“Delirium” di Laura Veroni


 

Pioveva forte quella notte. ​
Arianna se ne stava acciambellata sul divano dello studio della sua nuova casa, la coperta sulle gambe, mentre osservava con attenzione le cartelle cliniche dei pazienti. Era stata contattata da uno degli ospedali psichiatrici giudiziari, noti, tra gli addetti al mestiere, come OPG, presso i quali aveva inoltrato domanda di assunzione, uno dei pochi istituti in Italia che, a metà degli anni settanta, avevano sostituito i vecchi manicomi criminali. La sua laurea a pieni voti in psichiatria, conseguita, cinque anni prima, presso la prestigiosa Università degli Studi di Milano, e il corso di perfezionamento in Psicopatologia e Psicologia Criminale, sempre con il massimo punteggio, le avevano consentito di balzare in cima alla graduatoria degli aspiranti a quel posto.​

Un bagliore rosa invase la stanza, rischiarando la penombra nella quale era immersa, illuminata dalla luce fioca di un’abatjour. Il fragore di un tuono rimbombò subito dopo. Arianna sussultò, lasciando cadere sul tappeto i fogli che aveva tra le mani. Il cuore le era balzato in gola. Non era ancora riuscita a dominare la paura dei temporali.​
Da quando aveva cominciato quel lavoro, due giorni soltanto, si sentiva inquieta.
Era perfettamente a conoscenza delle condizioni dei pazienti, del clima di follia che si respirava in quei posti, ma la realtà che si era trovata di fronte, superava di gran lunga l’immaginazione. Nel corso degli ultimi anni, così le aveva spiegato la direttrice dell’istituto, la dottoressa Anna Gandolfi, il numero dei pazienti si era notevolmente ridotto, a seguito di un’importante ristrutturazione degli spazi detentivi. La struttura era riservata a soggetti prosciolti per infermità mentale totale o parziale, in alternativa al carcere, detenuti in osservazione psichiatrica. ​
Il primo impatto era stato tutt’altro che positivo. L’accesso alle celle le aveva generato un senso di angoscia, che aveva comunque controllato con la massima professionalità. Aveva percorso il lungo corridoio sotto gli sguardi dei detenuti, che l’avevano osservata attraverso le sbarre. Qualcuno l’aveva insultata, qualche altro l’aveva schernita, qualcuno aveva implorato il suo aiuto, altri si erano limitati a fissarla in silenzio. Erano stati quegli sguardi muti a incuterle maggiore angoscia, si era sentita penetrare da quegli occhi fin nelle viscere, fin nella profondità della sua anima, come se l’avessero messa a nudo, come se avessero aperto una breccia e fossero entrati dentro di lei. Era stato un po’ come essere posseduta da ognuno di loro.​

Si guardò allo specchio, mentre con un batuffolo di cotone toglieva delicatamente il trucco dal viso: aveva l’aria stanca e provata, gli occhi contornati da un paio di borse. Notò che cominciavano le prime rughe. Arianna dimostrava in pieno i suoi trentacinque anni.​
Andò a letto, portando con sé una candela, nel caso il temporale avesse causato danni alla centralina elettrica. Il vento non smetteva di ululare, là fuori, e i tuoni bombardavano la notte senza sosta. Si udiva la pioggia sferzare violenta contro le persiane, sospinta dalla furia del vento. ​
Arianna aveva rimediato quell’abitazione tramite un’agenzia. Si trattava di una piccola palazzina a due piani di soli quattro appartamenti, ma non era ancora riuscita ad incontrare nessuno in quei due giorni. Ora che ci pensava bene, non aveva scorto nemmeno una macchina parcheggiata lungo il vialetto. Che ci abitasse solo lei? Non le piaceva l’idea di essere sola in un posto simile, così fuori dal mondo. Non era abituata alla solitudine, al contrario, aveva sempre vissuto nel caos della città: il rumore del traffico era una costante delle sue giornate. Ora, invece, si trovava immersa nel più assoluto silenzio.
