“La confessione” di Alessandro Reali


Sono le dieci di sera e io sono il colpevole più innocente al mondo.
In caserma fa caldo ma fuori, attraverso il vetro, si vede la neve cadere. Le colline sono bianche. La città silenziosa. Le auto, poche, viaggiano a passo d’uomo, con i fari accesi.
Il maresciallo Birol ha voglia di fumare, ne sono sicuro. Rigira la sua sigaretta tra le dita. Pensa a sua moglie, ai suoi bambini e, soprattutto, pensa a me, il genio che ha di fronte: Nicola Mancini, il grande pittore scapestrato, l’enigma artistico di questo nuovo millennio, l’autore delle magnifiche tele raffiguranti i pesci boccheggianti, gli uccelli cupi nei tramonti inquinati dalle ciminiere, le lune rosse. Osannato dal pubblico e, un tempo, anche dalla critica, fino a quando lui ( il Nemico), l’essere nullo, l’abietto incapace scribacchino, ha deciso di relegarmi a ruolo di imbrattatele acchiappa consensi, nonché opportunista consapevole di avere ormai smarrito l’ispirazione degli anni settanta del secolo scorso.
Che ne dice, maresciallo?
Mi guarda strano. Sono dimagrito. Ho la faccia scavata di certi Cristi dolenti, grotteschi spasmi alla Grunewald, i capelli lunghi un po’ sporchi, le unghie annerite, il cappotto blu stretto nelle spalle, come se mi fossi improvvisamente rattrappito. Stampato sul volto il sorriso disarmante di chi può compiere qualsiasi gesto con estrema naturalezza. Anche il più estremo o il meno prevedibile.
L’appuntato Marchiselli, al computer, ogni tanto chiude gli occhi. Ha sonno. Dorme poco, si vede, colpa del raffreddore e di una fidanzata impossibile.
Sono sicuro anche di questo.
– Allora, Mancini, ricapitoliamo. Lei non può presentarsi in caserma spontaneamente e dirmi: ho ucciso un uomo. Forse, finalmente, mi sono liberato di lui. Senza rivelare il nome della vittima e neppure dove si trova il cadavere. Questo, perchè prima deve spiegarmi la sua innocenza. Allora, mi vuole dire come sono andate le cose? È un’ora che la stiamo ascoltando. Ci ha raccontato di quanto è bravo. Di tutte le onorificenze che ha ricevuto e delle mostre in Italia e all’estero. Va bene. Adesso, però, mi dica quello che è successo oggi, non mi faccia perdere la pazienza. Siamo tutti stanchi, non è vero Marchiselli? Oh, Marchiselli, che fai, dormi? Dice, un po’ afflitto, il maresciallo Birol.
– No che non dormo, signor maresciallo, sono attento, vigile, come sempre. Replica l’appuntato, fazzoletto in mano, naso rosso gocciolante.
– Io sono qui per raccontarle tutto quanto. Mi piace questo posto. Sono venuto apposta. Non c’è nessun motivo per cui debba ritornare a casa. Soltanto, la smetta con quel tono da fratello maggiore. Sono più vecchio di lei, cosa crede? Non sono un bambino ma, come lei sa, un grande artista. Per questo sono innocente. Il vero colpevole è colui che ha cercato di denigrarmi. Il saccente pennivendolo fallito. Il critico. Capisce cosa voglio dire, signor maresciallo?
– Potrei anche capire. Ma non mi interessa molto, in questo caso. E lei insiste nel ripetere le stesse cose. Sembra uno di quei giradischi di una volta, quando s’incantava la puntina, hai presente Marchiselli? Si, buonanotte … Sorride, amaro, il maresciallo Birol, riportando alle labbra la sua sigaretta.
– Me ne offre una? Chiedo.
– Non ora, magari più tardi. Vuole chiamare ancora il suo avvocato?
– Ma no, ho fatto finta, prima. Davvero non l’aveva capito? Non c’era nessuno dall’altra parte. Sono stato bravo, allora.
