reazione od interesse da parte di Maria per giochi, colori, suoni, profumi.

Questo voleva dire che non la perdevo mai di vista così mi accorgevo se il suo sguardo cadeva con intenzione su qualcosa o qualcuno, se si girava per un rumore, se ballava al suono di una musica, se un gioco le era congegnale, se sceglieva spontaneamente qualcosa e quanto tempo ci giocava. Se si rendeva conto della regolazione termica corporea quindi se, e come percepiva il caldo e il freddo.

Quanti ostacoli vedeva e quanti no, se percepiva il calore degli oggetti e non ultimo se le esperienze le servivano o se l’errore di ripeteva. Se cerchi di trovare “lei” in questo modo spasmodico, prosciugando tutte le tue energie vitali, ti troverai un giorno irrimediabilmente sola.

Le energie non bastavano mai e così mi sono allontanata dal mondo mettendomi in viaggio verso il suo che aveva un indirizzo ignoto.

Il tempo trascorreva e la bimba era sempre più chiusa e passava la maggior parte del tempo, a dondolarsi ed a coprirsi la testa con un lenzuolino che aveva la figura di un topolino stampata in modo perpetuo sulla stoffa di cotone.

In quel periodo ero molto stanca e decisi di prendermi un attimo di respiro. Maria a quel tempo aveva tre anni e quel giorno giocava nella sua camera. Solitamente passava poco tempo con il padre poiché sembrava non riconoscerlo. Spesso lui non sapeva come calmarla.

Ero fuori casa da circa due ore e decido di rincasare. Il telefono non riceveva e non mi ero resa conto di essere stata chiamata ripetutamente. Sentivo girando freneticamente la chiave nella toppa della porta che la bambina urlava ripetutamente una frase: “Manca pezzettino”.

Urlava ininterrottamente senza mai fermarsi presa da un attacco di rabbia. Il padre da circa un’ora, cercava di calmarla proponendole ogni tipo di soluzione ma niente. Entrai e corsi su per le scale, la stanza era in disordine e Maria era furiosa. Uno sguardo veloce mentre lei ripeteva sempre la stessa frase.

Chiesi velocemente spiegazioni al padre, cercando la calma che mi serviva per risolvere la situazione. Non avevo molto tempo, lei era esausta. Domandai con quale gioco stesse giocando, ma lui non seppe rispondere poiché era nel suo studio mentre lei era nella stanza dei giochi.

Ancora uno sguardo nella camera e finalmente, appoggiato sul pavimento scorgo il puzzle. Stava componendo la scena di un fumetto. Non è mai stata veloce a questo gioco e questo mi aveva sempre tranquillizzata. Ho letto che i bambini autistici sono abili a comporre e completare velocemente i puzzle. Per loro sembra essere uno dei passatempi preferiti.

Al puzzle mancava solo un pezzettino per essere completato. Ricordai immediatamente, di aver trovato i giorno prima il pezzo mancante e di averlo riposto in uno dei cinquanta cassettini di un mobile cinese posto nel soggiorno. Sono fortunata, il primo che apro contiene il pezzo.

Avvenuto il completamento del puzzle Maria smette di urlare immediatamente mettendosi subito a giocare con un altro gioco; infatti mancava un pezzettino.

Siamo nel 1998. Ora mi sono abituata ma è stato difficile.

Maria diventa sempre più chiusa, se qualcuno viene a casa diventa difficile trovarla. Si nasconde e se la trovi, la devi prendere in braccio con il suo lenzuolino sulla testa. Da poco le è stato regalato un piccolo pupazzo, un procione bianco e nero pieno di caramelle. Il pupazzo e molto brutto e di bassa manifattura. Per nasconderlo, decido di metterlo in un armadio prima di buttarlo, ma prima glielo mostro e gioco con lei.

Maria il giorno dopo lo prenderà dall’armadio per non lasciarlo mai più. Questo pupazzo diventerà per me e per lei importantissimo poiché per anni ci darà la possibilità di comunicare.

La pancia del peluche una volta svuotata dalle caramelle accoglierà la mia mano. Come una burattinaia lo farò muovere e gli darò la voce.

Il procione inizia a parlare dicendo sempre: “Ciao Maria…” sempre, con la stessa cadenza, tonalità e con una vocina artefatta che diventerà il doppiaggio della voce del procione di stoffa chiamato “sophia”: un allenamento che andrà avanti fino all’età di dieci anni.

Un modo per non smettere mai di parlare. La ginnastica della parola, l’allenamento della speranza.

Un giorno mentre ero in cucina Maria mi chiamò due volte. Corsi velocemente da lei. Mi disse sottovoce che non riusciva più ad alzarsi in piedi.

Era seduta sul pavimento della camera e voleva che la prendessi in braccio. Credetti fosse uno scherzo poi pensai che fosse caduta. Ma nel sollevarla capii che c’era dell’altro poiché non appoggiava le gambe sul pavimento ma tendeva a piegarle.