Provò un brivido. La stanza era umida, con quelle pareti in pietra, spesse come non ne aveva mai viste. C’era il camino anche lì, come in salotto. Non aveva mai visto camini in camera, ma ora capiva perché: il riscaldamento a metano non arrivava in quella zona isolata. Decise di accendere il fuoco, usando la legna che trovò accatastata a lato della parete. A breve, i ciocchi presero ad arrossare, fino a divenire incandescenti e le fiamme si levarono con un sottile crepitio. Si sentì investita da un’ondata di calore. Tornò a letto e scivolò sotto la trapunta pesante. Spense l’abatjour sul comodino e cercò di rilassarsi.​

Il sonno tardava a venire.​
La sua mente non riusciva a staccarsi dall’unica paziente che le era stata affidata: la storia di Stefania Grimaldi, che avrebbe incontrato la mattina successiva, era veramente pazzesca. Stefania soffriva di personalità multipla. Dovevano essere veramente a corto di personale, per avere affidato a lei, una alle prime armi, un caso così complicato. Stefania era stata una ragazza normale, fino al momento di quel terribile incidente che l’aveva vista volare dallo scooter, in uno scontro frontale con un’auto. Una lesione al cervello aveva irreversibilmente compromesso la sua capacità di discernere il bene dal male. La paziente, in una delle sue personalità, l’unica maschile, sosteneva di avere ucciso almeno quindici ragazze, da allora, dopo averle sequestrate, violentate e torturate. In realtà, l’unico reato da lei commesso, il motivo per il quale era stata internata, era stato il tentato omicidio con gravi lesioni, provocate al suo analista, durante una seduta. La sentenza non aveva previsto per lei il carcere, ma l’internamento nell’OPG di Monteregio, il che sarebbe stato molto peggio del carcere. Col tempo, la gente del paese e anche gli amici si erano dimenticati di lei, ma Stefania Grimaldi esisteva ancora e lei, la dottoressa Arianna Ronchi, l’avrebbe incontrata l’indomani stesso.​

Il nauseabondo odore di chiuso, misto a quello di medicinale, la investì, non appena varcò la soglia. Indossò il camice bianco e la targhetta plastificata che recava il suo nome, quindi si affrettò a scendere al piano inferiore, passando attraverso la porta a vetri, la cui apertura era controllata da un servizio di telecamere interno, che separava l’area destinata al personale medico da quella destinata ai pazienti. Non appena oltrepassò la porta, si sentì investire dal solito sgradevole odore.​
I capelli raccolti e gli occhiali dalla montatura nera le conferivano un’aria molto professionale. Lungo il corridoio incrociò alcuni infermieri. Uno di loro stava spingendo un carrello sul cui ripiano erano posate diverse siringhe e fiale.​
<<Buongiorno>>, lo salutò, abbozzando un sorriso.​
<<Salve.>> L’uomo corrispose senza nemmeno alzare lo sguardo su di lei.​
<<Mi scusi>>, affrettò il passo, affiancandolo. Il rumore dei larghi tacchi degli stivali rimbombò per il corridoio, perdendosi nell’alta volta del soffitto.​
L’uomo arrestò la corsa del carrello e la guardò in viso, poi fece automaticamente scorrere lo sguardo al cartellino che aveva appuntato sul petto. ​
<<Ha bisogno, dottoressa?>>, domandò in tono asettico.​
<<La stanza di Stefania Grimaldi>>, rispose lei, senza troppi convenevoli.​
<<E’ l’ultima, in fondo al corridoio, nell’ala est.>> L’uomo riabbassò lo sguardo sul carrello e riprese a spingerlo.​
C’era un’atmosfera alienata, nel reparto, dalla quale pareva fosse stato contagiato anche il personale di servizio.​
Percorse il corridoio, passando davanti ad alcune stanze, le cui porte erano munite di sbarre, tanto da trasmettere l’impressione di trattarsi di celle, piuttosto che di camere d’ospedale. Erano quelle destinate ai pazienti più pericolosi, così le aveva detto Anna Gandolfi.​ ​
<<Aiutami, ti prego!>>, supplicò uno di loro. <<Fammi uscire di qui! Mi stanno uccidendo.>>​
“Non farti coinvolgere! Niente emozioni, sii professionale!”, si ripeteva Arianna e proseguì il suo cammino, accelerando l’andatura.​
La guardia la accompagnò fino alla stanza della Grimaldi.​
Aveva tutta l’aria di essere una persona normale. Nulla avrebbe fatto pensare che quella donna dall’aspetto così pacifico potesse essere capace di atti violenti.​​​
Arianna mise le mani in tasca, appoggiandole con tutto il loro peso. <<Salve>>, disse. <<Sono qui per conoscerla.>>​
<<Che cosa vuole sapere di me, che già non ha letto nella mia cartella?>>, domandò con diffidenza la paziente.​
<<Mi piacerebbe conoscere la sua storia attraverso le sue parole, non tramite un pezzo di carta.>>​
C’era qualcosa di diverso in lei, rispetto agli altri medici, di questo la Grimaldi sembrò accorgersene subito. Traspariva una sorta di empatia: non manteneva, negli atteggiamenti e nel tono della voce, quel distacco necessario nell’ambito di un rapporto medico-paziente.
