"Il diario secondo Luca" di Massimo Messa


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Trovai sui binari della Stazione Centrale un quaderno stropicciato, nero, con i bordi delle pagine rossi, scritto a biro da un clochard di Milano, che si è firmato Luca. La calligrafia era pulita, La mano era ferma, la scrittura minuta e sottile. Non si trattava di una persona poco istruita e il diario era scritto in buon italiano. La memoria faceva riferimento all’anno 1986. Lo lessi e lo rilessi, lo corressi e lo pubblicai.

 

Camminavo verso la stazione. Pioveva abbastanza fitto e faceva un freddo della malora. C’era davvero un tempo da cani, quando tutti non fanno altro che starsene nei loro tiepidi cantucci. Mi avevano cacciato via da quella stanza indecente, affollata di mobili di scarto, un divano e una poltrona paffuta, ricoperta di quel particolare velluto rosso e pruriginoso che richiamava le giornate d’afa sul treno dei pendolari. Le pareti erano ammuffite, di un colore che ricordava uno sputo pieno di tabacco. Niente televisione. Due specchi antiquati riflettevano il tempo che faceva fuori, nella strada di periferia, al limitare di un deserto privo di qualsiasi interesse. Ora ero un senza tetto. Evviva! Mi misi le mani in tasca e sentii le mie banconote. Le trecentomila lire che mi avevano dato per aver sgomberato cinque solai in una settimana. Mi presi da una tasca del giubbino il berretto di lana fatto a mano da mia madre e me lo ficcai in testa. A svoltare sulla strada dritta che menava da Greco a Milano mi tornò di lato, in tutta la sua imponenza, il Pirellone della Regione. La pioggia cadeva fitta e insistente su tutto intorno a me, ma soprattutto sopra me stesso. Sul marciapiede buio e limaccioso non mi accorsi di una livida pozza di fango. Ci caddi dentro a peso morto lordandomi i pantaloni e schizzandomi di mota da far schifo. Laggiù in fondo si intravedevano le luci gialle della stazione.

“Ecco il barbuto terrone che affronta la battaglia con l’intera metropoli fottuta e strafottuta” dissi a me stesso.
Stavo facendo il mio ingresso nella Milano con le gambe aperte con le mie scarpe polacche tutte zuppe d’acqua ghiacciata e mi domandavo in che bagnarola fossi andato a cacciarmi. Ormai ero diventato un tutt’uno con la pioggia, ma mancava poco alla stazione. E così cominciai a fumare nella notte come un locomotore. Il mio borsone da viaggio era tutto fradicio e la pasta ormai tutta a mollo nella padellona con gli stracci.
Fendevo l’aria frizzante come un comandante pirata che aveva appena perduto il suo bastimento ingoiato dalla bufera e si dava da fare per riguadagnare la riva, mandando alla malora tutti i suoi tesori raccolti e tutti i suoi ricordi di gloria, proprio come il mio passato da studente di filosofia alla Statale.
Il cappello di lana era ormai tutto un grumo d’acqua e allora me lo tolsi e mi scontrai a viso aperto sotto la pioggia scrosciante, proprio come quelle brutte cornacchie che s’incontrano sull’autostrada.
In piazza Duca d’Aosta c’era una fontana di cemento con un leone che sputava acqua. Mi lavai la faccia e le mani dal fango. Mi strapazzai i mie stracci e, salvo qualche alone incancrenito, riuscii a rinnovarmi i pantaloni alla bell’e meglio.

