"Il lascito" di Armando d'Amaro


cicerone

Non lontano da Cicerone si stende, appena dorata dal sole calante, la placida superficie verde azzurra del mare siracusano, che tranquillo lambisce sia le lingue sabbiose degradanti verso il largo, sia le grandi formazioni rocciose che celano cale e grotte.
Il suo incarico di questore responsabile della Sicilia occidentale era giunto a termine: quell’anno, ricco di soddisfazioni, purtroppo era trascorso in fretta. I complimenti di Sesto Peduceo gli avevano fatto piacere: il pretore non si era dimenticato di mettere in risalto di come, durante la sua amministrazione, avesse fatto giungere a Roma centocinquantamila misure di grano, sufficienti non solo a porre rimedio ad una grave carestia, ma per approvvigionare adeguatamente l’esercito.
Ancor più lo scaldava la stima ottenuta dai siciliani, che inizialmente non avevano gradito il suo rigore, ma presto avevano capito che lui era un homo novus, non un saccente patrizio: proveniva dalla classe dei cavalieri e non aveva legami con le grandi famiglie senatorie. La sua serietà e il suo senso della giustizia lo avevano presto portato ad essere riconosciuto come il magistrato più rispettato che avessero avuto, e non erano mancati gli incarichi come avvocato…
In molti avevano espresso – insieme al rammarico per la sua partenza – l’acquisita stima al suo imbarco sul grande molo di Lilibeo, la splendidissima civitas dalla quale aveva esercitato il suo mandato, ma anche lui non si era trattenuto, quasi commosso sotto il cielo turchino, di garantire che, tornato a Roma, avrebbe cantato le virtù del popolo che lo aveva ospitato, tanto simili a quelle dei suoi concittadini nell’antichità: bontà d’animo, spirito di sopportazione e parsimonia.
Ma, durante la navigazione, un pensiero era tornato a tormentarlo: come avrebbe potuto abbandonare la provincia senza riparare – in qualche modo – al crimine verso l’umanità intera perpetrato dai suoi antenati? Per questo aveva deciso di far una sosta più lunga del previsto a Siracusa: avrebbe cercato quanto riteneva indispensabile riportare al dovuto culto.
E così sta facendo: dopo aver avuto conferma di quel che gli era stato raccontato – che quella appare come la più grande e più bella tra le città greche – incamminatosi, nel tardo pomeriggio, fuori la porta sacra a Ciane, perlustra caparbio i luoghi nascosti da una fitta boscaglia, seguito da alcuni marinai e da un nutrito gruppo di notabili locali.
Il giovane magistrato continua ad insistere con loro per avere l’informazione che gli sembra impossibile non sia in loro possesso, ma i maggiorenti negano decisamente l’esistenza di quanto l’amministratore romano va cocciutamente cercando: “eppure ho letto alcuni antichi versi che la descrivono, arricchita da una sfera e un cilindro, possibile non l’abbiate mai notata?” ripete. E, all’allargar di braccia dei pur anziani e saggi siracusani, Marco Tullio riprende a cercare.
All’improvviso – un sorriso che gli illumina il volto – indica una colonnetta che sporge dai cespugli, sormontata dai solidi appena descritti, e: “credo si tratti di quello che volevo trovare, chiamate qualcuno che ripulisca”. Cicerone attende impaziente, le mani strette alla tunica candida, mentre alcuni operai muniti di falci creano un varco tra la macchia di rovi fino a che, trascorso qualche minuto, si può avvicinare al piccolo edificio in rovina. Si trova davanti ad un epitaffio consunto, un epigramma quasi dimezzato essendo le parti finali dei brevi versi corrose dalle ingiurie del tempo… avuta conferma dopo averlo interpretato, esclama: “il milione di abitanti di una delle più illustri città della Grecia avrebbe ignorato l’ultima dimora del suo genio se non gliel’avesse rivelata un uomo di Arpino!”.
Mentre scende il crepuscolo e tutto cambia colore, Marco Tullio Cicerone si avvia, alla luce tremolante delle torce, verso il palazzo che lo avrebbe ospitato per la notte, scortato dai notabili insieme felici e umiliati dalla scoperta. Non proferisce parola, gode appena della brezza notturna e della distesa scura del mare macchiato, non distante da riva, da una mezzaluna brillante prodotta dalle luci delle barche da pesca, perchè ha la mente in subbuglio: il rammarico per l’assurda fine dello scienziato è aumentato.
All’alba del mattino dopo, il magistrato è appoggiato al parapetto del ponte bagnato di salsedine ad osservare la costa siracusana che si allontana, quando la sensazione che il tavolato calcareo del monte Climiti, ultima propaggine degli Iblei verso oriente, sia profilato su un fondale nebbioso da mano d’artista, lo scuote. Gli torna alla mente Archimede, gli sembra di vederlo, intento a tracciare sulla polvere figure geometriche, assalito e trucidato da un soldato immemore delle raccomandazioni di Marco Claudio Marcello, il proconsole che subito provvide all’edificazione di quella tomba.