<<Da quanto tempo è in questa struttura?>>, si interessò.​
<<Diversi anni.>>​
Arianna sedette. Accavallò le gambe, fasciate nei pantaloni di vigogna grigio fumo e abbracciò le ginocchia con le mani, intrecciando le dita. <<Lei resta in piedi?>> le domandò. <<Si sieda, per favore. Mi piacerebbe che si sentisse a suo agio con me. Io sono qui per aiutarla.>>​
<<Aiutarmi a far cosa? Non uscirò mai di qui>>, disse, scrollando il capo con una risata sarcastica.​
<<Come fa ad esserne così sicura?>>​
<<Mi sta prendendo in giro, vero? Lo sa perché sono qui dentro?>>​
<<Perché non me lo racconta lei?>>​
<<Senta, io sono stanco di rispondere sempre alle stesse domande>>, disse.​
Arianna alzò lo sguardo dal taccuino sul quale stava annotando il colloquio. <<Mi vuole ripetere il suo nome, per favore?>>​
<<Ma non sa leggere?>>, reagì con voce ruvida. <<Stefano Grimaldi, come c’è scritto sulla mia scheda.>>​
<<Ha ragione, Stefano, mi scusi. Continui pure.>> Arianna assecondò la nuova personalità.​
Stefania riprese il racconto: <<Sono anni che incontro medici che mi fanno sempre le stesse osservazioni, che cercano di psicanalizzarmi per capire perché ho ucciso quelle ragazze.>> ​
La paziente alternava momenti di lucidità ad altri di confusione, rispondendo ora come Stefano, il presunto serial killer, ora come Stefania, la donna che aveva aggredito il suo psicanalista. ​
Terminata la seduta, Arianna rientrò esausta nel proprio ufficio. ​

Sedette dietro la scrivania, rilassandosi sulla poltrona, appoggiando bene la schiena e abbandonando le braccia lungo il corpo. Chiuse gli occhi e cercò di sgombrare la mente.
Un’improvvisa e violenta scossa le attraversò tutto il corpo. ​
Non era più nel suo ufficio, stava percorrendo un lungo corridoio, fiocamente illuminato da lampadine, che pendevano dal soffitto, proiettando la sua ombra tremolante sulle pareti. Ai lati del corridoio tante celle dalle quali, attraverso le sbarre, si protendevano verso di lei braccia che cercavano di afferrarla. Suoni terribili, frasi oscene le rimbombavano nelle orecchie.​
Due voci, che parlavano concitate, la riportarono alla realtà. Una pareva proprio la direttrice.
Non era la prima volta che ad Arianna succedeva di avere queste visoni, che nemmeno lei sapeva come definire, se premonizioni o proiezioni dell’inconscio.​
Riaprì gli occhi e si concentrò su quello che riuscì a captare di quella discussione. Non riconobbe l’altra persona, ma distinse perfettamente il tono maschile.​
Da quello che riuscì a intuire, i due interlocutori si trovavano in disaccordo sulle modalità utilizzate all’interno dell’OPG. L’uomo, molto probabilmente un medico della struttura, caldeggiava metodi più blandi e più umani nelle terapie con i pazienti. Arianna lo sentì parlare della stanza col letto di forza e lo sentì dire che era un sistema da Medioevo, che andava assolutamente abolito. Sosteneva fosse necessario diminuire le dosi dei farmaci. Si affacciò sul corridoio, mentre la porta dell’ufficio della direttrice si apriva. ​
Si ritrasse, lasciando aperto uno spiraglio, attraverso il quale vide una figura dirigersi a passo spedito verso l’uscita. Arianna raggiunse la finestra, scostò le tende e aspettò, finché vide l’uomo che usciva nel cortile e si dirigeva verso il parcheggio.​

La mattina seguente, Arianna decise di fare colazione al bar nei pressi dell’OPG. ​
Quando entrò nel locale, non poté fare a meno di osservare l’uomo che sedeva a un tavolo, col giornale aperto e un cappuccino davanti. Lo riconobbe: era lo stesso del giorno precedente, quello che aveva visto uscire dall’OPG. ​
Ordinò un caffè e una fetta di torta di mele, e si diresse al tavolo accanto a quello dell’uomo immerso nella lettura.​
<<Buongiorno>>, lo salutò​.
Lui alzò lo sguardo verso di lei, con fare interrogativo. <<Ci conosciamo?>>, domandò.