Mi addentrai allora in quel mondo oscuro e misterioso che è la Stazione Centrale di notte. Erano le cinque esatte del mattino. Lo vedevo da quei brutti orologioni ferroviari. Ma era inverno e così c’era tutt’attorno la notte pesta. Per dir la verità era già cominciato un debole andirivieni di passeggeri, di operai, di uomini fatti e disfatti, tutta gente che s’avviava con dolore alla becera fatica quotidiana. Io invece ero lì, ben nullafacente.
Ai vari bar avevano già cominciato di gran lena a far caffè e cappuccini. Si sentiva anche un buon odore di paste alla crema appena sfornate tutto in giro. I clienti infreddoliti si aggrappavano alle loro tazzine calde più per scaldarsi che per ristorarsi. I giornalai, con enormi pile di quotidiani appena arrivati davanti alle loro edicole, si dannavano l’anima, affannati com’erano a mettere a posto prima della gran ressa degli avventori. Venne anche a me d’istinto di farmi un caffè e un giornale. Ma avevo lo stomaco bloccato mentre, di solito, ragazzi, credetemi, sono un gran bevitore di intruglio nero e un gran ramazzatore di quotidiani. Sono capace di farmi il caffè a bottiglioni interi, fino a farmi venire il cuore pazzo e di sciropparmi il lessico astruso dei vari quotidiani dall’inizio alla fine, dall’editoriale del direttore fino alla cronaca più melliflua.
Mi lisciai i capelli bagnati e salii gli scaloni del grande androne principale, sempre in compagnia della mia bella borsa da viaggio, e me ne andai nella sala d’attesa di seconda classe. Non so se avete presente la sala d’attesa di seconda classe della stazione centrale di Milano. Se no tanto di guadagnato per voi! Se sì, so bene che ci avrete dato un’occhiata di sfuggita e che poi sarete schizzati subito via ripromettendovi con determinazione di non metterci mai più piede in vita vostra. Comunque io ci entrai, non avevo dove andare in quell’ora del mattino e allora mi adoperai per sistemarmi al primo posto libero, che trovai su un gran pancone di legno, in fondo a destra. Quella era la sala d’attesa delle anime ormai perse per sempre, in dimora di spostamento all’inferno perché davvero non può esservi più riparo alla loro straziante dannazione. Ci sono i derelitti. Ci sono battone in attesa di tornare in provincia dopo la notte di lavoro, ladri di biciclette in partenza per la riviera per rinnovare il loro parco vendita, ubriaconi annegati nel loro misero bottiglione di vino di scarto, proprio come mosconi rivoltanti presi alla sprovvista E poi ragazze scappate di casa, vecchi randagi buttati fuori casa dai figli, ragazzi falliti abbandonati da anni alla strada e al loro infausto destino di vagabondi. E poi froci, balordi, mentecatti…
Nella sala d’attesa di seconda classe i passeggeri provvisti di biglietto, in attesa di partire con un treno, si possono contare, per essere di manica larga, sulle dita di un monco. Gli altri preferiscono aspettare negli androni, vicino alle biglietterie, davanti ai binari, ma mai in quel pentolone ribollente di sbobba sbuffante di tutti quegli avanzi umani.
