“Jack” di Marvin Menini


Si era beccato cinque anni per omicidio colposo. Solita lite con la moglie, una delle tante. E poi quella frase, “sei un inetto, sei un fallito, mi fai schifo” e la spinta. Loredana aveva sbattuto la testa, uno schiocco secco come un’anguria che cade dal quarto piano. Adesso, era tutto finito. L’aria del mattino sapeva di buono; anche fuori da quel carcere della bassa dove d’estate arrivava il tanfo dei campi coltivati e durante l’inverno la nebbia che puzza di pesce sembrava quasi colare dalle inferiate. Adesso, era di nuovo libero. Sorrise, inspirando a pieni polmoni e stiracchiandosi come un gatto al risveglio. Valerio Nusdeo non aveva più una vita, una famiglia, una casa. Eppure, quel giorno, sorrise come mai aveva fatto in vita sua. Fece la coda in biglietteria alla stazione, sempre con quel ghigno disegnato sulle labbra.
-”Un biglietto per Moneglia, per favore.”
-”Solo andata?”
-”Sì, direi di sì.”
Si accomodò sul diretto, appoggiando la testa al vetro. Il cuore, pensando a quanto stava per accadere, accelerò. Tirò fuori dalla tasca l’accendino d’acciaio che gli aveva regalato Jack poco prima di morire. Non sapeva nemmeno il suo vero nome, tutti in gattabuia lo chiamavano così. Tutti, sui giornali, avevano scritto il suo nome ma era passato così tanto tempo che nessuno se lo ricordava più. Anche lui si era dimenticato come si chiamasse. Jack, quello della rapina alla gioielleria “Fratelli Clemente” di Rapallo. Una brutta storia, finita con un sacco di cadaveri. Quel giorno di quindici anni fa, Jack, lo Smunto e il Topo entrarono nel negozio. Piantarono una palla in fronte a uno dei due proprietari, che ebbe la brutta idea di tirare fuori il cannone. Lo Smunto poi non era tanto in bolla, si sapeva, e gli piaceva da matti giocare con la polvere da sparo. Così, fece esplodere la testa anche all’altro proprietario. In pochi secondi arrivarono due volanti, i proiettili cominciarono a fischiare dappertutto. Tre agenti morti, una bambina di sette anni che passava di lì, sua madre e pure il cane. Un bouledogue francese di nome “Pippo”. Solo Jack ne era uscito vivo. Lo avevano pinzato il giorno dopo a Moneglia, mentre cercava di rubare un gommone ed aveva seccato pure il padrone del noleggio. Per andare dove, manco si era capito. Comunque, una volta finito in manette, avevano deciso per la punizione esemplare. Troppo casino la stampa, troppo i parenti delle vittime. Ci si era messa di mezzo pure la protezione animali per Pippo. Jack doveva marcire dietro alle sbarre. E così avvenne, anche se era malato. Sifilide, allo stadio peggiore. Quello in cui il cervello inizia a sciogliersi come formaggio sulla piastra. Grossi buchi che rendono impossibile ragionare e portano al delirio. Gomma luetica, dicevano i dottori in medichese. Le cure, per Jack, erano arrivate troppo tardi e parte del danno ormai era fatto. Valerio era stato il suo compagno di cella, ma non solo. Era diventato il figlio che Jack non aveva mai avuto. Notti a tenergli la testa, a pulirgli piscio e vomito. Ad ascoltare sproloqui senza senso. Tranne quella frase. Quando gli occhi perdevano quel velo di incoscienza e tornavano lucidi, vivi, intensi.
-”Nel momento in cui uscirai di qui, Vale, ti dirò dove ho nascosto il bottino della rapina. E’ la mia eredità per te, figliolo.”
Poi Jack era peggiorato; urla strazianti nella notte, testate alle sbarre. La sifilide se l’era mangiato vivo. Prima di finire in ospedale a schiattare, mentre lo portavano via, aveva stretto le mani di Valerio, se l’era abbracciato e accarezzato.
-”Tieni il mio accendino.”