<<Lei forse no, ma io l’ho vista ieri all’istituto>>, rispose. << Dottoressa Arianna Ronchi>> Gli tese la mano. <<psichiatra all’OPG.>>​
L’uomo la scrutò con interesse: era davvero una donna molto affascinante.​
<<Dottor Riccardo Bartoli>>, ricambiò la stretta.​
<<Le spiace se mi siedo vicino a lei?>>, domandò Arianna.​
<<Prego!>>, Riccardo scostò la sedia.​
<<Non ho potuto fare a meno di sentire la sua conversazione con la direttrice ieri>>, disse. <<Il mio ufficio è adiacente al suo e voi parlavate a voce alta.>> Attese un commento.​
Riccardo bevve un sorso del cappuccino. ​
<<La penso anch’io come lei, dottor Bartoli>>, disse, portandosi la tazzina alle labbra.
<<Com’è che non ci siamo mai incontrati prima?>>, si incuriosì lui.​
<<Sono nuova>>, rispose prontamente. <<Ho preso servizio da poco. Vengo da Parma.>>
<<Si è trasferita qui con la famiglia?>>, si interessò lui.​
Arianna sorrise, scuotendo la testa. <<Non ho famiglia: sono sola.>>​
<<Separato>>, abbozzò un sorriso.<<E’ riuscita a trovare una sistemazione?>>, proseguì.
<<Ho trovato in collina poco distante da qui.>>​
<<Sono indiscreto, se le chiedo dove?>>​
<<A Gavorrano.>>​
<<Incredibile! Anche io abito da quelle parti.>>​
<<Davvero?>> Arianna sorrise.​
Riccardo terminò la colazione, si alzò e si scusò con lei: <<Mi scusi, ma adesso devo andare: ho un paziente che mi aspetta e temo di essere già in ritardo. Ci vediamo più tardi, allora.>>​
Lo guardò dirigersi verso la cassa.​
Quando anche lei ebbe terminato, si avvicinò al bancone con lo scontrino.​
<<Ha già pagato il signore>>, disse il barista.
Quella mattina, Stefania Grimaldi si sentiva Diana Macchi. La sua terza personalità, faceva parte della categoria più critica, quella delle madri che avevano ucciso il proprio figlio. ​
<<Che ne dice di sederci qui e di chiacchierare un po’?>>, domandò Arianna, indicando il divanetto accanto al tavolino di legno.​
Stefania-Diana si avvicinò e sedette di fronte a lei.​
<<Ha voglia di parlarmi un po’ di lei?>>, le domandò.​
La donna infilò un dito in una ciocca di capelli e la arrotolò con un gesto infantile. Inarcò le sopracciglia, corrugando la fronte, con aria preoccupata e insieme smarrita.​
<<Tranquilla, Diana>>, Arianna si affrettò a placare la sua ansia. <<Si tratta solo di una chiacchierata.>>​
<<Che cosa vuole sapere di me?>>​
<<Sa perché si trova qui?>>​
<<No>>, rispose.​
<<Chi l’ha portata in istituto? Lo ricorda?>>​
<<Marco, mio marito.>>​
<<E si ricorda di lui? Lo vede ancora? Viene a trovarla?>>​
La paziente abbozzò un sorriso e distolse lo sguardo, assumendo un’aria trasognata. <<Marco è bellissimo>>, disse.​​
<<Avete figli?>>​
La donna non rispose. Riprese, invece, a tormentare la ciocca, mordendosi le labbra. Mutò espressione e accelerò il ritmo del respiro. Si irrigidì e assunse un tono duro, la voce ruvida, lo sguardo vitreo e fermo. <<Io sono una persona cattiva!>>​
Arianna fu nuovamente pervasa da quella strana sensazione. ​
Non si trovava più lì, ma ancora in quel corridoio, con quelle braccia protese verso di lei. Era giunta davanti ad una porta di metallo. Dall’interno della stanza provenivano voci di uomini, miste a risate. Di colpo la porta si spalancò con uno stridore sinistro. Una donna giaceva legata ad un letto di contenimento. Guardò più attentamente e un senso di orrore la invase: la donna era lei.​
<<Anche tu sei cattiva>>, disse inaspettatamente, fissandola negli occhi. ​
Quelle parole fecero tornare bruscamente Arianna alla realtà.​
<<Io lo so che sei cattiva. Come me.>> ​
Arianna intuì che la Grimaldi era prossima a un’esplosione di aggressività e decise di interrompere la seduta.​

Nel corridoio del reparto incrociò la direttrice.​
<<Stavo cercando proprio lei>>, cominciò la Gandolfi. <<Volevo informarla che questo fine settimana ci sarà un meeting di psichiatria a Grosseto. Parteciperà il professor Mainoli. Si ricorda di lui? So che è stato suo docente all’università. Immagino le farà piacere rivederlo.>>​
“Si ricorda di lui?” La domanda prese a rotolare nella sua testa. E come poteva essersene dimenticata! Non avrebbe mai potuto.