Quand’ecco che, all’improvviso, viene a sedersi accanto a me una ragazza sui venticinque anni. Un giubbotto di pelle nera tutta ricamata a cerniere e a borchie, una gonna azzurra di fustagno tutta sdrucita. Al collo una catenina d’oro fine fine. Una massa di capelli rossastri tinti, uno sguardo insistente da fata di paese in trasferta nella grande tentacolare metropoli. Sulla sua boccuccia ben definita un bel rossetto fuoco passione spalmato in generosa quantità. Si trascinava un carrello da supermercato con dentro i suoi stracci d’abbigliamento. Io me ne stavo nelle vicinanze di un gran termosifone che aveva cominciato ad asciugarmi per benino. “Dammi un po’ di calorifero!” mi disse. E si allocò vicino a me, avvicinandosi il più possibile. Le feci spazio e la guardai con attenzione. Era una ragazza sulla strada. Si vedeva benissimo. Eppure era bella forte! La ragazza aveva due rose in mano e un profilattico di quelli ultrasensibili. Non aveva la faccia della ladra, ma era meglio non fidarsi. Avevo il mio salario in una tasca del mio giubbino e mi doveva durare un bel po’. Sistemai il borsone da viaggio tra le mie gambe e mi allungai verso il termosifone per prendere quanto più caldo possibile. Ci eravamo messi alla meglio su quel pancone di legno scheggiato quasi fossimo due vecchi amici.
Alla fine lei mi guardò dritto negli occhi e disse: “Scusa, ma stai pure tu ad aspettare Zorro?”.
Strabuzzai gli occhi per lo stupore.
“Zorro chi? Avrai mica fumato roba pesante?” le chiesi.
“Come chi? L’uomo mascherato che difende i deboli e attacca i ricchi” rispose lei con l’aria più pacifica di questo mondo “di solito mi regala un po’ di pane e di latte e poi riparte per le sue avventure”.
Non sembrava in preda all’alcol.
“Beh, del latte caldo, ti confesso, andrebbe bene anche a me”.
“Prima ci sono io, poi, con calma vieni tu. Ho capito subito che sei un cafone di campagna appena calato in città!”.
“Forse hai ragione” dissi io, serafico “non si può aver tutto dalla vita”.
“Che sei venuto a fare a Milano? A rubare?” chiese lei di punto in bianco.
Tutto sommato, più la guardavo e più pensierini cominciavo a farmi su di lei. Era matta, questo sì, ma pure gnocca. Adesso poi che accavallava le gambe e mi mostrava le cosce… Il preservativo l’aveva già in mano. O forse mi illudevo?
“No, no, non oso aspirare a tanto!” risposi “sono solo uno studente di filosofia”.
“Ah, uno sfaticato, allora” disse lei e aggiunse: “Matteo, il mio fidanzato, lo mantengo io… ma qualche trombata la devo pur combinare ogni tanto.
Matta e pure batte! Che mondo del menga è mai questo?
“Sei una bella ragazza, non dovrebbe essere difficile rimorchiarti qualche cliente” le dissi poi.
“Sì, va bene, ma il tipo mi deve pure piacere, se no non se ne fa niente, lo capisci?”.
La guardai con compassione. Questo Matteo doveva essere un gran bastardo se mandava a battere una bella ragazza come quella.
Poco lontano da noi un ubriaco con il naso rosso come una melanzana si alzò e cominciò a sbattere forte il suo cappotto sudicio. Ne stava mandando di cimici e di pidocchi in libera uscita! Mi rannicchiai di lato e cercai di mettermi fuori tiro.
“Per esempio, tu sei il mio tipo!” riprese lei e mi sorrise.
“Davvero?” e sorrisi anch’io, compiaciuto.