Mentre la navigazione prosegue tranquilla – giorno e notte – quei pensieri, lentamente, svaniscono: si convince di aver fatto quanto in suo potere perché il ricordo del genio fosse ravvivato nell’animo dei suoi concittadini. Elabora allora altre considerazioni: certo che la sua questura in Sicilia si fosse rivelata come la migliore tra le precedenti, ritiene che a Roma non si parli d’altro. Non aveva forse inviato tanto grano da regolarizzare il mercato interno? Non era stato forse generoso verso i banchieri, equo verso i mercanti, liberale verso i proprietari, disinteressato nei confronti dei suoi soci in affari? Mentre arriva alla conclusione che il popolo romano gli avrebbe riconosciuto spontaneamente questi risultati e che, considerandolo affidabile e scrupoloso in ogni dovere, la sua carriera sarebbe avanzata inarrestabile, la nave giunge in vista di Pozzuoli.
Quasi viene meno, sbarcato e accolto in un banchetto, quando un patrizio gli chiede: “ave Cicerone, che novità porti da Roma?”. E, quando lui risponde di provenire da una provincia che aveva amministrato, l’altro si scusa, esclamando: “Sì, per Ercole, certo! Credo se non sbaglio, dell’Africa”. A questo punto il giovane magistrato rinuncia alla replica e, adirato, lascia la compagnia non gradita per recarsi, da solo, alle terme. Ma se – immerso in una vasca del calidarium a soffocare la delusione – venisse a sapere che, centotrentasette anni prima…
Dopo quasi tre anni di assedio le truppe romane sbarcano – all’alba – sull’isola di Ortigia, occupando con facilità le postazioni siracusane: dove era stata vana la forza – per gli insuperabili ostacoli di Archimede – e la fame – grazie ai rifornimenti della flotta cartaginese – riesce il tradimento dell’ispanico Merico.
Un manipolo di giovani velites, comandato da un princeps dall’elmo piumato, si dirige veloce verso l’Acradina e, superando la fonte Aretusa, proietta ombre di lupi tra i papiri e sui tremolanti riflessi delle acque tranquille. Tito Otacilio Crasso, il prefetto comandante la flotta, era stato categorico nell’ordinare di prendete Archimede vivo: della riuscita di quella operazione segreta avrebbe dovuto – a sua volta – rispondere a quegli oligarchi che detengono gran parte del potere economico di Roma. Catapulta, balista, scorpione, manus ferrea, specchi ustori…e soprattutto l’ingegno del matematico avrebbero loro garantito enormi vantaggi quando avessero deciso di rovesciare la repubblica.
Quando la sfera del sole sale a illuminare i contorni arsi e brulli degli Iblei, la missione è compiuta: lasciandosi dietro una città in preda ai vincitori e il cadavere di un anonimo vecchio, il drappello torna al porto grande con Archimede e bisacce colme di suoi progetti.
Giorni dopo Marco Claudio Marcello – accolto da un’ovazione – entra vittorioso a Roma col suo carico di ori, statue, quadri ed ogni altra sorta di preziosi considerati spoglie dei nemici e quindi strappati a Siracusa per diritto di guerra. Tra i beni che il console porta con sé (faranno ‘esplodere’ tra i suoi concittadini una vera e propria mania per la cultura greca) anche un macchinario sferico che rappresenta il moto di sole e pianeti nonché fasi ed eclissi lunari.
In quel mentre il creatore di quell’astrolabio, genio della geometria e dell’idrostatica, dell’ottica e della meccanica, è già al ‘sicuro’ insieme a tesori ben più cospicui di quanto incamerato come bottino dai romani, e finirà i suoi giorni – continuando a studiare e progettare – in una, seppur dorata, prigionia.
I rotoli contenenti i suoi inestimabili appunti ricchi di schizzi – ben più ampi e completi del ‘palinsesto’ – catalogati e conservati da scomparti segreti in una villa patrizia, saranno messi in salvo da un colto liberto bibliothecarius durante il ‘sacco’ perpetrato dai Visigoti di Alarico, tanto devastante da essere interpretato da sant’Agostino – nel ‘De civitate Dei’ – come la fine del mondo, inflitta da Dio alla capitale del paganesimo.
Circa mille anni più tardi, nella biblioteca papale adiacente il Cortile dei Pappagalli – da poco liberalizzata a studiosi ed eruditi per la consultazione – giungeranno fortunosamente tra le mani di colui che, a Roma grazie a Giuliano de’ Medici, alloggiando negli appartamenti del Belvedere al Vaticano svilupperà i suoi studi meccanici, ottici e di geometria, andando ad arricchire il ‘Codice Atlantico’…


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