La Cantina di via San Procolo sprofondava per diciassette gradini fin giù nello stomaco di Bologna. E standoci dentro, godendoti il sogno di non essere ancora nato, la sentivi vivere. Il pulsare, vecchio e saggio di una città che non c’era più, anche se si poteva ancora percepirne il respiro e i pensieri di tutti i poveri cristi che erano stati lì, legati al commercio del carbone. Il su e giù per la scala con le ceste che spaccavano la schiena, il freddo e le malattie polmonari che portava la polvere nera.
Vite di miseria che si riflettevano benissimo nello spirito del jazz, figlio degli schiavi nelle piantagioni, che ora animava quegli spazi.
A volta e di pietra, i suoi soffitti odoravano di antico. Appena rischiarati dal bagliore delle minuscole lampade sui tavoli. Intorno, la magia delle tende di velluto che ovattavano i suoni troppo acuti. Erano rosse, eppure sembravano la cartolina in bianco e nero di un vecchio cinema.
La nostalgia abita visceri e cuore, prima che il cervello.
I posti a sedere erano tutti occupati. In molti si erano accontentati di poggiare la schiena al muro. Al (lui e le sue giacche impossibili. Fucsia e nere, a coda di rondine, e i panciotti dorati…) era stato in comunità, non suonava lì da oltre due mesi.
Quella povera bestia di Al il Pazzo. Il viso magro, fatto di ombre e solchi piuttosto che di carne.
Quarantanove primavere sulla carta d’identità, cento inverni negli occhi.
Al tornò al piano. Era esangue, con le labbra viola e gli occhi arrossati. Sedette sullo sgabello e il brusio nello stanzone terminò.
Suonò furiosamente per un’ora di fila, come se avesse tre mani: perché altrimenti non si capiva da dove potessero uscire tutte quelle note che sembravano scintille. Quindi si staccò di colpo e abbassò il coperchio sulla tastiera.
La gente capì che stavolta era finita sul serio e applaudì. Il locale si svuotò.
Al tornò al bancone e bevve in silenzio.
«Ho conosciuto mio fratello» gli disse a un tratto Petronio. «E’ un tipo a posto, lui» e si ammutolì.
Al non replicò. Non ne aveva voglia e non sapeva cosa dirgli, tuttavia gli levò il bicchiere dalla mano irrigidita, per evitare che lo facesse esplodere e si tagliasse.
Dopo un po’ Petronio prese fiato. «Conosci Omar Castrignanò?».
Al fece cenno di sì. «Però se vuoi cominciare a bucarti hai sbagliato indirizzo. Meglio stargli alla larga».
«Perché?».
«Lui e Turro… mai sentito Turro, il suo socio?» giochicchiò col bicchiere. «Li hanno soprannominati le sorelle veleno».
«Come mai?».
Al lo guardò come dire, ma t’interessa sul serio? E capì che, sì, Petronio voleva saperlo. «Ma che ne so… Forse il taglio dell’eroina. O forse la roba era solo porcheria».
«Sono nuovi?».
Un sospiro. Le domande a raffica e senza senso, erano il motivo per cui non sarebbe mai riuscito a mettere al mondo un figlio. «Che hai stanotte?». Al finì il bicchiere, versò di nuovo. Si armò di una pazienza non sua. «Castrignanò sì, nuovo. Aveva due soldi vinti a carte e ha pensato di metterli a frutto. Turro sono trent’anni che spaccia».
Era una storia assurda. I pusher allungavano la droga fin dai tempi di Adamo ed Eva, ma renderla mortale significava renderla invendibile. «Ti sembra verosimile?».
Al restò indifferente. Tutto aveva un limite. Quello non era un problema, lui aveva cambiato fornitore punto e basta. Scolò il whisky in un sorso. «Vado a casa» farfugliò. «E tu ce l’hai un posto dove dormire?».
«Per terra mi trovo benissimo».
«Puoi dormire per terra anche nel mio salotto».
Era sporco uguale, se non peggio, di un qualsiasi marciapiede metropolitano.