“Mi stimoli, anche se sei un tamarro buzzurro venuto giù dalla montagna! Ma chi ti credi di essere? Sei anche tu qui a riscaldarti al termosifone come un pezzente qualsiasi!”.
“Sì, hai ragione” confermai “ma non t’allargare ora!”.
“Io mi allargo fin che mi pare, non vedi quanto sono fica?”.
“Questo lo devo ammettere, sei proprio un bel trancio!”.
“Mi prendo ventimila. Una miseria. Vieni allora?” mi chiese lei determinata.
“Sarà per un’altra volta” risposi. Non mi andava proprio il suo modo di fare e l’altro ciarpame dietro.
“La prima impressione è quella che vale: sei proprio un cafone!” replicò irritata “e poi chi credi di essere tu che studi filosofia, come ti chiami? Avrai un nome, no?”.
“Sono Luca, di Molfetta”.
“E io sono Maria” rispose con più calma e riprese a sorridermi:
“Senti, Luca, facciamo così!” e rimase in silenzio.
“Come?” le chiesi.
Mi mise la mano sulla patta dei pantaloni e cominciò ad armeggiare dolcemente. Il preservativo ultrasensibile sempre in una mano. Le rose le aveva appoggiate per terra.
“Ti faccio un pompino e mi dai diecimila lire. Ce le avrai almeno diecimila lire no?”.
Le fermai la mano. Quando una ragazza prende l’iniziativa con me, io mi spavento.
“No, non se ne parla nemmeno!” le risposi, definitivo.
Poi presi ventimila lire dalla tasca del mio giubbino e gliele diedi.
“Tieni, Maria, amici come prima e vai con Dio!”. Feci quel gesto e mi domandai se poi facesse davvero bene andare con Dio, se si considera che la Bibbia inizia con un Paradiso e finisce con un’Apocalisse.
“Amici un bel niente!” urlò lei “mi hai pagato e ora ti faccio godere”.
Lei cercò quasi con protesta di tirarsi fuori da quella luce equivoca in cui avevo cercato di cacciarla. Una maligna soddisfazione deformò il suo volto. Arraffò con gran velocità le banconote miserabili e le fece sparire all’interno del reggiseno. Poi spostò il carrello del supermercato di traverso per creare un angolo d’intimità, mi tirò fuori il rubinetto, me lo fece rizzare, me lo smanettò un po’. Volevo oppormi, ma non c’era niente da fare. Srotolò il preservativo, me lo incappucciò sopra e prese a sblobbarmi.
Gli altri non badavano a noi, troppo presi dalle loro disgrazie. E poi eravamo in posizione discosta, ben lontana dall’ingresso. Una bocca in piena ressa nella sala d’attesa di seconda classe della stazione, non è proprio il massimo. Comunque la cosa andava avanti e non c’era male. Forse avevo davvero bisogno di scaricare un po’ di tensione accumulata nei giorni degli sgomberi. Così mi rilassai e mi lasciai andare. Maria, la matta che aspettava Zorro, lavorava di fino e non ci sarebbe voluto davvero molto…
Quando, all’improvviso, ecco apparire due ferrovieri e quattro poliziotti. Mi prese un colpo. Me lo tirai dentro in tutta fretta e mi chiusi la cerniera.
Maria si alzò e disse..: “Che rompicoglioni… delicati come un colpo di cannone!”.
Quelli si misero a controllare i biglietti. Non ce li aveva nessuno, naturalmente. Poco dopo, nauseati dall’odore di stallatico e dallo spettacolo miserabile, se ne andarono sbuffando qualcosa all’indirizzo di tutti che assomigliava a “Scimmioni fetenti!”.

