Su. Su. Con fatica. Una manata dopo l’altra, le dita che afferrano il ramo appena più in alto, i piedi che sudano nei sandali mentre cercano un punto fermo per il nuovo slancio. Ancora più su. Nell’affanno della calura di fine estate, appena stemperata dal vento leggero che fa sussurrare le foglie. Su. Attento a non scivolare, le dita che sanguinano per l’ultima presa, le ginocchia nude che si graffiano contro la corteccia ruvida. I muscoli si contraggono sotto la maglietta fradicia, i tendini si allungano e si rilassano. Gli occhi puntano quel ramo di sempre, dove ci si può sedere senza pericolo e guardare il mondo come da una mongolfiera. Ma senza essere visti.
Lei è in giardino. Il vestitino bianco lascia le spalle scoperte. Sono pallide e rotonde come le palle di gelato alla crema della Veneta. Ha un cappellino a tesa larga che le lascia il viso in ombra. Siede su una panchina del giardino e legge un libro di cui la distanza impedisce di decifrare il titolo. Il vento le agita la gonna. Sofia. Sa che si chiama così perché è così che la chiama sua madre. Il grande oleandro che troneggia sul giardino sembra volerla proteggere, mentre lei sfoglia le pagine una dopo l’altra. Qualsiasi sia la storia che sta leggendo, la appassiona al punto tale da non farle mai alzare la testa. Nemmeno quando nel giardino entra una macchina. Al lui piacciono le macchine. Quella in questione è una Lancia Appia color turchese. Entra a passo d’uomo e si ferma sotto l’oleandro. Scende un signore distinto in giacca e cravatta. Lo ha visto tante volte. Parte la mattina e torna all’ora di pranzo. Riparte alle due del pomeriggio e torna verso le sei o le sette. Lavora in una banca. Si avvicina a Sofia e lei gli sorride. Le da un bacio ed entra in casa. Passa poco e la madre si affaccia alla piccola veranda. La chiama, che è ora di pranzo. Sofia chiude il libro delicatamente e lo porta con sé. Il giardino resta deserto. Rimane solo Gastone, un gatto enorme che se ne sta sdraiato sotto la panchina di Sofia e se ne infischia se è ora di pranzo.
C’è qualcun altro che sta chiamando. La voce è di donna e il ragazzo la conosce bene. E sua madre, che come tutti i giorni grida il suo nome: Mario. E Mario, come tutti i giorni, non risponde subito. Aspetta di rimettere i piedi per terra, perché non vuole che sua madre sappia dove va a nascondersi, anche se lo sa già. Lei dice che è pericoloso salire così in alto. E’ facile cadere. Mario risponde che si può cadere anche stando con i piedi per terra. E sua madre, che si chiama Anita, non sa mai cosa dire. Si limita a rimproverarlo, che è la cosa che sa fare meglio. – Perché non rispondi mai quando ti chiamo?
– Non ti sentivo. – Uno sguardo alla casa: la macchina di papà è parcheggiata sotto il sole. I Martini non hanno un oleandro grande come quello dei Viganò. Non hanno nemmeno una macchina da proteggere, perché quella di papà Adelmo non è una macchina vera, è un camioncino. E ha già più di dieci anni.
– See see, e ci credo io – Anita allunga una mano verso il figlio, mentre le passa davanti. Nelle intenzioni forse vorrebbe dargli uno scappellotto, in realtà viene fuori più una carezza. – Vai a lavarti le mani e prepara tuo fratello, che è tre ore che aspetta.
Davide. Aspetta. Aspettare è l’impegno più grande di tutta la sua giornata. Aspetta perché qualcuno lo tolga dal letto e lo infili nella sedia a rotelle. Aspetta che qualcuno la colazione gliela metta in bocca, e così per il pranzo, la cena e qualsiasi altro momento in cui deve bere o mangiare. Aspetta che qualcuno gli faccia soffiare il naso, o gli faccia fare i bisogni, o lo pulisca. Aspetta che qualcuno venga a parlargli, o a leggergli un libro, a rimboccargli le coperte se ha freddo o ad abbassargliele se ha caldo. O, semplicemente, aspetta che qualcuno gli racconti com’è la vita fuori.
Nella stanza di Davide c’è sempre il solito odore che mescola borotalco e disinfettante. Anche se la finestra è aperta.
Davide volta appena la testa verso il fratello, che entra nella stanza con il volto serio. E’ pronto per la domanda. Quella per la quale ha trovato la voglia di vivere. Quella per cui tutta l’attesa del mondo ha un suo senso.
– L’hai vista?
– Sì – risponde Mario. Ha lo sguardo incollato a uno dei mulini stampati sul lenzuolo di Davide. Accanto alle pale c’è una macchia secca di marmellata.
Gli occhi di Davide si accendono. – Era bella?
– Sì era bella. – Mario infila le braccia sotto le ascelle di Davide e lo tira a sedere. Così è più facile per lui sollevarlo e depositarlo sulla sedia. Davide ha sedici anni, ma è leggero come un bambino di sei.
– Com’era vestita?
– Come ieri.
– Il vestitino bianco?
– Sì.
– Cosa faceva?
Mario spinge il fratello vicino alla finestra, dove l’aria è più profumata e più fresca. Davide ha un pigiama leggero che ogni giorno sembra stargli più largo, e i lembi sventolano alla brezza. – Leggeva un libro.
– Che libro?
– Non lo so, ero troppo distante.
– Le piace leggere, vero?
Il ragazzo scrolla le spalle. – Penso di sì. Non ha alzato mai la testa.
Davide guarda il vecchio oleandro che segna il confine tra il giardino dei Martini e quello dei Viganò. Gli alberi fremono appena nella brezza. Dalla sua finestra si vedono i campi, ma non la casa di Sofia, e questo gli dispiace. – Pensi che vorrebbe leggere per me?
Mario avvicina alla carrozzella il tavolo speciale, quello alto abbastanza da poter sovrastare i braccioli della sedia. Lo ha fatto papà Pietro apposta. Lui è falegname, lavora con una ditta di costruzioni. Non è stata una cosa difficile. – Non lo so.
Mario va in cucina e ritorna con un piatto di risotto fumante. Lo tiene con due mani, come se fosse pesante. In realtà ha solo paura di lasciarlo cadere. Ha paura perché è già successo. Lo posa sulla tavola ed esce di nuovo. Torna con un bicchiere, una brocca d’acqua, le posate e due tovaglioli ricamati. Uno di questi lo posa accanto al piatto, l’altro lo infila nel colletto di Davide.
– Pensi che potresti chiederglielo? – fa Davide.
Mario arrossisce. Infila la forchetta nel risotto e ne raccoglie una porzione. La osserva, la giudica eccessiva, l’alleggerisce. “Bocconi piccoli” si è raccomandato il dottor Lucchesi. Si accerta che il riso non bruci, e per sicurezza ci soffia sopra. Infila la forchetta nella bocca del fratello e la ritira per raccogliere un secondo boccone. – Chiedere che cosa?
– Hai capito – fa Davide masticando.
– Non parlare quando mangi – lo rimprovera il fratello.
Come neanche a dirlo, il boccone va di traverso. Davide tossisce e sputa, mentre Mario si affretta a riempire il bicchiere di acqua rimproverandosi per non averlo fatto prima. Appoggia il bordo alla bocca del fratello e solleva il bicchiere. Gran parte del liquido scivola sul collo e sotto le coperte. Il ragazzino non ha ancora imparato a dosare i movimenti. Mamma Anita, quando tocca a lei, non lascia cadere nemmeno una goccia. Davide continua a tossire. Entrano mamma e papà. Sui loro volti l’ansia si mescola alla rassegnazione. Papà Pietro tiene alzata la testa di Davide e gli dice di guardare il soffitto. Mamma Anita riempie di nuovo il bicchiere e fa bere il figlio. Mario si è fatto da parte. Si sente in colpa. Se potesse si farebbe piccolo tanto da sparire.
Gli spasmi di Davide, che è rosso paonazzo, diminuiscono e lentamente torna al colorito pallido a cui sono tutti abituati. Mamma Anita asciuga la fronte del figlio e accoglie in un fazzoletto i chicchi di riso rimasti imprigionati agli angoli delle labbra. Papà Pietro rimprovera Mario. – Non farlo parlare quando mangia, che gli va di traverso.
