“I pensieri di Jo, lo storpio” di Laura Veroni


I

Il mio nome è Jonathan, Jo, per gli amici, ma per tutti sono “lo storpio”. Colpa della mia gamba destra, dieci centimetri più corta dell’altra. No, non si è trattato di un incidente. Sono nato così, per questo mia madre non mi ha voluto, mi hanno detto. Non ho mai creduto a questa storia o, meglio, ci ho creduto da bambino – i bambini, si sa, credono a tutto quello che gli adulti dicono -. Una volta diventato grande, mi sono interrogato a lungo e sono giunto alla conclusione che una madre non può abbandonare un figlio per un semplice difetto fisico: doveva essere un altro il motivo, ma non lo saprò mai.
Fa freddo oggi. E’ una giornata umida e piovosa. Sto aspettando Gloria, mia moglie: mi doveva raggiungere qui, alla clinica, un’ora fa. Gloria è una donna fantastica, ma ha un solo grandissimo difetto: non sa cosa sia la puntualità. Approfitterò del suo ritardo per godermi ancora un po’ la presenza di mia madre. Mi fa male vederla così, distesa in un letto, immobile. I suoi occhi rotolano senza sosta tra la porta e la mia figura, che le impedisce la visuale fuori dalla finestra. Lo so che cosa spera, che cosa aspetta: aspetta che Paola varchi la soglia. Mi avvicino al capezzale e la osservo: è ancora bella, nonostante l’età, nonostante la malattia. Bella, sì, anche con quella smorfia stampata sul viso, da quando l’ictus l’ha colpita, qualche giorno fa. Mia madre si chiama Serena e un tempo lo era davvero. Mi chiedo che cosa pensi ora. Ha perso l’uso della parola. Immagino sia molto arrabbiata col mondo e forse anche con Dio. Mi pare di sentirla chiedere Perché mi hai fatto questo? Quante volte l’ho chiesto anch’io! Perché, Dio, mi hai fatto questo? Perché non mi hai fatto come gli altri? Ho smesso di chiedermelo, quando Gloria si è accorta di me e mi ha detto di amarmi. Fino a quel momento, ho sempre creduto che le uniche persone al mondo che potessero amare uno storpio come me fossero le mie due madri adottive, Serena e Paola.
Come? Non ve l’ho ancora detto? Sono stato adottato all’età di otto anni, nel 2020. Prima di allora, le adozioni non erano consentite alle coppie gay, oggi ce ne sono diverse, ma io credo di essere stato uno dei primi. Di me si era parlato e scritto molto all’epoca. La mia adozione aveva fatto scalpore.
Ricordo ancora quando le mie due madri vennero a conoscermi in istituto. Non riuscivo a capire come mai gli altri bambini venissero dati in adozione a un uomo e una donna, mentre io a due persone dello stesso sesso. Però non mi importava: volevo solo andarmene di lì, volevo qualcuno che mi amasse, volevo sentire il calore di una famiglia, volevo sentirmi figlio. Ne avevo visti di bambini lasciare l’istituto prima di me. Quando le coppie venivano in visita a noi bambini, riempivano gli altri di sorrisi, mentre a me riservavano solamente sguardi schivi. Capii solo più tardi che si trattava di pietà. Il povero zoppo! Serena e Paola, invece, mi avevano accolto con il calore di un sorriso sincero: finalmente potevano avere un figlio tutto loro!
Non dimenticherò mai la loro felicità, quando mi portarono a casa. Avevano preparato una stanza tutta per me: si sentiva l’odore della tinta fresca alle pareti, di un celeste intenso. Sul letto era adagiata una trapunta con stampati degli orsacchiotti. Non mi vergogno di confessare che conservo ancora quella coperta, nel fondo del mio armadio: l’avevo amata da subito, perché sapeva di casa, di famiglia.