Io mi riposizionai vicino al termosifone. Fuori non pioveva più, c’era soltanto una nebbiolina nell’aria. Ero piuttosto stanco e ne risentivo anche di quella interruzione boccaccesca. Ma la ragazza mi strattonò “Ehi, Luca, guarda chi arriva!”.
Non ci crederete, ragazzi, e anch’io stentai a fare mente locale. Ma un tipo vestito di nero con un largo mantello sulle spalle, un cappello nero a falde larghe in testa e una mascherina nera di carnevale in faccia, tirava un carrellino pieno di latte scremato da mezzo litro.
“Ecco Zorro!” gridò Maria.
Zorro esisteva veramente e se ne andava in giro a distribuire latte: un angelo all’inferno!
Si avvicinò a noi e chiese a Maria: “Latte, ragazzi?”.
“Certo” rispose.
“Quanti cartoni?” la sua voce era rauca.
“Due” rispose e mi additò come l’ultimo acquisto della congrega dei pazzi alla Centrale.
Ci diede i due cartoni e ci chiese cinquecento lire.
Lo pagai e se ne andò. Era un uomo sui cinquant’anni, dal viso duro, segnato dalle intemperie e dagli occhi grigi e infelici. Aveva le scarpe logore e zoppicava.
Chiesi alla mia vicina come si chiamasse in realtà.
“So che si chiama Marco, so che fu lui a drogare il Padreterno, ma non so altro” rispose.
Aprimmo i due cartoni e, prima d’ingollarci il latte, Maria mi chiese: “A chi brindiamo?”.
Ci pensai un attimo e le risposi “Agli amici assenti!”.
Lei annuì, poi mi fissò come per scrutarmi dentro: “Se vai all’università, conoscerai qualche professore, suppongo”.
“Sì, qualcuno”.
Non capii subito dove voleva arrivare, anche se avrei dovuto.
“Ne hanno di soldi i professori, vero?”.
“Beh, credo di sì se sono arrivati a insegnare all’università”.
“Se me ne presenti qualcuno, ti do la percentuale” mi fece lei, seria.
“Ma su che?”.
“Sui pompini, no? Su cosa se no? Sulle pastiglie per la tosse?” rispose arrabbiata.
Rimasi sorpreso della sua proposta, della sua reazione, dei progetti che stava facendo su di me. Com’è sballato questo mondo, specie se stai nel ghetto!
“Ma non se ne parla neanche!”.
“Perché?” fece lei, meravigliata.
“Perché? Perché non sono mica un magnaccia!” alzai la voce, ma lì si era in famiglia, nessuno si degnò di badarci.
Maria sorrise beffarda. I suoi capelli brillavano di luce riflessa. Aveva proprio una chioma strepitosa. E lei, me ne accorgevo sempre di più, era proprio bona forte. Sembrava una fata irlandese scesa dal bosco incantato delle fiabe del nord al marasma italiano a cercar fortuna. Per l’appunto la tentava facendo la mignotta.
“Ah, non è un magnaccia il signorino!” urlò lei, a sua volta “e chi sei, allora? L’apostolo Giovanni, il prediletto del Signore?”.
“Non sono di certo uno stinco di santo, ma non per questo debbo per forza essere il ruffiano di una meretrice di Babilonia!”.
“Ma come parli? Che cazzo dici?”.
“Ho detto che i clienti io non te li trovo, né tra i professori, né tra i bidelli!”.
“Dammi cinquantamila lire allora” disse Maria, di botto.
Io slargai gli occhi come una civetta.
“Cinquantamila? E perché?”.
“Tu non mi procacci i clienti, ma io ti procuro una puttana!”.
“Non me ne frega niente delle puttane. Cerco ben altro nella vita!”.
“Sì, sì, dì pure quello che vuoi nel tuo vocabolario di studente fallito, ma io so che ti piacciono, ti piacciono, va là che ti piacciono”.
“Ti piacciono chi?”.
“Le puttane!” rispose.
“Va bene, ammettiamo che mi piacciano. E allora? Ti dovrei per questo pagare ogni volta che apri bocca?” mi stavo davvero scocciando.
“Bisogna vedere dove…” fece Maria.
“Dove che cosa?”.
“Bisogna vedere dove apro bocca! Se la apro sul tuo pisello certo che mi devi pagare!”.
“D’accordo. Ma cerchiamo di smetterla ora” replicai, stanco di dover combattere sempre con tutti, anche col barista quando prendevo il caffè.
“Va bene, smettiamola. Ma le cinquantamila me le dai, sì o no? Perché, se ti piacciono le puttane, io te ne trovo una, bella, affascinante, ben tenuta, quasi vergine. E tu mi paghi. Giusto?”.
“Giusto un corno!” sbottai “Tu mi trovi una quasi vergine? Prima mi fai vedere la cammella e io poi dare soldi. Ti è chiaro?”.
“Sì, ho capito” rispose Maria.
“Oh, finalmente!” sospirai.
“Dammi le cinquantamila lire ora!”.
Ancora? Non ne potevo più. Forse lei aveva bisogno di denaro e quello era soltanto un trucco per procurarselo. E mi impietosii. Presi dalla tasca del giubbino un cinquantamila e glielo diedi, pur di farla finita. Guarda un po’ in cosa ero inciampato! Quella piccola congiura del caso non mi aveva consentito di disfarmi di quella compagnia niente affatto raccomandabile.
Maria si prese le cinquantamila lire con un sorriso che le si allargava come una macchia d’olio. Il suo viso esangue si era illuminato alla luce mattutina. Poi disse: “Bene ora ti presento la puttana bella, provocante, erotica, usata pochissimo, quasi nuova”.
“Strabuzzai gli occhi per lo stupore. “E chi sarebbe?”.
“Sono io!” e si indicò con le dita, sorridendo e ciondolando il capo.
“Oh, no!” feci io sconsolato.
“Non sei contento? Guarda che è vero che sono quasi vergine. Nessuno ha mai voluto indietro i soldi. Mi avranno trombato tre o quattro uomini, tutti esclusivamente col guanto. E poi non bacio nessuno in bocca. Sono sana come un cardellino, vivo di latte e burro e uso il sapone”.
Quasi vergine? – mi domandai. Era troppo poco plausibile per non essere vero!
“Tre o quattro uomini?” le chiesi “mi sembrano pochi”.
“Cosa credevi? Che volassi da un paio di braccia all’altro, leggera come una piuma? Guarda che io sarò quella che sono, ma mi concedo raramente. Considerati un fortunato, benedetto da Dio”.