La giornata era stata pesante. Arianna guidava diretta verso casa, non vedendo l’ora di infilarsi sotto il getto bollente della doccia.​
Non appena varcò la soglia, si spogliò degli abiti e si diresse in bagno.
Lasciò che il getto spazzasse via la stanchezza dell’intera giornata. Rinvigorita, si avvolse nell’accappatoio di spugna. Fu in quell’istante che il cellulare squillò. ​
<<Pronto?>>​
<<Dottoressa Ronchi, sono il dottor Bartoli. La disturbo?>>​
<<Niente affatto>>, rispose Arianna. << C’è qualche problema all’istituto?>>, si preoccupò.
Udì una risata sommessa. <<No, dottoressa, nessun problema, non si allarmi. La chiamavo soltanto per sapere se le andrebbe di cenare insieme questa sera. Mi piacerebbe continuare il discorso che abbiamo interrotto stamattina.>>​
<<Veramente sono già in abbigliamento casalingo e mi stavo cucinando qualcosa>>, disse. ​
Riccardo rimase in silenzio.​
<<Perché non viene lei da me?>>, aggiunse. <<Ho appena messo la pentola sul fuoco. Cucino qualcosa di veloce. Le va?>>​
Riccardo finse di pensarci un istante. Non riusciva a togliersi dalla testa la sensazione inebriante che gli davano gli occhi verdi della dottoressa, ogni volta che incrociavano il suo sguardo. <<E’ sicura che per lei non sia un disturbo?>>​
<<La aspetto.>>​

Venti minuti più tardi, sedevano a tavola, in salotto.​
<<Ho il sospetto che lei possa avere ragione, dottore, che all’OPG si usino metodi poco ortodossi.>>​
<<Sono d’accordo con lei>>, ammise Riccardo. ​
Arianna sorrise e bevve un sorso di vino.​
<<Non sono favorevole all’uso massiccio di certi medicinali>>, continuò Riccardo. <<in particolare nel caso dei neurolettici.>>​
Arianna annuì con un cenno del capo, restando in silenzio.​​
La guardava con curiosità e con qualcosa d’altro. Che cos’era? Attrazione? Desiderio?
Arianna provò una sorta di tensione, mista ad imbarazzo.​
Riccardo le prese la mano. <<Volevo dirti che sono molto contento di averti per collega. Credo che andremo molto d’accordo noi due>>, disse, passando a un tu confidenziale.
Gli occhi dell’uomo scintillavano alla luce del camino. C’era solo una lampada a stelo accesa nella sala. Diffondeva una luce soffusa, di colore aranciato.​
<<L’altro giorno, un paziente mi ha chiesto aiuto>>, riprese lei. <<Diceva di non avere fatto nulla e di essere trattenuto là dentro a forza. Era nelle stanze speciali, quelle con le sbarre, riservate ai soggetti pericolosi. Ho avuto l’impressione che stesse dicendo la verità.>> Guardò Riccardo negli occhi con intensità. <<Mi chiedo se sia tutta follia quella che è rinchiusa là dentro.>>​
Riccardo sentiva il profumo della sua pelle, che sapeva di doccia schiuma, sentiva il calore invitante del suo corpo. Allungò una mano verso il viso di lei e le accarezzò la guancia. Arianna si alzò repentinamente. ​
<<Sono molto stanca>>, disse. <<Vorrei andare a letto. Domani sarà un’altra giornata pesante.>>​
Lo stava liquidando?
Legata alle sponde del letto, si divincolava come una furia, per liberarsi dalla stretta delle fascette, ma più si agitava, più le solcavano polsi e caviglie. Vedeva tutte quelle facce attorno a lei che la scrutavano. “Occorre sedarla!”, ordinava un dottore. Un infermiere si avvicinava, le stringeva il laccio emostatico intorno al braccio e tastava la vena. Quando l’aveva trovata, vi infilava l’ago. “Stai buona, stai buona!”, le diceva il dottore. ” Smetti di agitarti così!” Lei urlava, fino a quando aveva voce, fino a che le forze glielo consentivano, poi il farmaco faceva il suo effetto e la coscienza la abbandonava lentamente, la realtà assumeva contorni sfocati e non capiva più se quello che sentiva fosse frutto di allucinazione, fosse sogno o fantasia oppure fosse reale. Ma quella era l’ora delle streghe. Gli aguzzini erano lì. ​
Arianna rimase impietrita per alcuni minuti, col cuore che pulsava violento in gola, poi, non appena i battiti si furono regolarizzati, trovò la forza di allungare un braccio fuori dalle coperte, verso il comodino, e accese l’abatjour.