Ha ancora addosso l’odore di segatura, papà. Segatura e trucioli di legno.
–Scusate – risponde Mario studiandosi le unghie dei piedi che spuntano dai sandali ancora sporche di terriccio.
– Vuoi che resti io con Davide? – domanda mamma Anita.
Mario scuote la testa.
– Fai per bene – si raccomanda la donna prima di uscire.
Fare per bene significa non far parlare Davide. Non far parlare Davide significa fare come vuole lui. Far come vuole lui significa, in quel momento, una sola cosa.
– Va bene. Lo farò.
Davide si illumina. E’ bello vederlo sorridere, perché non lo fa mai. E Mario, che adesso è l’artefice di quel sorriso, si sente importante. Anche se sta per fare una cosa che gli costa un prezzo molto alto.
– Prometti?
– Promesso. – Mario avvicina una nuova porzione di risotto alla bocca di Davide. – Ma adesso mangia e sta zitto.
Mario aspetta che la Lancia color azzurro esca dal cortile, prima di scendere dall’albero. Aspetta fino a che è sicuro che l’uomo che la guida non abbia dimenticato a casa qualcosa per cui tornare indietro all’improvviso. Aspetta fino al fischio del treno che parte alle tre in punto dalla stazione. Ha imparato a contare le ore così, mettendo in relazione i fischi dei treni in partenza con la posizione del sole durante le ore della giornata. Estate e inverno. Il margine di errore è al massimo di mezz’ora.
Il contatto con il terreno è quasi doloroso. Fa qualche passo e gli sembrano pesanti come se sotto le suole avesse legate delle pietre enormi. Esce dal cortile sulla strada e percorre il tratto che lo separa dall’ingresso del vialetto dei Viganò. Con la mano scivola da un montante all’altro dell’inferriata, ottenendo un suono metallico appena ovattato. Sofia è nel giardino, seduta sulla stessa panchina di prima, con lo stesso libro in mano. Se non fosse che Gastone ha cambiato posizione andando a sdraiarsi dove prima stava la Lancia, l’immagine sarebbe identica a quella di poco prima.
Sofia è vicina, e al ragazzo fa uno strano effetto destabilizzante trovarsela lì e soprattutto non vederla dall’alto. Lei legge il suo libro e non fa caso a lui. Le cicale cantano nel caldo che impigrisce la campagna.
– Ciao – fa il ragazzo.
Sofia non si volta. Forse non lo ha sentito. Forse non ha voglia di confondersi con un ragazzino. Lui pensa che sarebbe meglio tornare indietro ed evitare figuracce. Se non lo avesse promesso a Davide, non gli sarebbe mai passata per la testa nemmeno l’idea di avvicinarsi a quel cancello. Ma una promessa è una promessa e non può tirarsi indietro.
– Ciao – un po’ più forte.
Sofia alza la testa e non capisce subito. Poi si volta verso il cancello e lo vede: un ragazzetto dalle gambe smilze e dagli stinchi graffiati. – Ciao – risponde. Ripiega un angolo della pagina che stava leggendo e chiude il libro, lo posa con delicatezza sulla panchina e si alza. Mario deglutisce mentre lei si avvicina. Non può fare a meno di notare quanto sia graziosa, con l’ombra del cappellino che le taglia in due la faccia.
– Tu abiti qui accanto, vero? Ti vedo ogni tanto.
Lui annuisce con forza.
– Come ti chiami?
– Mario.
– Io sono Sofia – la ragazza allunga la mano attraverso le sbarre del cancello. Mario la guarda come se non sapesse cosa farci, poi si decide ad alzare la sua. Stringe la mano di Sofia con poca forza e la ritira subito. Fa appena in tempo a percepire il calore della sua pelle.
– Quanti anni hai, Mario?
– Dieci a novembre.
– Quindi adesso ne hai nove, giusto?
Mario arrossisce. Gli dispiace che Sofia abbia puntualizzato. – Sì, giusto.
Sofia abbassa gli occhi sulle ginocchia sbucciate di Mario. – Ti sei fatto male?
Mario alza le spalle. – Non è niente.
– Non ti fanno male?
Mario immagina che le ginocchia di Sofia siano perfette, bianche e lisce senza nemmeno l’ombra di una cicatrice. – No. Poi passa.
– Cosa fa tuo padre?
Arrossisce di nuovo. Si vergogna del lavoro di papà Carlo. Non perché ci sia nulla di vergognarsi in realtà, forse quello è il lavoro che farà anche lui da grande, ma non è un lavoro che permette di fare la bella vita come la fa Sofia. Non permette di portare bei vestiti come i suoi, non permette di spendere soldi in libri o in dischi. Anche il gelato alla domenica non è previsto. Quel qualcosa in più che resta, va speso nei dottori e nelle cure di Davide.
– E’ falegname.
Sofia si interessa. – Pensi che sarebbe capace di sistemare la credenza? Non chiude più bene, si apre da sola e la mamma a volte ci va a sbattere dentro.
– Penso di sì – risponde Mario.
– Puoi chiederglielo?
– Certo. Va bene.
– Bè, allora ciao.
– Ciao.
Sofia si allontana. La sua gonna svolazza nella brezza e nell’impeto del movimento scoprendo appena l’incavo del ginocchio. Mario resta aggrappato con tutte e due le mani al cancello, come se avesse bisogno di sorreggersi per non cadere.
– Sofia! – Mario grida e l’eco della sua voce che risuona nel portico lo fa sentire uno stolto. Non riesce a credere di averla davvero chiamata a voce alta. Se la madre di Sofia si affacciasse in questo momento alla veranda, che potrebbe mai pensare di un ragazzino dalle ginocchia sbucciate aggrappato come una scimmia alle sbarre del cancello che grida il nome della figlia?
Per fortuna alla veranda non si affaccia nessuno. Sofia si volta e nella luce del sole il suo viso risplende di un’aura dorata che la fa sembrare più bella di un angelo. Mario crede che non scorderà quell’immagine mai più. Raccoglie tutto il coraggio che riesce a trovare. – Ho bisogno di chiederti una cosa.
Sofia torna indietro e lo scruta con aria interrogativa. – Che cosa?
– Ti andrebbe di leggere per Davide?
Sofia si acciglia. – Chi è Davide?
– Mio fratello più grande.
– Non sapevo che avessi un fratello. Non l’ho mai visto.
– Non esce mai. Mia nonna dice che non sta bene farlo vedere agli altri.
– Perché?
– E’ malato.
– Mi dispiace. Che cos’ha?
– Polio. Non cammina. Non può fare niente da solo.
– Dev’essere terribile.
– Sì lo è.
– Da quanto tempo è così?
– Da tanto. Da bambino però stava bene.
– Perché dovrei leggere per lui?
– Non devi fare proprio niente. Mio fratello non ha altro svago che la lettura, ma non può leggere da solo.
– Perché?
– Non può girare le pagine. Quindi se ti va di farlo, fallo. Se non ti va non è un problema.
Sofia abbassa gli occhi sulle volute dell’inferriata e li rialza. – Perché proprio io?
– Perché ti piace leggere.
– Che ne sai che mi piace leggere?
– Ti vedo. – Mario indica i rami più alti di una grossa quercia che si trova sul confine tra il terreno dei Martini e quello dei Viganò. C’è un muro tra le due proprietà, ma l’albero lo sovrasta di parecchi metri. – Da lassù.
Sofia alza gli occhi e si lascia prendere da un senso di vertigine. Le cime dell’albero si muovono pigre contro il cielo azzurro di fine agosto. E’ una sensazione di infinito che alla ragazza quasi fa girare la testa. – Non hai paura?
– Di cosa?
– Di cadere, per esempio.
– Perché dovrei cadere?
– Perché dagli alberi si cade.
– Non io.
– Ah – fa Sofia scettica. – E perché tu no?
– Perché l’albero è amico mio.
Sofia guarda Mario con aria stupita, poi scoppia in una risata. Mario pensa che nulla possa essere più piacevole. Ha cercato di descrivere a Davide il sorriso della ragazza almeno una dozzina di volte, ma ora che se lo trova davanti tanto vicino, capisce che non si è mai avvicinato davvero alla realtà. L’emozione che sta provando adesso non si può raccontare a parole.
