Cammina lento e dritto, è grosso e basso, trasandato. Lo si incontra spesso in piazza, che lui chiama agorà, o lo si trova sull’ultima panchina in fondo al parco, dove sembra che viva, ma non è un clochard. Cammina piano, contando i passi, ha i capelli lunghi, bianchi, tagliati male, mangia pasti frugali e chiede ai passanti un euro per comprare una birra, ma non è un barbone. Sorride sempre, ha gli occhi vispi di un bimbo e la battuta pronta, lo cercano in tanti, perché lui parla con tutti, anzi chiede e attende risposte, ascolta in silenzio e sorride, ma non è il matto del villaggio.
E’ un vecchio professore di filosofia in pensione, vedovo, ha una casa umile e sobria, due figli laureati, disoccupati, che lui mantiene a master, vitto e alloggio in città. Non possiede computer, orologio, cellulare, neanche una tv, lui, dice, vive di parole. Cammina lento e spesso si ferma, caccia un libro dalla tasca del suo pastrano, legge qualcosa e resta immobile, in mezzo alla via, come se inseguisse un pensiero, come se stesse partorendo un’idea. Allora il suo viso si tramuta in smorfie di sofferenza, come improvvisamente colpito da coliche addominali. Poi riprende il cammino, guarda in alto, se è nuvolo o sereno, e torna a sorridere, a salutare il sole, a camminare lento e dritto.
Cammina piano e da qualche tempo non è mai solo. Parla lentamente, distillando le parole, ma soltanto se passeggia, sta zitto se sta fermo. Lo seguono in tanti, in particolare i giovani, che lo chiamano nonno, lo cercano all’ultima panchina del parco, lui sorride e ascolta, chiede ‘Perché?’, o ‘Che significa questo?’, oppure ‘Che cos’è?’ Le risposte sono nelle sue domande, per lui nulla è scontato, tutto appare una novità, e con lui ci si sente unici, veri e vivi, così che i giovani lo seguono a frotte.
Appare vecchio, goffo e sgraziato, ma appena inizia a parlare, come in un rito magico, intorno a lui si assiepa una folla che lo ascolta estasiata, e a volte si blocca anche il traffico. Un vigile allora interviene, chiede cosa accade, e per risposta ha una domanda, così si ferma anche lui a cercare la risposta, e intanto, anche lui, si innamora di quegli occhietti vispi e miopi, di quella ricerca che è pura tensione, sofferenza e passione.
“Le idee sono feti che spingono impazienti per venire alla luce, magari restano in incubazione per anni e poi basta una piccola spinta e un dolore acuto avverte che il parto sta per compiersi”.
Le idee, anche quelle di un vigile, sono una creazione originaria e istintiva, è innamoramento, divino impazzimento, e si rimane stregati, ci si sente unici, veri e vivi.
E lui riprende a camminare, sorridente, meditabondo e silenzioso, e tutti lo seguono, vigili, pompieri e poliziotti, studenti, massaie, droghieri e dottori. Ogni tanto qualcuno chiede qualcosa, allora ci si ferma e lui dice ”questo non lo so”, poi domanda che cosa significhi, e si riprende tutti a passeggiare seguendo un pensiero fluido lontano da quell’odierno standard massificante che annulla ogni perché, tutti presi da un silenzio in cui la chiacchiera appare per quello che è veramente: “una vergogna del linguaggio”.
Quando cammina da solo sembra che sia in compagnia di tanti, ma questo ormai accade di rado, quando cammina seguito da decine di persone sembra che sia solo, e nessuno riesce a comprendere tale mistero.
Andare da lui, passeggiare con lui, in paese è diventato un bisogno quotidiano, tanto che si sono stabiliti dei turni in ordine alfabetico e a seconda dell’orario: gli studenti nel primo pomeriggio, gli impiegati all’uscita dall’ufficio, le massaie nelle ore di mercato.
E non si arriva mai a nulla, mai che ci sia una risposta precisa a una domanda, tutto resta in bilico, come in una continua ricerca, dove si è convinti che nel fondo ci sia un’unica e sola sentenza, che non si vede, ma di cui si vedono gli effetti. Ci si stupisce allora come in questo secolo le idee siano state annullate in nome di un programma, incatenate dalla logica del “funziona così”.
E lui ride, e dice che “non è detto nemmeno questo”, che “nulla è mai così come sembra”.