Serena e Paola avevano appeso alle pareti stampe con i personaggi dei supereroi, proprio quelli che piacevano a me. Solo quando vidi quei disegni, compresi perché le mie due madri avessero tanto insistito per sapere quali fossero i miei preferiti, quando erano venute all’istituto. Sul tappeto, al centro della cameretta, avevano disposto una cesta di vimini traboccante di giocattoli, mentre sulla mensola accanto al letto erano disposti in perfetto ordine diversi libri di fiabe. Ho presente, come fosse ieri, la dolcezza della voce di Serena, quando, prima di spegnere la luce e augurarmi la buonanotte, mi leggeva le pagine di quei libri. A Paola non piaceva molto leggere le storie: preferiva inventarle. Facevano a turno: una sera leggeva una, la sera successiva recitava l’altra. Mi sentivo un bambino fortunato, mi sentivo voluto, per la prima volta in vita mia. Serena e Paola erano due madri meravigliose, le migliori che potessi sperare di trovare, anzi, le migliori che avrebbero potuto trovare me.
La nostra era una famiglia diversa dalle altre. Nel condominio dove abitavamo, ci guardavano tutti con diffidenza e curiosità, qualcuno anche con un’espressione che mal celava un certo disprezzo, specialmente la coppia di anziani del piano di sopra, che disapprovava tanto l’adozione, quanto l’unione di Serena e Paola. I bambini del vicinato mi prendevano in giro e mi ferivano con frasi volgari e allusive alla scelta di vita delle mie madri. Spesso mi sono sentito chiedere chi delle due fosse il papà e chi la mamma. Per me non c’era distinzione: io le amavo entrambe allo stesso modo e questo mi bastava.
A scuola venivo deriso dai compagni, ero un emarginato. La maestra faceva di tutto perché gli altri bambini si avvicinassero a me, ma erano sempre sforzi vani. Ebbi un solo amico, Guido. Guido era un bambino Down, ma aveva un’intelligenza superiore alla norma e una grande sensibilità. Sorrideva sempre. Non lo vidi più, dopo la scuola.
La mia non è stata una vita facile, lo devo riconoscere: è dura scontrarsi ogni giorno con i pregiudizi della gente.
Quando arrivai alle superiori, forse perché i miei compagni erano ragazzi adolescenti, forse perché faceva fico avere un amico diverso, divenni il leader della classe. Quella cosa mi gratificò al punto da darmi forza e consentirmi di affrontare con una grinta maggiore la vita. Puntai tutto sulla mia intelligenza e sulla mia interiorità, non potendo fare colpo col mio aspetto. Le ragazze non mi filavano, ma avevo diversi amici maschi e cominciavo a sentirmi finalmente riconosciuto come persona. Mi buttai a capofitto nello studio, raggiungendo risultati eccellenti. Tutti mi cercavano, tutti mi volevano nei gruppi di studio. I compagni che invitavo a casa non sembravano poi tanto sconvolti dal fatto di vedere due donne come genitori, anche se la cosa pareva strana e, forse, all’inizio, un po’ imbarazzante. La mia vita, però, ebbe una svolta decisiva con l’Università: fu lì che conobbi Gloria. Non fu amore a prima vista, non per lei almeno. La cosa nacque da sé, poco per volta. Cominciammo con lo studiare insieme, poi scoprimmo di avere gusti e interessi in comune. Ci entusiasmavano le stesse cose, condividevamo gli stessi pensieri. Lei mi faceva sentire bene. Mi dicevo di non illudermi, perché nessuna ragazza si sarebbe mai potuta innamorare di uno storpio con due madri come le mie. Non le parlai di Serena e di Paola per diverso tempo: avevo deciso di farle accettare una cosa alla volta di me. Temevo potesse respingermi. Invece fu più semplice di quanto avessi previsto, anzi, direi quasi naturale. Quando la invitai a casa, tutto si svolse normalmente. Gloria piacque subito a Serena e a Paola, che furono felici per me e per la mia scelta e la mia ragazza non provò quel disagio che io temevo tanto. Venne accolta come una figlia.
Le mie due madri non mi hanno mai ostacolato nelle mie scelte, piuttosto mi hanno sempre sostenuto. Sono state figure fondamentali per me e, nonostante l’anomalia della nostra famiglia, posso affermare con certezza che noi tre siamo stati una vera famiglia e lo siamo tuttora.