– Allora?
– Allora che? – fa Sofia.
– Leggerai per mio fratello?
Sofia fa spallucce. – Se i tuoi sono d’accordo, non credo che ci sarà niente di male.
I Martini sono d’accordo. Mario credeva che sarebbe stato più difficile convincerli. Invece basta una sola richiesta perché mamma e papà Martini accettino di ricevere in casa Sofia, di portarla al capezzale del loro figlio maggiore, di permetterle di leggere per lui, forse di turbarlo. L’unica contraria è nonna Clara, mamma di papà Pietro. Lei da quell’orecchio non ci vuole sentire. Secondo lei è sconveniente che una ragazza vada in casa di un ragazzo, e poco importa che il ragazzo in questione non sia in grado di muovere altro che la testa. E’ un’opera di carità, ma lei si rifiuta di considerarlo tale. Non vuole qualcuno che venga a curiosare in casa per poi riferire al prossimo. A maggiore ragione se c’è un ragazzo disabile come Davide. Che poi lei di Davide non parla mai. Ne parla solo per dire ciò che sta o non sta bene. Non sta bene che gente venga a trovarlo, non sta bene che lui stia fuori dove tutti possono vederlo, non sta bene che si parli della sua malattia a tavola, non sta bene che se ne parli lontano dalla tavola. Ogni volta che la vecchia affronta l’argomento Davide, lo fa perché vi è costretta. Ne parla con distacco, come se non fosse nemmeno suo nipote. Ne parla solo con i parenti più stretti, mai con le amiche che ogni tanto vengono a trovarla per una partita a canasta. Tanto che molte di loro nemmeno sanno che Clara ha un nipote “guasto”. Sì, è così che nonna Clara definisce Davide: guasto. Come si direbbe per un mezzo meccanico in panne. E con questo modo di dire Clara toglie ogni umanità al nipote, spogliandolo di ogni affetto. Probabilmente non lo fa con cattiveria, per lei è solo un atto di difesa. Tuttavia questo atteggiamento non ha impedito ad Anita di prendere le distanze da lei e trattarla come una vecchia megera. Mamma Anita è all’opposto. Ama suo figlio nonostante la malattia. Anzi, se possibile lo ama ancora di più, perché il suo senso di protezione materna con lui si moltiplica all’ennesima potenza. Davide, il suo cucciolo sfortunato che ha bisogno di tutto. Perfino di qualcuno che gli ricordi di respirare. Per questo quando Mario le ha proposto di far entrare in casa Sofia, lei nel suo cuore ha subito accettato. Ne avrebbe parlato con il papà, anche se già conosceva la risposta. E la nonna che si mettesse in pace l’animo: in fondo Davide non è figlio suo. E, a ben pensarci, nemmeno la casa è la sua.
Sofia mette piede in casa di Davide il giorno dopo la richiesta. Mamma Anita, più emozionata della ragazzina, ha tirato Davide a lucido. Lo ha lavato, gli ha cambiato le coperte e il pigiama, lo ha pettinato. Gli ha messo perfino due gocce del profumo di papà Pietro, quello che usa solo nelle grandi occasioni perché costa un occhio della testa. Le ha fatto trovare una bella fetta di pane e marmellata sul tavolo di cucina e un bicchiere di aranciata. Sofia mangia con calma, composta come sua madre le ha insegnato di fare quando si trova in casa altrui. Risponde alle domande di Anita con garbo, dicendo quello che è il caso di dire, sottolineando ciò che è bene sapere, tacendo tutto il resto. Poi, finito il pane, finite le chiacchiere, può incontrare Davide.
E così Davide conosce Sofia di persona. La conosce già attraverso gli occhi del fratello, che quasi ogni giorno si arrampica sulla quercia per vederla, e ora quasi non crede ai propri occhi. Sofia è ancora più bella di quanto Mario è stato capace di raccontare. Ma la bellezza non si racconta. Come puoi far capire a un cieco quanto è bello il sole? Puoi al massimo fargli sentire il calore sulla pelle. E Davide, sebbene Sofia non sia affatto calda come il sole, ha la sensazione che la pelle del suo corpo sia calda e bruci come la superficie di una stella.
Sofia si avvicina al letto. E’ intimidita, in imbarazzo. Ma solo perché non sa cosa dire. E allora dice la cosa più ovvia: – Ciao.
– Ciao – risponde Davide. La voce gli esce un po’ strozzata. Come se gli fosse andato di traverso qualcosa.
– Come ti senti? – Sofia si morde un labbro. Pensa di aver fatto l’unica domanda che forse non avrebbe dovuto fare. Chiedere come si sente a uno che non ha la sensibilità nel 90% del corpo non è certo come fargli un favore.
Ma Davide c’è abituato. E si limita a rispondere con una bugia. – Bene.
– Io sono Sofia. – La ragazza tende la mano e raccoglie quella di Davide. E’ fredda, molliccia e sembra pesantissima. La lascia ricadere e si vergogna per essere tanto maldestra. Lui fa una smorfia che sembra di dolore. In realtà è solo la rabbia di non poter sentire il calore della pelle di Sofia, di non poterle stringere quelle dita affusolate.
– La faccia – fa Mario. Sta seduto sul davanzale della finestra aperta. L’aria gli scompiglia appena i capelli.
Sofia si volta verso di lui. Non ha capito.
– Toccagli la faccia – dice Mario. – E’ sensibile solo lì.
La mano di Sofia si alza e sfiora una guancia di Davide e Davide si commuove. Resta in silenzio, muto come se anche la lingua adesso si rifiutasse di obbedire. Guarda Sofia come se tutta la bellezza del mondo si fosse condensata nel suo viso. E lei percepisce lo sguardo su di sé, lo sente arrivare nel profondo dei suoi occhi, lo sente scivolare addosso come se davvero la stesse toccando, la stesse sfiorando con le sue dita. Sente calore. E questo la fa arrossire. Distoglie lo sguardo da Davide e lo punta su Mario, che osserva la scena impassibile. Sembra che stia pensando a qualcosa di indefinito, come se non fosse lì. Ha imparato ad non guardare ogni volta che entra nell’ambito più privato del fratello, come quando tocca a lui pulirlo se si sporca. Ha imparato a entrare e uscire come se fosse casa sua, senza registrare nulla. Sofia invece non sa niente di tutto questo e lo fissa perché allenti la tensione. Mario però non fa nulla, si limita a ricambiare lo sguardo. Tocca a lei essere capace di entrare nella sfera oscura di Davide.
Sofia prende il libro che sta appoggiato sul comodino di Davide e se lo rigira tra le dita: “Notre Dame de Paris”. – Stai leggendo questo?
Davide annuisce. La testa è l’unica cosa che può muovere. I muscoli del collo ancora reagiscono, come quelli della respirazione.
– Io l’ho letto due volte.
– E’ bello – osserva Davide. Fissa le mani della ragazza, che toccano la copertina.
– E’ triste – risponde Sofia. Le sue dita sottili scorrono le pagine senza fretta.
– Mi piacciono le storie tristi – ribatte Davide.
– Perché?
– Perché sono reali. Sono credibili.
– Lo sono anche le storie a lieto fine.
– Non ci sono storie a lieto fine nella realtà. Per questo non le trovo credibili.
– Sbagli – lo riprende Sofia. – Anche una storia triste può avere dei risvolti positivi.
Davide la guarda accigliato. Arrossisce per un sentimento di rabbia che sale su dal profondo della pancia. Non gli era mai capitato che qualcuno lo contraddisse in modo così deciso. E la cosa lo fa infuriare. – Che vuoi saperne tu di storie tristi?
– Quello che c’è da sapere.
– Dici così per compatirmi. Ma io non ho bisogno di essere compatito – Se potesse, Davide griderebbe. Ma non può gridare e il suono di quelle parole esce come il sibilo di un bollitore rotto.
– Sei tu che ti compatisci a dire così – sentenzia Sofia.
– Vattene – dice Davide cercando ancora di alzare la voce. – Vattene via di qui.
Sofia Si volta verso Mario e Mario vede negli occhi della ragazza il panico. Quello sguardo di supplica gli chiede un silenzioso aiuto e al tempo stesso dice che vorrebbe tornare indietro e rimangiarsi le cose che ha detto.
