“Una giornata particolare” di Marco Speciale


 

Sulla lapide avrebbe desiderato solo Franco De Stefanis, camerata.Poi un primo piano con sguardo fiero e fazzoletto al collo della X MAS.

Le attese gli portavano sempre strani pensieri ma quel giorno c’era qualcosa di diverso. La passeggiata, condotta con sguardo alto da turista, si dipanava fra le vie della sua giovinezza, una zolla di Milano dove un tempo un manipolo di coraggiosi aveva combattuto il nemico comunista. Vita e morte, lui poteva ancora raccontare, Giannino Zibecchi no. Caduto partigiano della nuova resistenza,all’angolo fra via Cellini e corso XXII Marzo, investito da un furgone della Celere. Una storia fatta di giovani caduti e di tristi lapidi commemorative.

Erano momenti convulsi e confusi in cui era obbligatorio schierarsi, ogni aspetto dell’esistenza, anche il più banale, era condizionato e condizionante: per un paio di scarpe sbagliate si poteva morire. Un eskimo, e avresti consegnato le chiavi del Paese ai bolscevichi; un paio di Ray-Ban e avresti dato in pasto il parlamento alle camicie nere. Per Franco erano stati anni difficili e pieni di speranze, anni di radiosi ricordi che il tempo aveva sepolto sotto la mota di una società allo sbando, senza più alcun ordine o valore. L’eroismo e l’impegno che avevano accompagnato la sua giovane generazione erano stati spazzati via dalla mediocrità dilagante. Nessuno avrebbe più corso il rischio di farsi ammazzare per un ideale di patria o di civiltà. Oggi si moriva per i colpi di camorristi e mafiosi, di negri e musulmani, al più ci si sterminava in famiglia.

Quello che aveva sparato a Varalli se lo ricordava poco. Era appena arrivato da Roma e non conosceva bene tutti. Ricordava invece benissimo, e un brivido ancora gli correva lungo la schiena, gli scontri che ne seguirono il giorno dopo, tutti asserragliati nella sede provinciale della Fiamma, lì vicino, in via Mancini. Ma la marmaglia era stata respinta. Zibecchi era morto in quei frangenti: pace all’anima sua. Un po’ di misericordia anche per i rossi del cazzo. A furia di stare da parti opposte di una stessa barricata si diventa un po’ fratelli.

Franco si era fatto onore ai tempi. A Roma, diciottenne, dava già una mano al servizio d’ordine di Almirante. Troppo tenero però, troppo istituzionale per lui. I camerati di Ordine Nuovo volevano tirarselo dentro ma non ce ne fu il tempo. Ai Parioli comparvero brutte scritte, e non erano i generici e patetici inviti a tornare nelle fogne ma minacce chiare, con nome e cognome: Franco De Stefanis. I suoi genitori, che vivevano la loro massima eccitazione politica ascoltando il soporifero Malagodi, storico leader liberale, per poco non ci rimasero. Decisero di non stare con le mani in mano, avevano già visto troppi ragazzi morire e non avrebbero aspettato di vederlo steso sul marciapiede coperto da un telo. Entrambi insegnanti, chiesero il trasferimento e, dopo la maturità di Franco, tempo un mese, cambiarono aria. Meglio mollare tutto che perdere un figlio, meglio ricominciare in una città lontana: Milano, dove già abitavano alcuni parenti.

Diamanteera il suo nome di battaglia. Certo, per la scala di Mohs era il più duro. Ma il vero motivo era la mazza da baseball che usava durante le azioni, il manico segnato da minuscole tacche, una per ogni rosso che aveva sistemato. Per nessun motivo al mondo volle separarsene al momento del trasloco e questo era già una dichiarazione di intenti: se quei due cacasotto di mamma e papà pensavano di cambiarlo con una stupida fuga, si sbagliavano di grosso. Forse avrebbe trovato la bella mortelontano dal Cupolone.

Così conobbe quell’accento con le vocali sguaiatamente aperte, la facoltà di architettura al Politecnico, la Maduninae il campionario di trita milanesità: la nebbia, il freddo cane, il panettone, la cotoletta, la frenesia che animava i passi e i gesti dei passanti.

 

Quando si presentò ai camerati ambrosiani questi lo accolsero con diffidenza e con sospetto. A quell’epoca era pieno di infiltrati e provocatori e ci si fidava poco anche degli amici, figuriamoci di un tipo spuntato dal nulla dal forte accento romano. Non gli ci volle però molto per accertare chi fosse veramente quel De Stefanis e finirono per riservargli gli onori dovuti a un vecchio compagno d’armi: benvenuto nel Fronte, Diamante.Partendo dalla sede o da Piazza San Babila ci sarebbero state nuove occasioni per apporre sul manico altre numerose tacche.