Erano le 9 della mattina seguente, quando varcò la soglia dell’OPG. Capì subito che doveva essere successo qualcosa. Il personale medico e paramedico era in allarme, le infermiere camminavano avanti e indietro lungo i corridoi, spalancando le porte di tutte le stanze. Sentì una delle guardie intimare alle altre di controllare anche il piano superiore.
Si voltò verso l’usciere. <<Che cos’è tutto questo trambusto?>>​
<<Una delle pazienti è scappata dall’istituto>>, rispose.​
Arianna trasalì. <<Di chi si tratta?>>​
<<Di quella della stanza 18.>>​
<<Oh, mio Dio!>>, esclamò Arianna. ​
Stefania Grimaldi, alias Stefano, alias Diana Macchi era evasa.​
La dottoressa Ronchi passò la tessera di riconoscimento nel lettore ottico e la porta a vetri blindata si aprì, consentendole di entrare. Vide subito Riccardo, in fondo al corridoio, che parlava con il capo delle guardie. Si diresse a passo spedito verso di lui.​​
Riccardo si volse nella sue direzione. <<Arianna, è successa una cosa pazzesca!>>, esclamò. ​
<<Lo so, sono già stata informata>>, lo rassicurò. ​
<<Era una tua paziente, vero?>> ​
<<Sì, è esatto. E mi domando come sia potuto succedere. La direttrice è già stata avvisata, immagino>>, disse in tono apprensivo. ​
<<Allora tu non sai tutto>>, commentò Riccardo. ​
<<C’è dell’altro?>> ​
<<La direttrice non si trova da nessuna parte: è scomparsa anche lei.>> ​
Arianna lo guardò incredula. Rimase a bocca aperta per lo stupore. <<Ma che sta succedendo?>> ​
Dall’OPG cercarono di contattare ripetutamente Anna Gandolfi: il telefono squillava a lungo, poi subentrava la segreteria. ​
Era ormai tarda mattinata, quando il vicedirettore, viste vane le ricerche della paziente, all’interno della struttura e nei dintorni, nonché quelle della direttrice, prese la decisione di avvisare la polizia. Una pattuglia si mise in cerca della Grimaldi, mentre due agenti, dietro insistenza del dottor Bartoli, si recarono a casa della Gandolfi. ​
I due poliziotti suonarono ripetutamente il campanello dell’abitazione, ma nessuno aprì. Si rivolsero perciò al portiere dello stabile, il quale disse loro di non avere visto la dottoressa uscire di casa, quella mattina. Si offrì, quindi, di aprire la porta con le seconde chiavi, che la Gandolfi gli lasciava sempre, per ogni evenienza. ​
Quando entrarono, la scena che si presentò loro era degna di un film dell’orrore: la direttrice giaceva riversa sul pavimento con la gola squarciata, una pozza di sangue sotto il suo corpo esanime. ​
La scientifica giunse immediatamente sul posto. Dai primi rilevamenti sul cadavere, la morte sembrava risalire alla tarda serata del giorno precedente. ​
Intanto continuavano, senza alcun esito, le ricerche della Grimaldi.
Cominciava a nevicare, quando Arianna parcheggiò l’auto sotto casa. Riccardo posteggiò accanto a lei. La vedeva decisamente sconvolta dagli eventi di quelle ultime ore. Si era offerto di tenerle compagnia, quella sera, e lei aveva accettato di buon grado. I fiocchi di neve cadevano silenziosi e leggeri, volteggiando nell’aria, sospinti da un gelido vento. La strada cominciava ad imbiancare. ​
L’appartamento era freddo e umido. Arianna tolse il cappotto, prese quello che Riccardo le porgeva e li pose entrambi sull’attaccapanni all’ingresso. ​ ​
<<Ti spiace se mi faccio una doccia? Ho bisogno di lavare via questa giornata.>>
Arianna uscì dalla sala e si diresse in fondo al corridoio, verso il bagno.