Mario scende dalla finestra e si avvicina per calmare il fratello. Gli pone le mani sul viso, lo accarezza, gli sussurra che va tutto bene. Ma ogni parola, ogni gesto è inutile. Davide è partito per la tangente, e la sua tangente sfiora il limite dell’isteria.
– Vai – dice Mario a Sofia. Non lo dice con rabbia, nemmeno con disprezzo. Lo dice come se in quel momento fosse l’unica cosa sensata da fare. E nel dirlo indica la porta della stanza con il mento.
Sofia, le lacrime agli occhi, chiede scusa a bassa voce per qualcosa che non ha capito di aver commesso. Ma chiede scusa a Mario, non a Davide, e questo peggiora la situazione. Se ne va. E Davide piange. Piange di un pianto feroce, che diventa ancora più atroce nell’impossibilità per lui di asciugarsi le lacrime da solo.
– Basta – fa Mario. Passa un fazzoletto sugli occhi bagnati di Davide. – Smettila adesso.
Mario sente mamma Anita dire qualcosa a Sofia, sente un singhiozzo della ragazzina in risposta e il tonfo sordo della porta d’ingresso. Due secondi dopo Anita è nella stanza dei figli. Mario cerca di calmare il fratello, di asciugargli le lacrime. Fatica lei stessa a non mettersi a gridare per la nuova crisi del figlio più grande. – Che c’è, tesoro? Che cos’è successo?
Tra le lacrime Davide dice che non vuole più vederla. Non vuole più vedere nessuno. Mai più. Nemmeno attraverso gli occhi di qualcun altro.
Lucca è splendida d’estate. Gli alberi sulla cinta di mura che la circonda formano una nuova barriera ancor più impenetrabile, fatta di un verde intenso, di un frinire di storni e di allodole, di rondini. Difficile, passando lungo i viali, non voltare lo sguardo. Ragazzini in bicicletta si scambiano gli stessi raggi di sole dei vecchi dalle caviglie pallide che si siedono sulle panchine con gli occhi chiusi, pensando che anche questa guerra se n’è andata lasciandoli liberi di morire tra le loro mura. I segni sono rimasti sulle case come ematomi che ancora devono essere assorbiti ma non fanno più male. I lucchesi si muovono nelle loro vie, tra una piazza e l’altra, passando dal mercato dell’Anfiteatro al teatro nuovo del Giglio. Dentro le mura la gente ha l’aria di chi si sente al sicuro, a casa. Fuori l’odore dei campi si mescola a quello di una città che si espande, che cresce masticando terra che sa ancora di polvere da sparo. E tra questi campi, poco lontano dalla linea delle mura, sui fili del bucato, in mezzo alle poche case, il vento non agita più vesti da contadino, ma giacche, cravatte e tute da lavoro. E in una di queste case, da una delle finestre che puntano a ovest, verso il Serchio, verso la sera, un ragazzo guarda sventolare la tuta del padre e ricorda che quando era bambino le cannonate non facevano poi così tanta paura. Cinque anni e ancora era uno come tutti gli altri. Poteva infilarsi in cantina, sotto le scale, a sbucciarsi le ginocchia sul pavimento di terra battuta, senza capire perché era costretto a sbucciarsele così, invece che cadendo per la foga di una corsa dietro a una palla o a un cerchio. La paura è venuta dopo, quando le cannonate non facevano più vacillare la fiammella delle candele. La paura è venuta portata dal vento, invisibile, chissà da dove. E la paura è diventata certezza. L’aria ha portato con sé un nemico ancora più subdolo di tutti quei soldati che passavano a rastrellare casa per casa, a razziare formaggio e pane, quando c’erano. Almeno quelli si vedevano, pensa Davide. Ciò che non si vede fa peggio. E quando era arrivata la febbre, con tutti quei dottori che non capivano, che scuotevano la testa e parlavano a bassa voce tra loro, era arrivato anche il momento di fare i conti.
All’inizio era stato come un raffreddore comune. Poi le dita di mani e piedi avevano cominciato a perdere sensibilità, come se fossero rimaste in una posizione scomoda troppo a lungo. Avevano cominciato a bruciare, poi a non rispondere più. I medici avevano cominciato a parlare della polio. Qualcosa di cattivo, meschino, come se i tuoi stessi soldati si ribellassero e all’improvviso attaccassero le stesse contrafforti che fino a qualche istante prima erano pronti a difendere a costo della vita. I muscoli si erano come addormentati, ritirati. Le gambe e le braccia avevano perso ogni capacità di muoversi, ogni sensibilità. Si erano fatte smunte, pallide, cascanti. I tendini, trovatisi slegati dal dominio dei muscoli, avevano tirato la pelle dove faceva loro più comodo e ciò che alla sera aveva ancora un aspetto normale, al mattino seguente poteva essere irriconoscibile.
E’ stata dura accettare la nuova realtà. Vedere il mondo solo da una finestra, toccare gli oggetti solo con gli occhi, correre in un prato solo con la fantasia. La tuta da lavoro del padre è sempre la stessa, solo un po’ più rammendata, un po’ più sbiadita, ma assolve ancora al suo compito. Davide no. Non è lo stesso. E’ sgualcito come la tuta di suo padre, ma lui non serve più a niente. E anche suo padre si è sgualcito con il tempo. Come sua mamma Anita. Come la nonna, che a volte blatera frasi senza senso e dice che per lei qualsiasi cosa sta male farla. La malattia di Davide ha segnato tutti coloro che gli stanno intorno. Anche Mario. Lui nato molti anni dopo Davide, come se mamma e papà volessero accertarsi che la guerra fosse davvero finita prima di mettere al mondo un altro figlio. Quando è nato Davide era già paralizzato. E l’abitudine di vedere il fratello in quello stato, ha sgualcito anche Mario. Non è uno che parla tanto. Piuttosto che socializzare preferisce starsene da solo sulle cime degli alberi. Osserva le vite degli altri, piuttosto che viverne una tutta sua. Mario lo fa per scelta. Davide c’è costretto. Per questo quando Sofia è entrata nella sua stanza ha avuto quella reazione. E’ stato come sbattergli davanti ciò che lui non è più, e allo stesso tempo ciò che lui vorrebbe e non può avere. Per Mario invece Sofia è qualcosa che ancora non ha voglia di comprendere, qualcosa che ancora non desidera. Lo farà presto, però. E non avrà alcun impedimento. E se non sarà Sofia, sarà un’altra Sofia. E questo a Davide fa rabbia.
Sofia non voleva offenderlo. Sofia voleva scuoterlo, farlo reagire. E in qualche modo c’è riuscita. Lei, che non sa niente di lui, ha avuto la forza di colpire più a fondo di chi con lui ci sta tutti i giorni. La reazione che ha suscitato non è stata solo di pianto. Davide guarda le nuvole che scorrono oltre il filo del bucato. La tuta che ci sta attaccata sembra un danzatore straniero. Il canto delle cicale riempie la calura. Sofia. Davide pensa a lei e si sente mancare l’aria. Spinge i polmoni a pescare il respiro più profondo di cui è capace e gli sembra di sentirsi meglio. Si guarda le mani, quelle che il giorno prima lei ha toccato senza che lui potesse sentirla. Sono piccole, le dita richiuse su se stesse. Sembrano le mani di un pollo. E in quella casetta ai margini dei campi che quest’anno, come lo scorso e quello prima ancora, nessuno ha arato, di fronte alla finestra che guarda il sole scendere e scomparire dietro al monte Quiesa, Davide si sente sbagliato. Ma sa anche che c’è qualcosa che può fare per correggersi.
Mario entra nella stanza quando il ballerino appeso al filo smette di dimenarsi. Ha le mani sporche, le ginocchia graffiate.
– Voglio chiederle scusa – fa Davide.
Mario si mette seduto davanti alla finestra. Non sembra sorpreso. – Potevi farlo ieri.
– Puoi chiederle di tornare?
– Non credo che verrà.
– Che ne sai? Le hai parlato?
– No.
– L’hai vista?
– Sì.
– Cosa faceva?
– Leggeva il suo libro.
– Aveva il vestito bianco anche oggi?
Mario si alza, sospira. E’ stanco di rispondere alle stesse domande tutti i giorni. – Non ho guardato. Hai bisogno di niente?