Se i pensieri avessero potuto vagare ancora, molto ci sarebbe stato da ricordare: i pestaggi, le folli corse, gli agguati, le spedizioni punitive. Ma Franco era tornato da quelle parti solo per incontrare sua moglie durante la pausa pranzo. Un baretto lì vicino, non lontano dall’ufficio di Sara, dietro piazza Cinque Giornate. In vent’anni di matrimonio non era mai successo, probabilmente era qualcosa di così urgente da non poter attendere la sera ed il ritorno a casa. Franco aveva lasciato lo studio col consueto anticipo con cui affrontava  anche il più banale degli appuntamenti e questo, tra l’altro, pareva proprio non esserlo. Guardò il Patek Philippe che cercava di esibire con disinvoltura e constatò che il tempo per sfogliare nostalgicamente l’album della sua neragioventù era scaduto.

Il locale era uno dei soliti ambienti nati solo per accogliere il ceto impiegatizio snob, ilcappuccioal mattino o l’insalatona a mezzogiorno. Maledetta borghesia, buona solo a muovere le ganasce. Una bomba, ecco che cosa sarebbe stato bello lasciare fra i tacchi dodici delle segretarie o ai piedi dei bancari con le Church.  Avrebbe anche saputo come fare, qualche decennio prima era stato istruito a dovere sull’uso di timer con annessi e connessi. Era come andare in bicicletta: non ci si poteva dimenticare.

Sara arrivò come di consueto in leggero ritardo, cosa che non sopportava Franco. Era tutta la vita che si destreggiava così: piccole dimenticanze, piccole inadempienze, piccole mancanze, piccole deviazioni dai doveri. Mai nulla di grave, nulla di eccessivo, sempre scusabile. Farglielo notare era solo una pedanteria eccessiva, una mancanza di indulgenza verso di lei e verso se stessi.

Franco si accorse subito di come l’immagine di sua moglie non collimasse con quella che lui si era creato nel tempo. Non aveva mai notato quella gonna con l’orlo sfrangiato e irregolare che, in alcuni punti, lasciava intravedere molto più del ginocchio. La stagione calda si stava avvicinando ma non aveva mai fatto caso a quella maglia così generosamente aperta. I capelli, raccolti in una morbida coda, sembravano tinti di recente e incorniciavano un volto più truccato del solito. Se il contorno occhi giocava con sfumature di colore, armonizzandosi con il marrone dell’iride, la bocca scintillava di un rosa lucente, neanche fosse un lucida labbra da ragazzina. L’intera sua presenza emanava un sentore di fresco, una ventata di primavera che annunciava l’estate alle porte.

Un bacio che sembrò un saluto tra due amici: forse erano ormai solo quello. Due parole per ordinare, carpendo da un menu sicuramente frizzante e creativo essendo scritto col gesso bianco sulla lavagnetta d’ardesia. E il caffè te lo offriva la casa.

Sara provò a partire con una delle sue filippiche verso i colleghi: il mondo delle assicurazioni, troie e pescecani. Lei naturalmente era il volto umano della sua professione. Franco non sembrava disposto a concedere spazio. Se si trattava di cosa che non poteva attendere le quattro mura domestiche tanto valeva fare presto. E poi aveva in programma uno dei suoi appuntamenti pomeridiani, quelli che si concludevano con lo scatto secco di una serratura e il nulla dietro di sé, a parte qualche banconota su un comodino.

Sara, con l’aria del commentatore di Rai Storia, rievocò le principali tappe del loro matrimonio, partito già con qualche inciampo. Rievocò i palpeggiamenti di lui a una bella cameriera, e si era ancora in viaggio di nozze. Franco proprio non se lo ricordava. E la moglie incalzò. La carrellata sul ventennio trascorso insieme – il ventennio, un vero destino –  si avvicinò tristemente ai giorni d’oggi.

 

  • Tutte le settimane te la fai con qualche donnina allegra, tipo la russa di piazza Napoli, quella che non ha ritoccato le orecchie solo per poter dire di avere qualcosa di naturale.

Questo Franco se lo ricordava. Anche il culo però non era rifatto, ne era sicuro, ma almeno su questo punto preferì non aprire alcun contenzioso. La parte dell’incassatore non gli si confaceva e subito contrattaccò.

  • Te ne accorgi solo ora? La parte dell’ingenua moglie tradita, molto commovente. Hai sempre saputo e ti andava bene, hai voluto anche un figlio. Improvvisamente ritrovi la memoria, a un tavolo di un bar, davanti a un cacio e pepe che grida vendetta al cospetto di dio. A casa non si poteva proprio fare? Cosa ti passa per la testa?

Sara era sempre stata una donna pratica e, frequentando da molti e molti anni il variegato mondo assicurativo, sapeva che, se non vi era constatazione amichevole, era più idoneo collocarsi in una posizione di vantaggiosa prudenza. Meglio allora parlare in campo neutro evitando reazioni violente, facendosi scudo col folto pubblico. Non era cattivo Franco, ma in passato era capitato che uno schiaffone glielo avesse mollato e con quello che aveva da dirgli non era il caso di rischiare.