E poi, una frase sussurrata all’orecchio. Mentre Riccardo Di Bella, il secondino grosso e peloso della loro sezione, lo staccava da Jack. Affibbiandogli un colpo di manganello al ginocchio.
E ora, la libertà. Adesso, Moneglia. Arrivò in paese quando il buio iniziava ad avvolgere i profili dei due promontori, rigogliosi di verde. Un panino veloce, l’attesa del silenzio e del buio seduto sulla strada buona del paese, a ridosso dell’Aurelia. E poi, quando ormai in giro c’era solo qualche passante con il cane, si alzò. “Sono passati così tanti anni”, pensò. “Non ci sarà più nulla, sarà tutto diverso. Sono stato un idiota a venire fin qui.”
Sulla spiaggia del paese, si fece strada tra le barche in rimessa. I ciottoli scricchiolavano sotto a suoi piedi, ancora tiepidi per il sole. Poi, il punto giusto. L’albergo in alto a destra, lo scoglio bianco della diga (quello a forma di corno) di fronte e la fine del molo a sinistra. Iniziò a scavare. Tre metri, aveva detto Jack. Tre metri e ci sarebbe stato il sacco. Proseguì nel lavoro per più di un’ora, con le unghie che iniziavano a spezzarsi e le dita che facevano un male cane. Niente. Allargò il foro, iniziando a disperarsi. Niente. Poi, quel pezzo di iuta. Un sacco? Un sacchetto? Lo tirò su. Vuoto. In quel momento sentì un “click” dietro all’orecchio sinistro. E poi, il freddo duro e inquietante di una canna di pistola.
-”Finisci il lavoro in silenzio, Nusdeo. E non fare il furbo.”
Alzò le mani, un rivolo di sangue colava fino al polso. Girò abbastanza la testa per vedere il braccio che teneva la pistola. E la facciona di Riccardo Di Bella, il secondino.
L’uomo annuì, reagendo all’espressione di stupore di Valerio.
-”Credevi che Jack avesse raccontato solo a te la storia?”
-”Non lo so. Non mi ero mai fatto questa domanda.”
-”Ecco. Adesso lo sai. In fondo, chi era che vi portava sempre le sigarette e i giornali porno? Qualcosa doveva pure a me, Nusdeo.”
-”Bella mossa. Ma erano solo le farneticazioni di un vecchio rincoglionito. Non vedi? Non c’è niente.”
Di Bella gli piantò un calcio nel fegato.
-”Scava ancora.”
Valerio eseguì l’ordine. Ancora due ore in mezzo ai ciottoli, a masticare terra e sudore. Nulla.
-”Possiamo scavare in tutta la spiaggia”, disse. “Non troveremo niente. Jack era fuori. Lo capisci? E anche se avesse detto la verità, chissà dov’è finito il bottino. In fondo al mare, o sprofondato chissà dove.”
Di Bella si grattò la testa.
-”E ora che si fa?”, chiese.
-”Metti via il ferro, e offrimi una birra. E’ andata così. Io sono appena uscito dalla gabbia, tu non credo voglia avere un ex detenuto sulla coscienza.”
Un altro click della pistola, quello per mettere la sicura. Di Bella sospirò.
-”Vieni, c’è un bar ancora aperto sulla passeggiata. Ho voglia di ubriacarmi.”
Allungò il braccio a Valerio, lo aiutò a tirarsi fuori dalla buca.
-”Non chiudiamo nulla?”, chiese l’ex detenuto.
Di Bella si guardò in giro.
-”Che si fottano. Ci penseranno i bagnini domattina.”
Lasciarono la spiaggia, con un cielo nero come un televisore spento sopra alle loro teste e una fila di lampare all’orizzonte, che tremolavano e danzavano per le onde.
Riccardo Di Bella attraversò per primo il passaggio pedonale sotto all’Aurelia. A Valerio tornò il vecchio sorriso di qualche ora prima. Tirò fuori l’accendino di Jack, lo guardò e lo baciò. E lo ripose in tasca. Vicino al sacchetto di diamanti che aveva trovato solo qualche attimo prima.


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