Davide non risponde. Guarda fisso fuori della finestra. Il ballerino ha ripreso a muoversi pigramente, come se fosse stanco anche lui.
Mario fa spallucce e apre la porta.
– La amo – fa Davide.
Mario si blocca sulla soglia e si volta appena indietro. Non fa domande, ma Davide percepisce ugualmente la perplessità del fratello.
– Ne sono innamorato. – Davide fatica ad ammettere i suoi sentimenti. Da quando è bloccato a letto li ha esternati solo con manifestazioni fisiche, senza mai parlarne.
Per questo Mario è stupito.
Torna indietro, siede sul letto accanto al fratello, gli carezza la fronte. La stanza sta assumendo i colori del tramonto. Nel cortile si affaccia il furgoncino di papà. Mario lo riconosce dal rumore e dallo sferragliare delle sponde del cassone. Tra poco sarà pronta la cena e non c’è più tempo. Ma domani. Sì, domani si può fare.
Mario dice così ed esce. A Davide si bagnano gli occhi di nuovo. E adesso non ha più nessuno che li asciughi.
Noi e loro. Questo pensa Mario quando si avvicina al cancello di Sofia. Noi uomini e loro donne. Non siamo uguali. Ma lo siamo di fronte ai sentimenti più puri come l’amore. E’ un pensiero complesso per un bambino. Che ne sa un bambino dell’amore? Ne sa quanto ne può sapere della morte o della sofferenza. Mario è nato dopo la guerra e la morte non l’ha vista in diretta. Ma sa che cos’è la sofferenza. Ci vive a contatto ogni giorno. Questo lo autorizza a sentirsi diverso dagli altri, a volte ha la sensazione di essere più grande di quelli della sua età. Poi si ritrova a giocare al pallone nel campetto della parrocchia, a subire le angherie dei compagni davvero più grandi, e allora sa che non è così. E si sente piccolo. Ed è così che si sente di fronte a Sofia, mentre si avvicina al cancello. Piccolo di età, in quei suoi nove anni quasi dieci, e piccolo di statura in quei calzoncini che se non fosse per le bretelle sarebbero già caduti mille volte.
– Ciao.
– Ciao.
Mario non è abituato a girare intorno agli argomenti. E’ venuto perché ha qualcosa da dire. Altrimenti se ne sarebbe rimasto sul suo albero, nascosto tra le foglie. – Mio fratello vorrebbe chiederti scusa.
– C’ho pensato anch’io – fa Sofia. Con una mano si protegge gli occhi dal sole. – E’ stata colpa mia ieri, non dovevo dire quelle cose.
Mario fa spallucce.
– Davvero, mi dispiace. Sai, tuo fratello è così…
– E’ malato.
– Non volevo dire quello. E’ così indifeso.
Mario guarda la ragazza e non nasconde la perplessità.
– Io nemmeno lo conosco. Non dovevo comportarmi così.
– Non importa più.
– Chissà cosa avrà detto tua mamma.
– Non ha detto niente. – Mario indica casa sua. – Vuoi venire adesso?
Sofia annuisce con decisione. – Prendo qualcosa per tuo fratello. Voglio portargli un pensiero per farmi perdonare.
– Non serve. Ti ha già perdonata.
– Gli porto un libro, eh? Che dici? Uno di quelli che tanto ho già letto. Che libro potrei portargli?
– Se tu leggessi per lui, sarebbe già abbastanza.
Anita accoglie Sofia come la figlia che non ha avuto. L’abbraccia nonostante il suo vestito sia sporco di farina. Le chiede come sta senza fare alcun riferimento al giorno prima, quando l’ha vista scappare in lacrime attraverso la porta della cucina. Le offre di nuovo pane e marmellata, ma stavolta la ragazza rifiuta con gentilezza. Non ha fame. Il fatto di rivedere Davide la rende nervosa. Non sa come affrontare il suo disagio. Sa che non deve trattarlo come una persona menomata, ma non può nemmeno fare finta che sia normale. Solo il giorno prima ci ha provato ottenendo risultati disastrosi.
Davide sta seduto sulla sedia a rotelle, di fronte alla finestra.
Mario lascia entrare la ragazza, richiude la porta e li lascia soli. Non perché si senta in imbarazzo a restare, ma perché la premura di tornare a guardare il mondo dal suo albero ha il sopravvento. E, in cuor suo, non ha nemmeno troppa voglia di assistere a una scenata come quella del giorno prima.
Sofia resta ferma davanti alla porta. Si sente nuda. Davide non le dice nulla. Fissa qualcosa fuori della finestra, come ipnotizzato dalle cicale che friniscono.
Le ci vuole qualche istante in più di quello che aveva immaginato per salutarlo. E lui impiega qualche istante in più del dovuto per ricambiare. Alla fine gli sguardi si intrecciano e il momento delle scuse si risolve subito. Nessuno ha rancore nei confronti dell’altro. Sofia si mette tra Davide e la finestra, e si gode l’aria fresca che entra liberamente. – Ieri ero venuta per leggerti qualcosa.
– Ma non te l’ho lasciato fare, vero?
Sofia abbozza un sorriso di ammissione. – Posso farlo oggi. Se ti va.
Davide indica il libro sul comodino. – Pagina centotrentacinque.
La ragazza prende il libro, torna alla finestra e lo sfoglia per cercare la pagina. – Io faccio le orecchie per tenere il segno.
– Con le orecchie i libri si sciupano. C’è bisogno di rispetto.
La ragazza appoggia la schiena al davanzale e comincia a leggere.
– “«No, no», disse, «il gufo non entra nel nido dell’allodola». Allora ella si accovacciò graziosamente sul suo lettino, con la capra addormentata ai piedi. Entrambi rimasero per qualche istante immobili, intenti ad osservare in silenzio, lui tanta grazia, lei tanta bruttezza. Ad ogni momento, ella scopriva in Quasimodo qualche nuova deformità. Il suo sguardo andava dalle ginocchia storte alla schiena gobba, dalla schiena gobba all’unico occhio. Non poteva capire come facesse ad esistere un essere così goffamente abbozzato. Tuttavia, su tutto quell’insieme, c’era sparsa tanta tristezza e tanta dolcezza ch’ella cominciava ad abituarvisi. Egli ruppe per primo quel silenzio: «Mi dicevate dunque di ritornare?».
Ella fece col capo un cenno affermativo, dicendo: «Sì». Egli capì il cenno del capo.
«Ahimè!», disse come esitando a continuare, «il fatto è… che sono sordo». «Poveretto!», esclamò la zingara con un tono di benevola pietà. Egli si mise a sorridere dolorosamente.”
Sofia alza gli occhi dal libro – Perché non andiamo fuori?
– Non mi va – risponde Davide accigliato. – Continua.
– E’ una giornata così bella, calda – insiste Sofia. – Non ha senso stare in casa.
– Non ha senso per te, forse. Per me lo ha. Non devi per forza fare qualcosa per me – la rimprovera Davide. – A me va bene se stai qui, ma non c’è bisogno che tu faccia a tutti i costi qualcosa per me.
– La mia è solo una proposta – si risente Sofia.
– Apprezzo, ma non importa. Non mi va. Punto.
– Non è possibile che non ti vada niente. Ci dev’essere qualcosa che ti piacerebbe fare.
– Andare a cavallo.
– Qualcosa che puoi fare – specifica Sofia e subito si morde la lingua. – Scusami, non volevo…
– Non posso fare niente. Ecco perché non faccio niente. Tutto ciò che vorrei fare resta solo un desiderio per me. Per cui se ti va leggi ancora quel libro. Se non ne hai più voglia lo capisco. Allora vai pure.
– Non sono stanca – fa Sofia. E riprende a leggere da dove si era interrotta. – “«Trovate che non mi manca altro che questo, non è vero? Sì, sono sordo. Sono fatto così. È orribile, vero? Siete così bella, voi!». C’era nel tono del miserabile un senso così profondo della sua miseria che ella non ebbe la forza di dire una parola. D’altra parte non l’avrebbe udita. Egli continuò: «Non ho mai visto la mia bruttezza come la vedo ora. Quando mi paragono a voi, ho proprio pietà di me, povero mostro disgraziato quale sono! Dite, vi devo fare l’effetto di una bestia. Voi siete un raggio di sole, una goccia di rugiada, un canto d’uccello! E io sono qualcosa di orribile, né uomo né animale, un non so che di più duro, più calpestato e più deforme di un sasso!»”.