Riccardo sentiva l’acqua scrosciare. A un tratto, il cellulare nella tasca della giacca prese a vibrare. Lo estrasse e osservò il numero che compariva sul display. Non era nella memoria della rubrica. ​
<<Pronto?>> ​
La voce dall’altra parte prese a parlare: <<Sono il professor Mainoli>>, si presentò. <<Parlo col dottor Bartoli?>> ​
<<Sì, sono io>>, confermò Riccardo.​
<<Mi scusi, se la disturbo>>, esordì. <<Ho avuto il suo numero dall’OPG. Ho saputo della tragedia accaduta e sono rimasto sconvolto. Conoscevo bene Anna, eravamo intimi amici.>>
Riccardo si passò una mano sul viso. <<Sì, una vera tragedia!>> ​
Il professor Mainoli riprese: <<Mi rivolgo a lei, in quanto vicedirettore dell’Istituto. Quello che sto per dirle è strettamente riservato e naturalmente coperto dal segreto professionale.>> ​
Riccardo si alzò in piedi, i muscoli del corpo tesi. Sentiva che quanto avrebbe ascoltato non sarebbe stato piacevole. <<Mi dica!>> ​
<<Ieri, nel tardo pomeriggio, parlando con Anna del meeting al quale ci saremmo dovuti incontrare, sono venuto a sapere che lavora da voi la dottoressa Arianna Ronchi.>>​
<<Sì>>, ammise Riccardo. <<E’ nel nostro istituto da poco più di una settimana.>> ​
Ci fu un istante di silenzio dall’altra parte, poi il professor Mainoli riprese: <<La dottoressa Ronchi è una mia paziente.>> ​
Riccardo rimase esterrefatto. <<Una sua paziente?>>​
<<Dopo essersi laureata col massimo dei voti, sotto la mia guida, la dottoressa è caduta in una forte crisi depressiva che col tempo si è evoluta, fino a che Arianna ha cominciato a soffrire di allucinazioni, di una sorta di delirio paranoide.>> ​
Riccardo rimase in silenzio. La pausa sembrò durare un’eternità. ​
<<Dottore, mi ha sentito?>>, domandò il professore. ​
<<Mi sta dicendo che la dottoressa Ronchi è malata, che è una personalità paranoica?>>
<<Purtroppo sì>>, confermò. <<Con una cura farmacologica siamo riusciti a tenere i suoi sintomi sotto controllo, ma, da circa due settimane, non ho più avuto sue notizie. Sembrava essere sparita. Fino a quando ieri ho scoperto che fine aveva fatto.>>
Mainoli si fermò in attesa di un commento che non arrivò. <<Le dica di contattarmi al più presto, per cortesia. E’ molto importante.>> ​
<<Quanto mi ha detto mi lascia allibito, professore>>, commentò Riccardo. <<Non ho avuto nessun sospetto che Arianna soffrisse di una simile patologia. Pensa che possa costituire un pericolo per sé o per gli altri?>>​
<<Non posso dirlo con certezza, ma la possibilità esiste. Mi raccomando, mi faccia contattare al più presto.>> ​
<<Non dubiti, professore!>> Pigiò il tasto di fine chiamata. ​
Non si sentiva più scorrere l’acqua dal bagno. ​
Riccardo avvertì una presenza alle sue spalle. Non fece in tempo a girarsi, che un violento colpo lo raggiunge alla testa. ​
Quando riaprì gli occhi, si sentiva stordito e la testa gli doleva. Cercò di muoversi, ma capì di essere saldamente legato alla sedia sulla quale si trovava. Arianna era in piedi davanti a lui. Teneva stretto nella mano destra un coltello da cucina. ​
<<Finalmente ti sei svegliato!>>, esclamò. <<Era Mainoli al telefono, vero?>>​
Riccardo riuscì a parlare a fatica: <<Arianna…>>​
<<Ti starai chiedendo come io abbia fatto ad avere questo lavoro o forse come abbia potuto lavorare, sedata da farmaci potenti per curare la mia paranoia, oppure ti stai chiedendo “Non avrà mica smesso di assumere le sue medicine?”… La risposta corretta è la B: ho smesso, Riccardo. Non avrei avuto la lucidità mentale necessaria per affrontare il mio lavoro. Lo capisci, vero? Non avevo alternativa. Io sono un’ottima psichiatra, lo diceva sempre il Mainoli. Non potevo rinunciare alla mia professione, a causa della malattia e così ho deciso di curarmi da sola. Stavo ottenendo già buoni risultati con la Grimaldi, sai?>> Aveva l’aria allucinata, mentre parlava. <<Invece la Gandolfi stava complottando con il professor Mainoli per farmi rinchiudere in quello schifo di OPG, e, dopo la telefonata di poco fa, anche tu ti sei accordato con lui, vero?>>, disse con voce tagliente. << Mi hai proprio deluso, sai, dottore? Maledetta telefonata, poteva essere tutto diverso! Mi piacevi. Peccato!>>​
<<Arianna, tu hai bisogno di aiuto!>>​