Perché lei aveva un altro.

Franco ne prese atto e provò ad anticiparla nel racconto. Doveva essere il suo capo, ricco e con la faccia da maiale; sui documenti, nella sezione segni particolari, onorando la fisiognomica, doveva esserci sicuramente: porco. Ma quello era il giorno delle novità. Il treno della vita scivola sui binari  con altezzosa sicurezza prima che il deragliamento imponga nuovi parametri interpretativi della realtà. E Giulio si ritrovò contro la massicciata, con la sorpresa di chi si sente tradito da acciaio e traversine.

– Si chiama Kiran, ha trent’anni.

Nessun capo porco quindi, la situazione era molto più seria. Si chiamava Kiran, aveva dieci anni più del loro figlio e la metà degli anni di Franco, veniva dal Bangladesh e faceva il barista.

– E tuo figlio, come la prenderà?

Spesso quando non si sa cosa dire si cerca qualche passaggio melodrammatico a effetto, e un accenno alla paternità sofferente ha sicuramente il suo peso.

– Sergio sa già tutto. Una sera ci ha sorpreso mentre ci baciavamo sotto casa. Non ci sono problemi, ne abbiamo parlato e ha capito.

Franco, il donnaiolo fiero della propria mascolinità, incassava anche il fatto di essere fatto becco sotto le sue finestre. Il fedifrago, che spezzava l’impegno di sempiterna unione davanti a Dio, era giovane, extracomunitario, musulmano e, come poi lei meglio chiarì, non troppo chiaro di carnagione. Franco avrebbe proprio voluto mollare a Sara un bello schiaffo e osservare il suo volto, illuminato da una nuova felicità, mentre si torceva dal dolore, mentre gli occhiali dalla montatura leggera, appoggiati sempre in punta di naso da signorina un po’ rétro, volavano in aria roteando. Finalmente capì il perché di quella confessione al bar: un modo per evitare la sua sacrosanta reazione. Riuscì solo a partorire un velenoso commento di bassa lega.

– Te lo sei scelto pure sbagliato, gli asiatici ce l’hanno piccolo.

Sara, dopo anni in cui aveva accettato ogni genere di tradimento, sembrava godere di quella frase soffiata con un sorriso sardonico ma con la bava alla bocca. Allora, senza alcuna intenzione di estrarre le armi pesanti, toccò distrattamente la punta del proprio fioretto e, distendendo quasi annoiata il braccio, punzecchiò  l’altro duellante, come per schernirlo.

– Hai sempre quel tocco di rara finezza. Per te è tutto una gara, sei fermo al confronto che si fa da bambini tirandosi giù le braghe. Comunque mi spiace davvero, nella sfida Italia-Bangladesh perdi tre a zero.

Verso la fine dello scorso millennio l’aveva imparato, fra lacrimogeni, celerini e manganelli. Quando la sede degli scontri ti sfavorisce è meglio ritirarsi e preparare una controffensiva nei giorni seguenti. Era inutile incaponirsi in una battaglia che momentaneamente non si poteva vincere. Franco depose cinquanta euro sul tavolino e si alzò di scatto per andarsene, non prima di aver fatto vibrare nell’aria una frase ad effetto.

– Ti serviranno, con quel morto di fame che ti sei scelta.

Non se la sentì di tornare al lavoro. Avvisò la sua segretaria e si mise a camminare senza meta, quei viaggi che vanno intrapresi da soli, con la mente e i piedi che agiscono senza alcuna coordinazione.

Ripensò all’occasione in cui si erano conosciuti, una di quelle feste riservate alla gente che conta: lui affermato architetto e famoso puttaniere, lei segretaria imbucata grazie ad amici di amici.  L’innamoramento, il matrimonio, il pranzo di nozze con quei tavoli imbarazzanti di amici che intonavano la sagra di Giarabub.Poi la nascita di Sergio, quasi subito. Venti anni di declino sentimentale, cercando inutilmente di schivare quella parola che lo rincorreva da una vita. Infine l’aveva pur raggiunto:noia. I percorsi di marito e moglie, anno dopo anno, avevano assunto la forma di linee quasi mai parallele, giochi di zig-zag in cui prima o poi finivi per incrociarti quasi involontariamente. Ora invece c’era la precisa volontà di farle divergere, per sempre. Per un negro di trent’anni.

Aveva percorso tutto viale Premuda fino a Porta Venezia senza accorgersene, quasi un chilometro e mezzo. Si infilò in un bar per un prosecco. Lo specchio dietro il bancone rimandava la sua solita immagine, quella con cranio rasato e mascella volitiva: non era un segreto, gli piaceva assomigliargli. Ma il suo sguardo perso ricordava quello del duce versione Campo Imperatore, quando i nazisti andarono a riprenderselo. Ordinò ancora un paio di Noninoe uscì, per non guardarsi più.