– Luna park – dice Davide all’improvviso.
Sofia abbassa il libro e mette una mano tra le pagine per non perdere il segno. – come dici?
– Mi piacerebbe andare al luna park.
Sofia guarda Davide con un misto di compassione e rassegnazione. – Non ci sei mai andato?
– No. I miei non mi ci portano perché si vergognano di me.
– I tuoi non si vergognano di te.
Davide sorride. E’ un sorriso che si apre sulla sua faccia come una ferita. – Si vergognano eccome. Non mi hanno mai portato da nessuna parte. Questa stanza è il mio mondo. Non esco nemmeno in giardino perché dicono che basta poco per farmi prendere un raffreddore. E un raffreddore per me sarebbe molto pericoloso. Ma è solo una scusa.
– Forse invece è vero. Perché dici così?
– Perché tengono la mia finestra aperta tutto il giorno. Se fosse vero, la terrebbero chiusa, non credi?
Sofia rivolge un’occhiata alle ante spalancate e ricorda che anche il giorno prima la finestra era aperta. – Non lo so, forse non vogliono che soffri il caldo. Non è giusto che li accusi di qualcosa che non puoi dimostrare.
– Vorrei andarci al luna park – taglia corto Davide. – Pensi che potresti accompagnarmi?
Sofia sente morire le parole in gola. Sospira.
Davide non ha mai visto un luna park. Davide non ha mai visto niente che non sia il soffitto della sua stanza. Eppure ha visto quasi tutto. Visto attraverso gli occhi di Mario, il cui amore per il fratello gli ha permesso di sviluppare una capacità di osservare il mondo unica. Così adesso gli sembra quasi doloroso non aver bisogno di immagazzinare nessuna informazione. Davide sta seduto sulla sedia a rotelle e ruota gli occhi a destra e a sinistra, la bocca spalancata per lo stupore. Mario sa che per quanto possa essere stato abile nel raccontare il mondo, il mondo non può essere tenuto chiuso in una descrizione. E nemmeno in una stanza. Perché se anche il corpo di Davide non risponde ai comandi del cervello, la mente è viva e senza confini. Ride, Davide, e rotea gli occhi. Mario e Sofia, dietro di lui, spingono la carrozzina e sorridono. Sanno che quel regalo segreto ha per il ragazzo un valore incalcolabile.
Il luna park è un tripudio di luci, di suoni, di odori. All’odore della ghiaia calpestata di fresco, alla polvere sottile, si unisce quello del croccante delle bancarelle, o dello zucchero filato. Gli stand e le giostre hanno la musica, mentre le ragazzine ridono in branchi osservate dai ragazzi appoggiati ai motorini. La grande ruota sovrasta lo spiazzo e gira come una nuvola nel vento. Sofia la guarda a lungo mentre spinge la carrozzina. Mario capisce che le passa un pensiero per la testa e sa anche di cosa si tratta.
– Pensi che si possa fare? – domanda Sofia.
– E’ pericoloso – osserva Mario. Ma non è convinto e Sofia lo sa.
– Non più di quello che stiamo facendo – ribatte la ragazza.
– Lo facciamo solo perché mamma e papà sono fuori. E ricorda i patti: un’ora al massimo.
– Un giro dura molto meno di un’ora – insiste Sofia. Indica una delle cabine che sale verso l’alto. Dentro c’è una famiglia di quattro persone. – Ci portano anche i bambini. In fondo non c’è che da stare seduti con le cinture allacciare. Che rischio vuoi che ci sia?
Mario non può darle torto. E’ solo l’abitudine di sentire in famiglia sempre le stesse parole: “questo a Davide no perché fa male, quell’altro è pericoloso, quell’altro ancora è sconveniente”. E’ l’abitudine di tenere sempre a mente che se si può fare a meno di una cosa non serve farla. Mario ha sempre pensato che sia una cosa stupida, ma non ha mai trovato il coraggio di dirlo in casa. E a pensarci bene nemmeno fuori. Non lo ha mai detto a nessuno perché nessuno lo ha mai detto a lui. E adesso che Sofia gli mette davanti tutta l’evidenza, sente il viso avvampare.
– Non ho i soldi – ammette Mario.
– Ce li ho io – fa Sofia.
Mario arrossisce ancora di più. – Non posso ridarteli.
– Non voglio che me li ridai. E’ un regalo.
La ruota si è fermata per lasciar scendere i passeggeri e farne salire di nuovi. Un uomo elegante si offre di aiutare le signore. I suoi sono gesti teatrali, al limite del grottesco. Ma alle signore piacciono. Una comincia a ridere e Mario ha l’impressione che stia per collassare. – Sempre che lo lascino salire – commenta.
Il pessimismo a volte non va d’accordo con la realtà. Il tizio elegante, che comanda la grande ruota, non batte ciglio sulle condizioni di Davide. Mario pensa che Davide non sia il primo ragazzo disabile che sale sulla ruota. E’ la conferma che il mondo può andare avanti anche infrangendo le regole a cui da sempre è stato abituato.
Pagano solo Mario e Sofia. Davide può salire gratis. L’uomo lo solleva delicatamente dalla sua sedia e lo depone sul sedile della carrozza che da lì a qualche istante lo porterà a sfiorare il cielo. Davide siede al centro. Mario alla sua destra e Sofia alla sinistra. Si sente come un piccolo re. E poco importa che il suo regno non sia più grande del suo corpo. Guarda in basso. La sedia a rotelle si allontana sempre più in fretta e così le persone. Si fanno piccole e a lui sembra di volare. La città si spande sotto ai suoi occhi. Le luci vacillano, scompaiono dietro agli alberi che torreggiano sulle Mura e tornano a mostrarsi un poco più piccole. Il brusio del luna park si affievolisce, si perde in quello della città. Le voci e le musiche si mescolano ai rumori lontani del traffico. Nell’aria della notte si levano solo i piccoli sbuffi di polvere dei passi sulla terra e il fumo dei baldacchini del croccante e dello zucchero filato. L’aria diventa sottile all’improvviso, si infila nei capelli e nel colletto e fa venire i brividi. Davide tira indietro la testa e ride. Mario non ricorda di averlo più visto ridere da quando ha avuto inizio la malattia. E la risata di Davide lo contagia. E contagia anche Sofia, che non si trattiene più, pervasa da un’emozione così forte da stordirla. Le piace essere con Davide nel momento più felice per lui degli ultimi anni e, forse, di quelli a venire. Adesso accanto a lei non c’è più un ragazzo malato, ma uno che ha voglia di vivere e ridere. Come tutti gli altri. Il corpo non è più una prigione. Non lo è mai stato per la mente e nemmeno per i sentimenti. Adesso Davide è libero di essere ciò che vuole essere. Di sentirsi parte di un mondo che lo ha escluso.
La grande ruota si ferma per qualche istante, con la carrozza dei tre ragazzi sospinta fino al punto più alto. Un palloncino sfuggito a qualcuno si impenna di colpo sui tendoni dei giochi, sbanda a una folata di vento, sale con piccole spinte. La luce si riflette sulla sua superficie lucida e Davide lo guarda a bocca aperta fino a che si perde nel cielo nero. Poi la ruota torna a scendere e Davide vede di nuovo la sua sedia a rotelle. La sua realtà, la sua gabbia che si avvicina inesorabile. Un morso gli stringe la gola. Sofia se ne accorge e gli stringe una mano anche sa che Davide quella stretta non potrà ricambiarla mai. Lo sente fremere a ogni metro di discesa, lo sente ridere forte. Ma non è come una risata, è qualcosa che Sofia non sa riconoscere. Qualcosa per cui è costretta a girarsi. E allora vede Mario sopra al fratello. Non capisce subito cosa gli stia facendo, vede solo che gli ha messo le mani attorno alla bocca e spinge le dita dentro. Capisce solo in quel momento che Davide sta avendo un attacco epilettico.