<<Sì, come no! Conosco molto bene il genere di aiuto di cui parli.>> Si avvicinò a lui. <<Sei anche tu come tutti quelli che lavorano in quel maledetto ospedale!>>, pontificò. <<Ospedale…>>, fece una pausa, riempiendola con una risata sarcastica. <<Meglio parlare di carcere! Non credi, dottore?>> ​
Riccardo stentava a riconoscere nella donna che stava in piedi davanti a lui la stessa con la quale aveva lavorato fianco a fianco per una settimana. Capì, purtroppo, di trovarsi, al cospetto di una persona ormai totalmente fuori controllo. Arianna aveva perso ogni contatto con la realtà. Cercò di fare appello alla sua esperienza professionale per trovare le parole che avrebbero potuto tranquillizzarla, ma il panico aveva preso il sopravvento, gli aveva tolto lucidità. ​
Arianna continuò: <<A forza di sedativi, spappolate il cervello dei disgraziati che vi capitano sotto le grinfie. Non vi importa di curarli, ma solo di renderli inoffensivi!>> Lo sguardo era totalmente allucinato. <<Non meriti di vivere, come non lo meritava la Gandolfi.>>
<<La Gandolfi?>> ripeté terrorizzato. <<Sei stata tu?>> ​
Arianna gli si fece più vicino. <<Voglio guardarti negli occhi, mentre muori, come ho fatto con lei.>> ​
Riccardo cercò inutilmente di parlare. Un deciso fendente gli squarciò la gola, uccidendolo in pochi istanti. Il sangue zampillò a fiotti, come spinto da una pompa, imbrattando la stessa Arianna e il muro di fronte. Gli occhi di Riccardo la fissarono immobili per diversi secondi, poi, a poco a poco, le palpebre presero a tremolare, finché si chiusero e la testa si rovesciò di lato.​

Caricò l’accappatoio in lavatrice e si infilò sotto il getto caldo della doccia, lasciando scivolare l’acqua sporca di sangue ai suoi piedi. La osservò sparire nel tubo di scarico. Ripulì per bene il box e si rivestì, con gli stessi abiti che aveva indossato quel giorno, al lavoro.​
Tornò in sala. Riccardo era ormai morto. Lo slegò e lo depose sul pavimento.
Poi si diresse verso la stanza in fondo al corridoio. Prese la chiave da un ripiano del mobile a muro nell’anticamera, la infilò nella toppa e aprì la porta. ​
La prigioniera era ancora là, legata con le fascette, mani e piedi, alla sponda di una brandina, la bocca stretta nella morsa di un bavaglio. Era ancora sedata. ​
Era stata una fortuna avere trovato quella casa in affitto: isolata, senza vicini, solo lei. Nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito, nessuno avrebbe mai scoperto la verità.
La prigioniera emise un suono gutturale, vedendola avvicinarsi. ​
<<Adesso ti toglierò il bavaglio, così potrai parlare>>, disse Arianna, liberandole la bocca.
Stefania Grimaldi prese fiato, ma non disse nulla: si limitò a guardarla. ​
<<Avevi ragione su una cosa, sai? Io sono cattiva, sono davvero tanto cattiva.>> ​
Prese dal comò una siringa, di quelle predisposte col sonnifero, pronte all’uso, che aveva sottratto dall’infermeria dell’OPG e le piantò l’ago nel collo. ​
<<Fatti un buon sonno, Stefania, Stefano, Diana o come accidenti ti chiami!>>
Attese che il sonnifero facesse effetto, poi la slegò e la trascinò in salotto, dove si trovava il corpo senza vita di Riccardo, la mise sul divano, le prese la mano e gliela strinse attorno al manico del coltello che poi lasciò cadere a terra. ​
Afferrò le mani della donna e si graffiò il viso e le braccia con le sue unghie, lasciandosi solchi evidenti nella pelle, poi si fece degli strappi nei vestiti. ​
Abbandonò la siringa accanto al corpo della donna, prese il cellulare, cancellò le ultime chiamate e compose il numero del pronto intervento. ​
<<Sono stata aggredita. Venite subito, vi prego! La paziente fuggita dall’OPG è qui a casa mia. Ha aggredito anche il mio ospite. Credo che sia morto. Sono riuscita ad immobilizzarla. Fate presto, vi prego!>>, pronunciò quelle parole tutte d’un fiato.
<<Stia calma, signora!>>, disse l’agente di turno. <<Mi dica come si chiama e dove abita.>>
<<Sono la dottoressa Arianna Ronchi>>, si qualificò, impostando la voce su un tono drammatico. Gli diede l’indirizzo di casa. ​
<<Stia tranquilla, signora!>>, la rassicurò l’agente. <<Le mandiamo subito una pattuglia.>> Arianna chiuse la comunicazione.​
<<E ora mi inventerò qualcosa anche per te, caro professor Mainoli.>> ​
Accese una sigaretta e sedette ad aspettare.


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