"Dovevo scaricarla" di Gabriele Tarelli


03 Foto

 

Il vento sembrava muschio secco e l’asfalto un rigurgito ghiacciato.

Era stata una delle tante inutili serate da dimenticare: via Tortona, Colonne, Arco, Simona e poi da Gianni. Ritorno: tardi, anzi prestissimo. Quante serate a molla?

L’ascensore raschiava i pattini e Lei, ormai punto nero, si allontanava in velocità.

Le griglie della gabbia montacarichi le avrei farcite con cicche. Avevo bisogno di qualche cosa di appiccicoso, ma con Proddi, il mio cane, era finita come doveva finire e la sua lingua mi mancava.

Ci voleva un cambiamento.

Arrivai alla porta di casa troppo subito per cambiarla con una bocca laccata mentre superavo quel silenzio.

Il sonno grigio era passato a giallo, e il mio appartamento fu subito più piccolo quando con due passi arrivai al mio terrazzo: una replica mignon del cortile che mi ributtava al prato sottostante.

Avrei voluto che quel punto nero laggiù venisse da me pennellandomi la giugulare come una calda e gommosa lumaca.

Dovevo scaricarla. Non funzionava, non più.

Il lombrico nella grondaia era annodato come una cravatta e istintivamente mi toccai il collo e mentre lo facevo rivedevo le lunghe passeggiate, le attese strette e nervose ai semafori, gli sguardi colmi d’invidia, le nostre curve, perché nei fruscii, nostre erano. Gli odori per noi erano profumi che insieme all’attenzione smodata verso i suoni diventavano rimbalzi immaginari.

La sua voce era un suono intimo, che legava i nostri corpi fondendo gli umori.

I dialoghi? Parlava sempre lei: io ascoltavo a volte con il timore della sorpresa.

Era acuta, a volte prevedibile, ma non per questo scontata. Io vivevo in una sorta di oblio continuo, da brividi cullati.

Ora mi mancava.

Il desiderio del contatto era continuo: io la lavavo, l’asciugavo anche, soprattutto, nelle parti più nascoste alimentando così il mio tormento, il desiderio.  A volte, a cavalcioni, uno sull’altro, il caldo al pube mi faceva sentire a disagio come se la passione non bastasse, come se i suoi fremiti fossero attacchi isterici. Io, stupido e coglione, allora alimentavo il mio trasporto strizzando nelle mani le sue compatte estensioni.

La guardavo da lontano: era la migliore.

L’avevo presa per sempre navigando su internet: nera, meravigliosamente nera opaca.

All’imbrunire i suoi occhi a mandorla brillavano come libellule al sole.

Al mare, d’estate, trasudava l’emozione del viaggio: era un odore acido, ma al contempo melenso. Ricordo che una volta, mentre lei era al mio fianco, raccolsi di nascosto con l’indice una goccia del suo umore dall’asfalto: la succhiai con la punta della lingua come fosse tutta lei.

Il suo musetto, a sputnik, plasmava i bisbigli del desiderio sino a tradurli in acute melodie.

Le altre erano lì, silenti per sempre, nelle gallerie affollate dai fantasmi.

La riguardai, dal terrazzo.

La condensa notturna colava luccicando su quella pelle nera di cazzo, sempre senza temperatura propria: come si poteva assomigliarle?

Avrei voluto aspirarla, lisciarla, con la lingua estesa e protesa come un sesso, deglutendo le sue forze per portarmi a lei dentro i suoi punti irraggiungibili, per scoprire il miracolo della sua vita.

Bastava un desiderio esplicito e Lei era subito pronta. S’illuminava accogliente: mai un problema, mai un diniego, mai una delusione.

Ricordo che una volta mi diede l’inimmaginabile mentre, devastato da un eccesso maschile, le chiesi di non vedere altro che la purezza dell’aria: fu un incanto inaspettato. Non esisteva nessun altro che noi. Un’esperienza unica consumata in autostrada. Dov’ altro sennò?  Fummo pizzicati dalla pula che ci fece un culo tanto: lei neanche una piega, docile, al minimo, fino a spegnersi accaldata.

Quella volta provai un po’ di vergogna, ma la ripiegai come si fa con un segreto: il nostro e della pula – pervertiti -.

Mi chiesero, cazzo se mi chiesero, dove l’avevo presa, come , perché, cosa faceva e come lo faceva. Io minimizzavo: temevo la nostra separazione, l’allontanamento.

Quello che più mi faceva incazzare era la sua identificazione: così aperta, così visibile, senza ritegni. In realtà mi vergognavo del fatto che tutti potevano vedere, sapere, rintracciare, scavare: era mia, ma tutti sapevano tutto di lei – guardoni di merda – .

I liquidi: questo è un capitolo a parte. Beveva molto, troppo: faceva più male a me che a lei. Lei se ne sbatteva, anzi, con più le davo dentro con più beveva.

Comunque non era clandestina. Voglio dire, tutto in regola: poteva circolare senza problemi anche se sui marciapiedi a volte sentivo rivolgerle pesanti insinuazioni: io, codardo, me ne stavo indifferentemente, in disparte, facendo finta di nulla come se non fosse mia.

Quando andavo al cinema, le prendevo un posto riservato: certo spendevo di più, ma ero sicuro di ritrovarla, solo per me, come prima, senza segni o maltrattamenti.

Lo so che sono un po’ paranoico, ma è così che mi piace: sapere cosa trovo, e poi la riconoscenza mi fa impazzire. A pensarci bene credo che quest’ultima sia un po’ una cazzata tutta mia, ma chi se ne frega.

 

Vabbè, tanto domani … Adesso cazzo!  Ho dato la mia parola!

“La scarico e ne prendo un’altra”: questo è lo spregevole ritornello che mi martella le tempie da troppo tempo.

Di corsa mi precipito dalle scale, esco in cortile. Sul prato la guardo ansimante e l’avvio per l’ultima volta alle 07.22.36 di giovedì 10 dicembre 2009, quando il mio inquilino del piano di sotto, faccia da pirla, mi passa 7.855,00 €, ultimo prezzo pattuito. Con quei soldi ne monterò un’altra, ultimo modello, nera opaca come Lei, ma brizzolata rosso amaranto, ottoemmezzo, 75 cv, con l’aria condizionata che arriverà diretta sulle palle così da non sudare più d’estate, almeno lì.


Lascia un commento