Il momento migliore per rivivere i ricordi è lo stesso in cui dare vita ai sogni. Spesso i ricordi contendono ai sogni il posto d’onore sul cuscino, quando la lampada si spegne e resta solo il vago bagliore della finestra, che si fa sempre più distinta via via che gli occhi si abituano al buio. E i ricordi a volte sono quelli cattivi. Quelli che non lasciano dormire perché il dolore è troppo grande.
Mario si volta verso il fratello, che ora sta dormendo. Nella stessa sera è passato dal momento più felice della sua nuova vita, a quello più critico. E la colpa è solo sua. Questo gli hanno rimproverato mamma e papà. Ma loro non capiscono fino in fondo, vedono solo il lato oscuro delle cose.
I giorni seguenti passano così, come se niente fosse. Le solite cose quotidiane. La solita gita ai rami più alti degli alberi, le punture a Davide, gli impacchi, i soliti tentativi di fargli riacquistare la capacità di gestire i movimenti. E i suoi silenzi, sempre più rumorosi, opprimenti. Sta di fronte alla finestra tutto il giorno. Nessuno sa cosa gli passi per la testa, nemmeno Mario. Mamma Anita non fa altro che preoccuparsi dei soldi che non bastano mai per comprare le medicine per Davide. Papà Pietro non fa altro che lavorare. Nonna Clara sta sempre fuori, sotto il portico, e lontana dal suo solito senno. Parla da sola, non comprende quello che dice nemmeno lei. Sofia non è più tornata a leggere il libro di Davide, così non gliel’ha letto più nessuno. Il viaggio si è interrotto a metà. E’ successo anche con la sua vita. E lì, a ben pensare, il viaggio era appena all’inizio.
Sofia. E’ rimasta tutti questi giorni chiusa in casa. I suoi l’hanno punita per aver fatto correre a Davide un rischio così grande. Mario quando è salito sul suo albero, ha sentito le urla del padre e lei che piangeva e gridava che non aveva fatto nulla di male. Ma lui non ne ha voluto sapere. Le ha proibito di tornare in casa dei Martini. Ha anche detto che non sono una famiglia adatta ai Viganò, che certe frequentazioni si trasformano in chiacchiere poco costruttive. Quindi basta. E così lei non si è più fatta vedere.
Mario l’ha intravista solo una volta, una domenica, mentre uscivano di casa al mattino per andare alla messa. Aveva addosso un vestito color cielo, lungo ma leggero, le spalle coperte anche se il caldo era ossessionante.
Davide chiede tutti i giorni di lei. Anche di domenica. L’ha vista solo due volte in vita sua, ma l’ha vista nella sua stanza, che è il suo mondo, ed è stato come se l’avesse sentita dentro al suo corpo. Per questo adesso le manca. Come gli manca l’uso delle braccia o delle gambe. L’unico sollievo all’assenza è la speranza che, passata la rabbia, i suoi le permettano di tornare.
Dalle cime degli alberi si vede Lucca. Si vedono le mura, i bastioni, i platani che le fanno da corona. Si vedono anche i lucchesi, sulle loro biciclette, sui carri trainati dai buoi, a piedi. Sono piccole macchie di colore che sembrano non avere importanza. Eppure sono il cuore pulsante di una città che risorge lentamente, che si lecca le ferite, che guarisce dal male oscuro che ha colpito tutta l’Europa. Il mondo impazzito è tornato ad essere un luogo accogliente. A vedere le cose da lassù, non c’è da preoccuparsi. Forse è per questo che Mario sente il bisogno di arrampicarsi. Eppure oggi è il giorno in cui le cose cambiano. E’ il giorno in cui neppure dalle cime degli alberi si è al sicuro dalle delusioni.
C’è fermento nel cortile di Sofia. Un camioncino come quello di papà, ma con il cassone chiuso, è fermo davanti al cortile. Due uomini in tuta, come quella di papà, fanno avanti e indietro portando un sacco di roba. Sponde e testate di un letto, comodini, tavoli e sedie, scatoloni. Papà Viganò, sulla porta, si preoccupa che ai mobili non succeda niente di male e dà indicazioni ai due facchini su dove mettere i piedi. Mamma Viganò si affaccia ogni tanto per chiedere dove mettere questa o quest’altra cosa. Sofia non si vede. Parlano, mamma e papà Viganò, e Mario capisce quel poco che gli basta per sentirsi prendere dallo sconforto. Papà Viganò è un dirigente di banca. La banca per cui lavora apre di continuo nuove nuove filiali in tutta Italia. L’Italia è un paese in crescita, ripete l’uomo ai due operai che non sembrano ascoltarlo. Quindi la sua esperienza è richiesta altrove. Mario non è sicuro di aver capito bene, ma a quanto pare lo vogliono a Milano.
Scendere da quell’albero non è mai stato doloroso come adesso. E Mario sa che risalire non potrà mai esserlo più della prossima volta.
Giù. Piano. Un passo alla volta. Le dita che afferrano i rami più robusti, le gambe nude che abbracciano la corteccia del tronco. L’odore del legno e delle foglie che si insinua nel naso chiuso da lacrime che non vogliono ancora uscire. Giù. Fino a toccare terra. Per mettere fine a un equilibrio che forse non potrà esistere più.
Davide è sulla sedia. Sta accanto al letto, lontano dalla finestra. Mamma e papà non lo dicono, ma credono che la colpa dell’attacco sia dovuta non solo all’emozione della passeggiata sulla ruota panoramica, ma anche e soprattutto dalla presenza di Sofia. Per quanto sia malato, Davide è un ragazzo di sedici anni e in qualche modo, anche se distorto, vive le pulsioni amorose e sessuali di qualsiasi altro adolescente. Mettergli accanto una ragazzina come Sofia non è stata la decisione più saggia, ma la decisione più saggia da prendere adesso è far sì che lui non la riveda. Per questo non lo lasciano davanti alla finestra. Per questo, una volta saputo del trasloco dei vicini, si mostreranno sollevati, anche se dispiaciuti. Mario sa già che diranno che è per il bene di Davide. Ma loro, forse, quale sia davvero il bene di Davide non lo sanno.
Davide non parla. E non parla nemmeno Mario. Non ce n’è bisogno perché Davide sa già tutto. Ha sentito i rumori, il vociare degli operai. Perfino papà Viganò che fischiettava “Oh mia bela Madunina”.
– Se ne va. Vero? – domanda Davide. L’impressione di Mario è che la voce del fratello sia rotta da un pianto imminente. Ma non c’è nessuna lacrima sul viso del ragazzo.
– Sì.
– L’hai vista?
– No.
– Portami alla finestra. Voglio respirare aria buona.
Mario sblocca i freni della sedia a rotelle e spinge il fratello fino a fargli sfiorare con i piedi il muro sotto la finestra. La apre e lascia entrare l’aria. La giornata è nuvolosa. Fa ancora caldo, ma l’estate sta scivolando via. Sugli alberi le prime foglie cominciano a dare segni di resa.
– Viene l’autunno – osserva Davide.
Le nuvole si addensano sulla campagna. Un tuono in lontananza. Fuori papà Viganò alza la voce e si raccomanda ai facchini perché si sbrighino a togliere la mobilia dal cortile. Non fa in tempo a finire di parlare che comincia a scendere una pioggia sottile. L’aria si raffredda di colpo e Mario chiude la finestra.
– Puoi fare una cosa per me? – domanda Davide. Ha gli occhi fissi sull’oleandro che delimita il confine del giardino.
– Che cosa?
– Prima dimmi che la farai.
– Ma se non so che cos’è.
– Dimmi che la farai. Dimmelo e basta.
Mario sbuffa e annuisce. – Va bene.
– La farai?
– Sì.
– Promesso?
– Promesso.
– Non è che poi ti rimangi la parola?
– Non lo farò.
Davide guarda a lungo il vetro della finestra su cui la pioggia adesso si infrange con violenza. Le gocce scivolano verso il basso e sembrano lacrime.
– Il libro. Puoi darlo a lei?
– Va bene. Vuoi che te lo legga prima?
– No, lo conosco già. Tu conosci la storia di Quasimodo?
Mario fa cenno di no con la testa.