Corsi in ospedale con lei in braccio. Gli accertamenti nel reparto di neuropsichiatra infantile furono piuttosto veloci e basati più che altro, su domande finalizzate all’anamnesi familiare. Ascoltavo la dottoressa ma nel frattempo mi venivano in mente i due bambini del 1966, il film visto in gravidanza, le segnalazioni fatte alla pediatra.

La voce della dottoressa si allontanava e nella mia mente prendeva voce, quella del mio pensiero preoccupato. Un lungo silenzio e poi interrompendo bruscamente il discorso, feci una domanda trattenendo il respiro: “Mia figlia è autistica?”

Impietrita davanti alla dottoressa attendevo la risposta, finché lei mi chiese il perché di quel sospetto. Le risposi che avevo letto molto circa questo disturbo e ritenevo che alcuni comportamenti di mia figlia rientrassero in quelli letti.

Guardandomi rispose che non lo escludeva e mi suggeriva di eseguire accertamenti specifici. Mi consigliò di tenerla monitorata e di controllare l’andamento del disturbo. Maria migliorò nell’equilibrio ma non nell’interazione.

Tornai nel reparto di neuropsichiatria infantile con una richiesta di prima visita. Solo dopo mesi riuscì a parlare con un medico supponente ed impreparato che brancolava nel buio. Analizzata la bambina con i soliti test mi comunicava che non riusciva a capire la natura del disturbo.

Mi suggeriva invece, le cure private di un collega che avrebbe curato la bimba attraverso alcune sedute di psicoterapia mirate. Il tutto per soli quaranta milioni delle vecchie lire. Chiesi al medico se avesse mai sentito parlare di parole come “Autismo” o “sindrome di Asperger”.

Lui rispose che lo studio dell’autismo non era la sua specializzazione e che la “sindrome di Asperger” non l’aveva mai sentita nominare forse perché, si era laureato prima del 1995 e non aveva assistito a corsi di aggiornamento specifici sull’autismo o sindromi correlate.

Presi Maria in braccio salutando l’inventore di soluzioni prezzolate mentre, non ero già più in quella stanza di bugie e supposizioni.

Ero già alla ricerca di altre strade.

Per Maria è tempo di frequentare la Scuola Materna. La scelta, per volere del padre e dei nonni paterni, sarà quella di farle frequentare una scuola di tipo cattolico gestita da suore.

La scuola si trova proprio di fronte all’abitazione dei nonni paterni che ogni tanto potranno recarsi a prenderla al termine della giornata.

Maria non vuole frequentarla e la mattina viene trascinata sistematicamente dalla suora, all’interno dell’aula di accoglienza. Io con gli occhi la seguo impotente finché, non vedo sparire lei e il suo grembiulino a quadretti verdi e blu, nell’aula posta in fondo al corridoio.

Le solite voci mi assalgono. I benpensanti consigliano di insistere e che come tutti gli altri bambini di questo mondo se ne farà una ragione. Ma lei vive in questo mondo ma a modo suo! Non c’è modo di farlo capire a nessuno!

D’altronde per gli altri: “È solo una bambina viziata che non vuole staccarsi dalla mamma, fa i capricci e non vuole parlare più, ma le passerà una volta che si sarà abituata”. Per me è uno strazio e la bambina si chiude sempre di più.

Ci sono ripetuti solleciti da parte della direttrice volti alla richiesta di salutare e di stringere la mano in segno di saluto. Maria sembra non sentire ed attonita e assente si rifiuta.

Giunta al secondo quadrimestre mi accorsi che Maria si spegneva sempre di più e che le insegnanti avevano sempre meno pazienza. La voce ormai affievolita quasi non si sentiva più e la bimba parlava con un filo di voce.

Un giorno mi resi conto che aveva sui fianchi dei piccoli graffi e dei puntini rossi.

Dapprima non ci feci molto caso pensando che i segni, fossero dovuti ad una allergia od allo strofinamento dell’elastico di qualche indumento. Ma chiedendole ripetutamente di dirmi, se succedeva qualcosa che la mamma dovesse sapere, dopo giorni mi raccontò quello che stava succedendo.

Non so come fece con la voce che le era rimasta, così debole e con l’attenzione che andava e veniva, a dirmi che per indurla a parlare, la suora le pungeva i fianchi con un piccolo attrezzo appuntito. Lo utilizzavano anche ai miei tempi per realizzare dei lavoretti bucherellando un foglio precedentemente disegnato.

Allarmata e delusa chiesi ed ottenni l’allontanamento della suora, quella responsabile dell’accaduto e ritirai immediatamente e definitivamente la bambina. Ero senza forze e decisi per il bene di mia figlia, che le avrei risparmiato i confronti e gli interrogatori e così non sporsi denuncia.

Dopo il ritiro iniziai a girare per la città. Lei era come un pacco postale indesiderato e con i problemi che aveva, sarebbe stato difficile trovare una scuola materna che facesse il caso suo e che mi desse fiducia dopo questa esperienza.

La bimba pian piano stava perdendo la voce e iniziava ad indicare utilizzando le mani.

Da quel giorno sono passati sedici anni.


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