Me ne rimasi zitto. Il fatto di considerarmi benedetto da Dio mi fece ritornare alla Bibbia dal Paradiso all’Apocalisse. Ragazzi, forse era proprio ora che smettessi di cercare di capire come va il mondo, tanto sarebbe rimasto sempre lo stesso anche se ci avessi capito qualcosa.

“E guarda che tra i tre o quattro sei già conteggiato anche tu” proseguì lei, lieta del gran colpo che era riuscita a fare su di me, ma forse ancor più del bel biglietto nuovo da cinquantamila che le avevo appena dato io, vittima, come al solito, della mia generosità.

Maria aveva venduto l’anima per quattro soldi, ma se l’era ripresa per molto di più…
S’era fatto giorno, diedi una carezza alla guancia sinistra di Maria e le osservai le labbra. Per l’ultima volta. Erano davvero belle … e della mia misura. “Addio, Maria” le dissi. “Mi lasci?”.
“Sì, ti ringrazio di avermi tenuto compagnia. Me ne vado prima che mettere un piede davanti all’altro diventi un’azione complicata per me”.
“Ah, il filosofo gentiluomo mi abbandona … e io che cominciavo a fare un pensierino su di te …”.
Mi allontanai. E’ sempre imbarazzante fare la parte dello stronzo in pubblico. Ma non volevo vederla piangere come stava per fare.
Tutti gli odori di una notte insolita si rincorrevano tra loro mentre uscivo dalla sala. Scesi le scale dalla gradinata centrale.

Che fretta avevo? Dove sarei andato? Si dice spesso che bisogna salvare le apparenze. Io pensai che farle fuori fosse l’unico modo per salvarsi. In via Vitruvio avrei potuto trovare una pensioncina … di quelle con la coperta assicurata. E poi … alla ricerca di un altro sgombero latente. Vivere alla giornata. Ma, riflettendo, potevo gustarmi l’insegnamento che avevo ricavato da quella permanenza in sala d’aspetto di seconda classe. Sì, un arricchimento interiore che non avevo provato neppure ascoltando le lezioni del mio professore di filosofia, tal Salvatore Lo Cielo, quando ci aveva declamato Bertrand Russell o Pascal o Friedrich Nietzsche. Maria mi aveva dato la dimostrazione di quanto si potesse essere liberi senza sottostare alle regole della società perbenista. Nel suo sguardo avevo creduto di intravedere l’eternità. Avevo così capito che diventare l’uomo più ricco del cimitero non avrebbe mai avuto importanza per me. Vivere rimane un’arte che ognuno deve imparare, che nessuno può insegnare. Ci sono delle volte in cui vivere la vita è come entrare a mani tese in un cespuglio di fiori spinosi. Dopo … ti senti graffiato, ma sollevato e pieno di luce: proprio come in quel mattino d’inverno all’uscita della Stazione Centrale di Milano.


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