– Quasimodo è il campanaro della cattedrale di Notre Dame, a Parigi. E’ deforme, mostruoso, e non si fa mai vedere dalla folla. E’ segretamente innamorato di Esmeralda, una ragazza gitana. Ma di lei si invaghisce anche Frollo, l’arcidiacono, che pur di averla non esita a condannarla per un omicidio che non ha commesso. Quando le offre la salvezza in cambio del suo amore, la ragazza rifiuta e lui la condanna a morte. Lei muore e Quasimodo, disperato, uccide Frollo facendolo cadere da una delle torri della cattedrale. Poi si lascia morire accanto al corpo di lei.
– E’ triste – commenta Mario laconico.
– Lo so. E’ la condanna di chi ama e non può essere amato. Di chi sa cosa vuole, ma non può avere niente. Di chi vive senza senso perché il senso della sua vita è altrove. Io sono come il campanaro, come Quasimodo. E ora che ho trovato Esmeralda me la portano via chissà dove. Non la rivedrò.
– Magari non è così.
– E’ così. E lo sai anche tu.
Mario lo sa. Per questo non insiste.
– Per questo c’è un’ultima cosa che puoi fare. Una cosa che dia un senso a questa cosa che sento dentro e che non mi fa stare in pace. E tu mi hai promesso che lo farai.
– Ti ho promesso che le darò il libro.
– La promessa riguarda anche quest’altra cosa.
– Cosa?
– Fammi morire, Mario.
Un qualsiasi amico o conoscente, perfino un genitore poco attento o un parente non troppo affezionato, penserebbe che Davide stia delirando. Penserebbe a una momentanea mancanza di lucidità. Penserebbe che il male abbia intaccato anche la parte di nervi rimasta integra. Oppure penserebbe a uno scherzo dal gusto orrendo. Ma questo non conta per Mario. Il legame con Davide è a doppio filo e Mario sa che suo fratello non sta vaneggiando o giocando. Davide sta dicendo sul serio. Non è la prima volta che Davide affronta l’argomento con Mario, e Mario sa che Davide si aspetta davvero qualcosa da lui. Così Mario non risponde, come invece farebbe chiunque altro al suo posto. Si limita a guardarlo.
– Io non posso farlo – prosegue Davide. – Non posso fare neanche questo.
– Non posso farlo nemmeno io – risponde Mario.
– Certo che puoi. Lo sai che puoi. E sai anche che lo farai. Perché morire è la cosa che desidero di più. Sai che l’ho sempre desiderato.
Mario annuisce. Lo ha sempre saputo anche se Davide non ne ha mai parlato.
– Sai anche che sarebbe arrivato il giorno in cui te lo avrei chiesto. Perché solo tu puoi farlo. Solo tu puoi capirmi. – Davide guarda il fratello negli occhi. Se non ci fosse la malattia di mezzo, la somiglianza si noterebbe subito. Ma Davide ha le guance affossate, la pelle sottile. Bianca. L’unica cosa che li accomuna sono gli occhi. Bui. Vuoti. Con qualcosa che si agita laggiù, sul fondo. – Non arrogarti il diritto di lasciarmi vivere, se io non voglio. Non tocca a te deciderlo. Non voglio passare il resto dei miei giorni seduto su questa maledetta sedia, aspettando di soffocare nel cuore della notte. E non voglio vivere nel ricordo di qualcosa che ho sfiorato e non ho potuto afferrare.
– Non pensi a Sofia? Che direbbe?
– Sofia parte. Non oggi, forse. Forse neanche domani. Ma parte. E io non posso fare niente per trattenerla. Forse lei mi ha già dimenticato. Come posso credere che lei, a Milano, avrà spazio per pensare a me?
– Non puoi saperlo.
– E questo mi fa male da morire. La morte non è peggiore. Credimi, Mario.
Mario non risponde. Fissa un punto tra i raggi di una delle ruote, senza distogliere lo sguardo. Sa di aver già deciso. Sa che forse aveva già deciso la prima volta in cui Davide gli aveva messo davanti il finale. Così era scritto che dovesse finire e Mario non può sottrarsi. Forse è quello il compito per il quale è stato messo al mondo.
Il pomeriggio è di quelli piovosi. Non di quelli dove l’acqua viene giù a secchiate, piuttosto di quelli in cui il cielo sembra lacrimare. Il grigiore delle nuvole sovrasta le campagne. I canali di irrigazione tracimano per le piogge dei giorni precedenti. Le cicale hanno smesso di frinire, l’erba di frusciare nel vento. Anche Lucca ora sembra un castello infernale, chiuso dalle torri altissime in cui si sono trasformati i platani. E’ l’autunno, che è arrivato in anticipo. Come un segno.
Il cortile di casa Viganò è vuoto. Le finestre hanno le tapparelle abbassate. Due cartelli, uno sulla porta e uno all’inizio del vialetto, recitano: VENDESI. La panchina dove Sofia leggeva i suoi libri è coperta di foglie.
La casa accanto invece ha l’aspetto di sempre. E come sempre papà Pietro è al suo lavoro e mamma Anita chiusa in cucina, si occupa di rassettare dopo il pranzo. Nonna Clara è affacciata alla finestra, ma vede solo ciò che le passa per la testa. Così non vede le due figure che attraversano il cortile passando dalla porta sul retro. Mario spinge la carrozzina di Davide sotto la pioggia sottile e Davide sembra sereno. Oltrepassano il cancelletto che separa l’orticello dalla piena campagna e si inoltrano tra i campi. Nonna Clara li guarda e con il dito segue i loro movimenti sul vetro. Sorride, la nonna.
Mario fatica a spingere, mentre le ruote della sedia a rotelle affondano nella melma. Se Davide potesse aiutarlo lo farebbe. Il campo finalmente si esaurisce in un boschetto di canne. E oltre le canne, il canale. I contadini lo utilizzano per irrigare. Dopo le piogge l’acqua è sul punto di tracimare.
Mario porta la carrozzina fin sul bordo. L’acqua lambisce le ruotine anteriori.
– Ho pensato a questo giorno tante volte, Mario – dice Davide. Il suo sguardo è lontano, si perde nei riflessi delle nuvole sull’acqua che scorre via.
– Anch’io.
– Sapevo che sarebbe arrivato. E lo sapevi anche tu.
– Sì.
– Ti voglio bene, Mario.
Mario blocca le ruote e abbraccia il fratello. Lo abbraccia forte e piange, i piedi immersi nell’acqua. – Ti voglio bene anch’io.
L’abbraccio si scioglie. E’ l’ultimo dolore. Mario torna dietro. Sgancia i freni e a quel punto basta un ultimo tocco. La carrozzina vacilla, pende in avanti e finisce in acqua. Davide si vede per un attimo riflesso sulla superficie. Sorride. Nel posto dove andrà potrà camminare con le sue gambe. Potrà fare tutto ciò che fino ad ora ha solo sognato.
Uno stormo di anatre taglia il cielo in due. Le rane cantano tra le canne. L’ultimo ciuffo di capelli di Davide scompare in un guizzo. L’acqua ci gira attorno come un gatto che annusa il cibo prima di divorarlo. Poi vi penetra in mezzo, li bagna e li appesantisce fino a sommergerli. Restano solo le bolle che salgono in superficie e si infrangono. Dentro c’è l’anima di Davide che se ne sta andando un po’ per volta. Insieme all’amore per Sofia.
Mario siede sulla riva, le mani sulla faccia gonfia dal pianto. Il rumore dell’acqua che incontra un ostacolo gli fa alzare la testa. Una mano emergere come se volesse salutarlo per l’ultima volta. La vede per un attimo, tanto che pensa di aver avuto un’allucinazione. O forse no. Forse Davide ha davvero trovato, nel momento della morte, la libertà di uscire dalla gabbia in cui si era trasformato il suo corpo. O, più semplicemente, la mano è stata sospinta in superficie da un vortice dell’acqua, un vortice che se l’è subito ripresa indietro. Mario si alza in piedi, si avvicina all’acqua. Respira lacrime, sudore e l’odore stagnante del canale. Alza gli occhi. Dall’altra parte qualcuno lo sta osservando. E’ Sofia. Porta l’indice davanti alla bocca e gli fa cenno di non parlare. Ha con sé il libro che non ha finito di leggere a Davide. Lo lascia cadere in acqua, galleggia per qualche istante e poi scompare inghiottito dall’acqua. Non serve parlare. Il segreto resterà una cosa che condivideranno solo loro due. E Davide. Perché sarà con loro. Sempre.