Decise di tornare indietro passando per vie più silenziose e riservate. Se l’andata era stata una spietata disamina di quello che era stato, il ritorno doveva essere un progetto, pur disegnato con approssimazione e mano incerta. Forse avrebbe dovuto cercarsi un’altra casa. Quel figlio perennemente adolescente, senza voglia di futuro, senza spina dorsale, sarebbe rimasto con sua madre. Franco passò poi in rapida successione i beni da dividere, avendo un solo e deciso puntiglio: la barca, quella no, non l’avrebbe mai lasciata. Se la mente si distrae, sono le gambe a condurre. E si ritrovò in via Mancini, allucinato, come se fosse stato rilasciato in quel momento dopo un rapimento.

La sede del Movimento Sociale Italiano, una palazzina a due piani, portava tutti i segni della decadenza e dell’incuria. La scritta grande che l’attraversava era però rimasta ancora al suo posto: Federazione provinciale. Un glicine, nella sua crescita disordinata, aveva avvolto parzialmente la facciata coprendoFede:la mano pietosa della natura che prendeva atto dei tempi. Restava alla vista razione provinciale,una sorta  di sbobba  militaresca per una  zona  amministrativa. Il pianterreno era ricoperto da tessere di clinker amaranto che avevano perso brillantezza, forse per le mille ripuliture dalla vernice delle scritte. Un paio di slogan, malamente storpiati da un maldestro e ingenuo intervento su alcune lettere, ancora ricordavano sul muro che era in atto una qualche lotta. Il primo piano era maculato da schizzi di inchiostro rosso, probabilmente lanciato per imbrattare la lapide commemorativa di Sergio Ramelli, ucciso dal nemico quarantuno anni prima. Morto per l’Italia,recitava.

Franco masticava amaro. Un paese senza memoria per i camerati caduti, ingrato con chi lo aveva difeso dal comunismo. Altri tempi, che nessuno sembrava più ricordare. Lo sguardo miope dei politicanti si rivolgeva sempre ad altro, incuranti della vera emergenza. Il buonismo sinistrorso stava spalancando le porte all’invasione islamica. La fine dell’Occidente non era così lontana, sconfitto dall’inazione, dalla confusione dei sessi, dalla mescolanza delle etnie, sprofondato nel baratro del multiculturalismo: la morte della famiglia, la morte del cristianesimo, la morte dei valori, la fine della civiltà.

Una scritta compariva ancora sul campanello, parzialmente coperta da una gomma da masticare rinsecchita: Alleanza Nazionale. Un altro nome di un fallimento politico. Franco e i suoi fratellidel Fronteavevano capito: non potevano bastare le armi della dialettica parlamentare. Eppure erano stati lasciati soli e, loro malgrado, avevano dovuto abbassare il braccio teso. Qualcosa stava provando a rinascere, anche se c’era bisogno di novità che evocassero forza, ribellione, altro che il brodino culturale del buon Ezra. Ci si doveva rialzare, si doveva lottare come crociati a casa propria o la bandiera con la mezzaluna avrebbe sventolato sopra i nostri campanili.

Si sarebbero presi tutto, anche le nostre mogli, pensava Franco.

I chilometri che aveva macinato in quel lungo giorno gli presentarono il conto e un’infinita stanchezza lo avvolse, una debolezza improvvisa che lo convinse a dirigersi verso casa; il suo attico in largo Augusto distava ancora un quarto d’ora a piedi.

Entrò in casa esausto, deciso a stendersi almeno per qualche minuto. Erano anni che non tornava a casa presto nel pomeriggio. Percepì subito qualcosa di stonato, dei fremiti lontani che era certo di conoscere ma che non riusciva ancora a identificare. Non gli ci volle molto a capire che provenivano dalla camera da letto. La porta socchiusa lasciava intravedere un uomo dalla pelle ambrata che si muoveva ritmicamente in un evidente crescendo di eccitazione.

Questo era davvero troppo per Franco: il drappo rosso agitato davanti al toro. Andò istintivamente a rovistare fra le sue cose nella cabina armadio. Lei era sempre lì, attendeva solo di essere impugnata: Diamante era tornato.Irruppe nella camera e, con gli occhi chiusi, mosso solo dalla rabbia, cominciò a colpire alla cieca, con ferocia. Ma nel tumulto di lamenti, grida e suppliche che ne seguì, gli parve di riconoscere una parola che gli fece fermare la mazza a mezz’aria e lo costrinse a guardare.

Papà.

Nel letto c’erano due uomini.

Quello di razza ariana era suo figlio.

 

 

 

 


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