Ecco che si apre la porta e Paola varca la soglia.
Si avvicina prima a me e mi bacia sulla fronte con la sua solita tenerezza, poi mi accarezza i capelli.
<<Ciao, tesoro>>, mi sussurra.
Le stringo la mano.
Serena emette un mugolio. Le si illuminano gli occhi: è felice, adesso che Paola è qui.
Paola si avvicina al letto, raggiunge la sua compagna e la guarda con una dolcezza che non credo di avere mai scorto nello sguardo di nessun altro essere umano, uno sguardo che trascende la fisicità e sconfina nel metafisico. Le sfiora lievemente le labbra con un bacio leggero. <<Ciao, Amore, come stai oggi?>>, le domanda.
Serena ha perso l’uso della parola, ma i dottori dicono che dovrebbe essere una cosa temporanea, che con la riabilitazione dovrebbe recuperarla. Abbiamo incontrato proprio ieri la logopedista e ci è sembrata fiduciosa o, almeno, ci ha ispirato fiducia e ottimismo, in fondo siamo nel 2042 e qualche passo in avanti la medicina lo ha fatto.
<<Gloria?>>, mi domanda Paola, notando la sedia vuota accanto a me.
<<E’ in ritardo, come al solito>>, le rispondo con un mezzo sorriso.
Mi sforzo di mostrarmi sereno, ma proprio non ce la faccio. Non voglio dar voce ai miei sentimenti, perché so che anche Paola sta soffrendo e vorrei sollevarla un po’ dal peso che si porta dentro.
<<Guarda che cosa ti ho portato!>>, esclama, rivolta alla compagna della sua vita.
Estrae dalla borsa una fotografia di noi tre al mare e la appoggia sul comodino. L’ha fatta incorniciare in una cornice d’argento. Quasi non ricordavo quello scatto. Mi alzo dalla sedia e mi avvicino a mia volta. Osservo la fotografia: siamo seduti su un pedalò, Paola e Serena sono abbracciate, le loro guance si appoggiano l’una all’altra e sorridono; io sono seduto in mezzo, sulle loro ginocchia, stringo tra le mani il pupazzetto di Superman, il mio supereroe preferito, e rido felice, i capelli scompigliati dal vento. Era la nostra prima vacanza insieme. Ecco, adesso vorrei tanto avere i superpoteri di Clark Kent e ridare a mia madre la salute.
<<E’ già passato il dottore?>>, mi chiede Paola.
<<Non ancora>>, rispondo.
Percepisco la sua apprensione.
<<Tu come stai?>>, mi domanda.
<<Bene>>, mento. Ho un dolore in fondo al cuore che scava senza tregua, da quando è successo tutto questo.  Mi addolora sapere che Serena potrebbe non tornare più quella di prima e so che questo fa molto male anche a Paola. Non ho ancora detto a nessuna delle due che Gloria e io aspettiamo un bambino. Volevamo aspettare il terzo mese. Veramente è Gloria che vuole così, per scaramanzia, ha detto, perché, si sa, i primi tre mesi sono a rischio. Adesso, però, muoio dalla voglia di comunicare la notizia. Credo che porterebbe un po’ di serenità nella vita delle mie due madri sapere che diventeranno nonne. Già me le vedo a viziare il nipotino, riempirlo di coccole, attenzioni, regali.
Avrei voluto trovare un momento diverso, mi sarebbe piaciuto annunciare l’evento seduti attorno al tavolo di casa nostra. Mi immagino la scena mentre si svolge davanti ai nostri occhi: Serena e Paola che scoppiano in lacrime, si abbracciano strette e poi abbracciano anche noi, Gloria che piange per la commozione.
So che Serena e Paola sarebbero delle nonne perfette. E prego Dio ogni giorno che aiuti mia madre a uscire da questo stato, che le dia la forza di risollevarsi, di tornare quella che era o, almeno, una persona simile a quella che è stata per tutta la vita.
<<A cosa stai pensando?>>, mi chiede Paola, mentre mi asciugo col dorso della mano una lacrima che scende, vergognandosi, lungo la guancia.
Ho lo sguardo fisso sulla fotografia.
<<Alla famiglia che siamo stati e a quella che saremo!>>, rispondo.
<<Scusate il ritardo!>>, esclama Gloria, facendo irruzione nella stanza, portando con sé l’essenza della felicità celata nel grembo.
Ci voltiamo verso di lei. Io la raggiungo, le poso una mano sul ventre e la bacio sulla bocca.
<<Che cosa facciamo?>>, mi bisbiglia all’orecchio. <<Glielo diciamo adesso o aspettiamo?>>
<<Adesso.>>

 


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