Il maresciallo guarda Marchiselli e Marchiselli guarda fuori dalla finestra e pensa ai preparativi per il matrimonio. La neve continua a cadere. Tra pochi giorni è Natale. Sono sicuro che vorrebbe essere a casa con la moglie e i bambini, il buon maresciallo, a mangiare il panettone davanti alla TV. Per questo è così nervoso. Non vede l’ora che riveli il nome e il luogo. Io sono qui, invece, solo per dare un senso alla confessione.
– Quindi, Mancini, mi dica cosa è venuto a fare oggi pomeriggio in città. Chiede grattando il cranio calvo.
– Come le ho detto abito in campagna, contrada Pasqua per la precisione: un casolare circondato dai campi. Mi sono recato, come faccio spesso, nella galleria d’arte delle sorelle Baiardi. Due care amiche. Un po’ sciocche. Tilde, la più minuta, è sempre stata innamorata di me. Si preoccupa ancora per il mio stato ansioso. Non accetta il fatto che io non l’abbia mai amata e che per rendere al meglio ho proprio bisogno di questa tensione, questo stato febbrile che nessun tipo di farmaco può placare.
– La fermo. Una volta parcheggiata la sua Alfa rossa in piazza Duomo, la prima cosa che ha fatto, dunque, è stato recarsi alla galleria. Non si è fermato da nessuna parte, prima?
– Veramente sì. Ma poco. Ho camminato un po’ sotto i portici. Iniziava a nevicare. Ho guardato le vetrine addobbate. Mi piace il Natale. Mi ricorda quando le bambine erano piccole. L’odore dei funghi secchi esposti nelle cassette di legno, nel negozio che fa angolo in piazza Duomo, quello che produce anche la migliore mostarda? ha presente?
– Vada avanti, Mancini, per carità … io odio la mostarda.
– Il cappotto era bagnato. Faceva freddo. Sono entrato nel bar di Alfredo e preso un caffè corretto. Alfredo è un bel tipo. Sempre elegante. Gilet e papillon …
– E poi? Incalza il maresciallo.
– Posso continuare?
– Chi le ha detto di fermarsi?
– Dimentico una cosa.
– Che cosa?
– Prima di arrivare in città sono andato al cimitero. Avevo i fiori per i miei cari. Me li ero dimenticati da una settimana nel bagagliaio. Meno male si tratta di fiori finti. Capisce anche lei che con questo freddo, non vale la pena acquistare fiori freschi.
– Mancini, la prego! Non mi faccia incazzare. Altrimenti telefono al giudice Scarpia e lo faccio rientrare dalla settimana bianca e poi corro in ospedale e le porto qui il suo vice, Santagata, che ha avuto la bella idea di farsi venire le coliche renali proprio questa mattina.
– Lo dico sempre io, il caso, le coincidenze. Ma se fosse una mano divina, oppure diabolica, a guidare tutti questi episodi apparentemente accidentali? Io ho un compito ben preciso, per esempio, da svolgere qui sulla terra.
– Mi dica.
– Essere un grande artista, è ovvio. E, fatto non secondario: annientare il nemico.
Il commissario Birol sospira e si accende finalmente la sua sigaretta.
– Una volta lasciata la galleria d’arte, cosa ha fatto?
– Aspetti, non è il caso di correre. La galleria è proprio il nodo cruciale della mia storia. È lì che ho incontrato lui.
– Chi? Avanti Mancini, lo dica, che poi ci mettiamo una pietra sopra.
