"Taxi" di Susanna De Ciechi


 

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Dovevi andare all’ospedale per un controllo, una cosa da niente.
Però eri in anticipo.
Il vento era freddo ma c’era il sole. Appena fuori dal portone ti sei bloccata, indecisa: prendere subito un taxi o fare due passi? Hai seguito un odore di foglie e di aria pulita e hai imboccato la strada che passa attraverso il parco. Il taxi l’avresti preso più in là.
Hai rallentato.
Cammini sempre troppo in fretta, perfino quando non hai una meta. Hai frugato nella borsa: una pila, un moschettone con il corollario delle chiavi, la Molenskine, un mandarino e una Parker dall’aria ricercata. Finalmente hai pescato gli occhiali da sole.
Poi le hai viste, lontane.
Due donne.
Venivano nella tua direzione.
Camminavano piano per non perdere le parole l’una dell’altra. Quando il discorso diventava più serio, magari un rimando a una cosa brutta o a una preoccupazione, si fermavano, poi riprendevano ad andare con passi un po’ scoordinati. L’una aspettava l’altra in un inciampo di borse a tracolla che scorrevano giù dalla spalla, l’accendino perso dentro la tasca, la sciarpa che scivolava fino a terra sulle foglie scolorite. Allora la bruna la tirava su, per riavvolgerla con amore intorno al collo lungo dell’amica, una bionda dall’aria pacata.
Ogni tanto una risata, uno scoppio di voci in cui era lampante il piacere d’essersi ritrovate. Forse era un incontro casuale, non cercato.
Dritte, due belle figure di un’età indefinita.
Di lontano potevi immaginare che fossero quasi giovani, tra i quaranta e i cinquanta però… c’era qualcosa.
La distanza tra te e loro si andava accorciando.
Hai notato gli abiti. Non erano alla moda, ma comodi e nell’insieme non c’era una gran cura del colore, ma del calore sì. Le stoffe erano preziose, forse cashmere, le dita inanellate sparavano guizzi di luce.
Diamanti, roba che nessuno usa più.
Solo le vecchie.
E ricche o almeno molto benestanti, una razza quasi estinta.
Ti sei stretta la pashmina al collo e, con un gesto cui non fai più caso, hai controllato il solitario che porti ogni giorno, quello da un carato, il regalo dei tuoi diciotto anni.
Adesso stai per incrociare le due amiche e, per non essere indiscreta, decidi di tenere lo sguardo basso.
Vedi le mani, oh quelle mani, simili a un plastico che riporti colline e vallate dei colori dell’autunno, le dita un po’ storte. Le unghie corte e lo smalto trasparente.
Di sicuro sono tra i sessanta e i settanta, almeno.
Non resisti e alzi gli occhi.
Le capigliature sono il risultato dell’impegno di un raffinato parrucchiere, gli occhiali da sole al posto del trucco.
Ti sfiorano.
Una bolla d’aria gelida contiene le due amiche, che strano, eppure il sole è tiepido.
Hanno smesso di parlare.
Ti guardano e tu ricambi l’occhiata.
Hai un brivido, ti sforzi e allunghi il passo, poche falcate e sei fuori della loro portata, fuori dal parco, sulla strada trafficata, dentro un viavai di mezzi e di gente.
Ti volti.
Il vialetto è vuoto, le due donne sparite.
Come non ci fossero mai state.
Alzi una mano, sventoli le dita luccicanti e chiami un taxi, intanto scendi dal marciapiede.
L’auto bianca rallenta e accosta, silenziosa. Allunghi la mano per aprire la portiera, ma ti blocchi. Nel riflesso del vetro c’è una vecchia.
Un’apparizione. Una sorpresa.
Sei tu? Ma sì, sei proprio tu e vai all’ospedale per quel controllino. Ricordi?
Resti incerta, spaesata, poi scoppi in una risata.


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