– Lui, ovviamente. Quello che io chiamo la mia “bestia sulla schiena”. Come dicevano un tempo gli eroinomani della loro ossessione. Una persecuzione. Perché lui è proprio questo: la mia rovina. Dovrebbe leggere cosa ha scritto quando ho dato fuoco al casolare e mia moglie e le bambine … ma di questo non voglio parlare, proprio non voglio parlare, ha capito? Non ha capito? Allora glielo spiego: ero ubriaco, avevo bevuto. Colpa di mia moglie. Non potevo prevedere quello che sarebbe successo. Una sigaretta ha svolto il compito di braccio! Ma la mente è stata lei, proprio mia moglie. Portava sempre in casa gente che parlava ad alta voce mentre io lavoravo, e usava le mie tele per coprire il tavolo. Ma si rende conto. Non mi prendeva seriamente in considerazione. Una volta ho trovato un mio quadro nella lettiera del gatto. Non riuscivo più a dormire e lei ascoltava musica orribile fino a tardi. Un inferno, per me. Così mi ubriacavo quasi tutte le sere e quella volta …
– Conosco la storia. Anche quella delle taniche di benzina trovate accanto alla sua auto.
– Non faccia così, signor maresciallo, non glielo permetto.
– Torniamo alla galleria. Dice Birol, con un sorriso di compassione.
– Lui era lì a incensare un artista. Borbottava con le due sorelle, alle mie spalle. Lo facevano apposta, sperando di ferirmi. Lina, quando mi ha visto, è corsa incontro. Pareva una teiera variopinta. Mancini, il grande Mancini di qua e il grande Mancini di là. Una vera attrice. Poi, in privato, ti pugnala, istigata da lui, il gallinaccio da strapazzo. Dovrebbe vederlo. Pieno di boria. Elegantissimo, frivolo, profumato. Ce l’ho sempre in mente, qui, nella mia testa e davanti agli occhi. Un vero criminale che in ogni modo ha cercato di annientarmi. Sempre in giro per i musei con il suo amico, l’editore. Hotel di lusso, grandi automobili, vini prelibati, biennali. Articoli sulle più prestigiose riviste e mai una volta, negli ultimi quindici anni, che si sia ricordato di me! Non riesce proprio a confermare la mia grandezza. È geloso. Si tortura nell’invidia ma non lo fa vedere. Critica con la sua lingua biforcuta e, peggio ancora, mi snobba.
– Ci siamo. Finalmente ci siamo. Quindi è lui che ha ucciso! Mi dica il nome e dove si trova il cadavere, avanti!
– Il nome? Ma non lo sa davvero? Non l’ha capito ? Ecco, glielo scrivo qui, sul foglietto, insieme all’indirizzo. Ma prima le voglio rivelare una cosa: lei non sa con quanto piacere ho massacrato a colpi di martello quella zucca vuota. Non provo il minimo rimorso. Giustizia è fatta, una volta per tutte! Spero solo che non ritorni indietro.
Il maresciallo legge il foglietto su cui ho scritto nome e indirizzo. La sua espressione è quella di uno che ha bevuto troppo, adesso. Scatta verso la porta, scende in cortile, monta in auto e sgomma verso il casolare di contrada Pasqua. L’appuntato Marchiselli si è alzato. E’ uscito. Al suo posto sono entrati due giovanotti alti. Sono in piedi, immobili, ai lati della porta. Io intanto immagino la scena: lui, proprio lui, che gli apre la porta. Sorpreso, nella sua vestaglia, con la tazza di te in mano e la musica lirica in sottofondo. Un pagliaccio. Il commissario non capisce, ha un‘espressione angosciata nel trovarsi di fronte una faccia tale e quale la mia. Gli domanda di me e quello, ne sono sicuro, sorride perfido: è un povero fallito, cosa vuole, un dilettante con la pretesa di essere un grande artista. Un pittore mediocre, responsabile anche della morte di sua moglie e delle … no, non lo dire, l’hai detto, lo so, continui a ripeterlo e per questo io continuo a ucciderti! Tu, proprio tu che mi avevi illuso, con tutte le tue promesse non mantenute.
Maresciallo, avanti, non è poi così difficile capire.
E voi chi siete, cosa volete? Non siete carabinieri?
Sono infermieri, mi prendono sotto braccio, amichevolmente, mi accompagnano fuori, lungo un corridoio che sembra non avere fine. Bisbigliano. Io non capisco. Voglio restare solo, al buio della mia stanza: devo ancora dipingere il mio capolavoro.


Lascia un commento