– Siete pronti? Trenta secondi, poi in onda!
Spenta la luce rossa della camera uno, la truccatrice arriva trafelata col correttore e un panno sottile.
Subito addosso al Conduttore.
Pronta a togliere gli effetti delle rughe della sua età.
Un’età portata avanti con faticosa dignità, e quell’esperienza maturata lungo decenni di trincea tra olimpiadi, giochi invernali, campionati di calcio, record del mondo, personaggi dello sport divenuti leggende viventi.
Lui li ha visti tutti.
Lui li ha intervistati tutti.
Lui ha celebrato i giganti dello sport.
Da Maradona a Baggio, da Tomba a Stenmark.
Il Conduttore si ricorda tutto. È un’enciclopedia umana. È pronto ad ogni evento imprevisto. Ad ogni circostanza delle più impensate.
Eccolo, davanti a me. Lui che, assieme ai suoi redattori più fedeli, quelli che lo avevano seguito dalla Rai per passare alla pay tv, erano poi passati da questa a quella televisione regionale.
Milano, piazza Piemonte. Uno studio televisivo, lunedì sera, diretta di 91° minuto. Pausa pubblicitaria, subito dopo l’arrivo di un lancio Ansa: era appena morto, accasciato in uno studio televisivo di Bologna l’ex allenatore del Verona Filippo Cicogni.
La scaletta del programma, rigorosamente in diretta, era finita alle ortiche nello spazio di un’interruzione pubblicitaria. Solo tre minuti, durante i quali il Conduttore tirò fuori dal taschino del proprio gessato, sempre lo stesso da chissà quanti anni, la propria preziosissima agenda telefonica dalla quale non si separava mai: compilò cinque, sei numeri di colleghi di panchina, ex giocatori, ex presidenti. Un ordine progressivo studiato all’istante, con la furbizia del grande uomo di giornalismo e spettacolo.
Un altro redattore cercava intanto quei dieci minuti di immagini di repertorio, utili per mandarli in onda ogni tanto, così da spezzare il flusso della sola diretta dallo studio. Ne sarebbero bastati anche di meno. Ma servivano. Gli era bastato un cenno del Conduttore. Fermo, sguardo glaciale.
– Corri subito! E tu, Miriana, dagli una mano! – ci disse con quel tono autorevole, sicuro di essere riconosciuto come tale.
E io, giovane praticante, fresca di patentino dell’ordine, che mollai la postazione web destinata alla lettura delle email dei telespettatori, pronta a buttarmi su un altro computer: lì c’era una banca dati dell’emittente, un archivio incredibile, quello fornito dalla Lega Calcio, oltre trent’anni di campionati di serie A, dove potevo trovare le immagini salienti di Bologna – Juventus, c’ero anch’io l’anno prima a fare la bordocampista per Tele Bologna, rieccole quelle immagini, e ritrovo lui, Filippo Cicogni, l’allenatore in completo aziendale, in piedi entro il bordo rettangolare esterno alla panchina, occhi fissi sul campo, pronto a capire che era giunto il momento delle imprese impossibili, quelle che ti capitano una sola volta nella vita, ma che se accadono entri nella leggenda dei tifosi, e non ne uscirai mai più, neanche se come ora sei finito in una tomba di legno.
Ricordavo ancora quando Cicogni dieci minuti prima della fine del secondo tempo e con la squadra sotto di due reti, ribaltò lo schema in corsa, tolse un centrocampista e una punta, buttò nella mischia due punte, incentivò il pressing, pochi cenni al capitano Fontana, difensore dai piedi buoni, leader incontrastato dello spogliatoio. Così accadde il miracolo, i sabaudi andarono in bambola, lo stadio divenne un inferno, urla, bestemmie dagli spalti, sembrava di vivere in un’avventura folle, e giù le reti una dopo l’altra, fino al fatidico tre a due. Quello dell’ultimo minuto.
La celebrazione della follia.
L’impossibile che diventava realtà.
E Cicogni che si diresse, non appena fischiato il quarantottesimo minuto, braccia parallele dell’arbitro, la fine delle ostilità, verso la curva dei Fighters ad urlare loro con tutta la forza che ancora aveva: – Avete visto, brutti bastardi di merda, ve l’ho fatta, qui a Bologna non si passa!
Sembrava un ultras della Fortitudo, tutta la curva del Bologna lo aveva celebrato come uno di loro, la fiera delle pazzie. Cicogni non era solo un allenatore, era uno psicologo, un manager a tutto campo, aveva la delega totale dal presidente Giancarlo Flamigni, valorizzava giocatori dalle serie cadette, li combinava con atleti delle tre sorelle, magari in discesa o in prestito o comproprietà per un apparentemente improbabile rilancio, e riusciva paradossalmente a compiere i miracoli più impensati, compreso quello di portare un anno il suo Bologna perfino in zona Champions. Insomma, una specie di Sir Alex Ferguson in salsa provinciale, e con molti, molti soldi di meno. Eppure faceva i miracoli sul campo. Come facesse, non lo capiva nessuno. Lo chiamavano il Maestro.
Così dopo la fine dell’interruzione pubblicitaria, la puntata di 91° minuto era diventata davvero un’altra puntata. Come si accese la luce rossa alla camera uno, fissa su di lui, il Conduttore, con sguardo fermo, solenne, rivoltò come un calzino tutto quanto era accaduto fino a pochi minuti prima. Addio alle discussioni acerrime, addio alle risse verbali compiute con la più incredibile dovizia degli aggettivi che neppure un vocabolario dei più completi avrebbe potuto documentare, e sempre senza l’utilizzo del turpiloquio. Dibattiti durissimi, privi di scrupoli, che affascinavano un pubblico frustrato, quello dei lunedì sera, quello dell’alienazione lavorativa da inizio settimana che per fortuna ritrovava il proprio sfogo mentale e psicofisico in quell’arena rissaiola tra avvocati penalisti, parlamentari, scrittori, giudici istruttori, giornalisti, columnist di fama, perfino attori e anchormen di telegiornali nazionali, che era ormai divenuta 91° minuto.
Tutto quel rumore fatto di parole era finito.
Il Conduttore aveva ripreso le redini. L’atmosfera era cambiata. Eravamo tutti ai posti di combattimento. Tutto si svolse come previsto, come Lui voleva, come Lui aveva stabilito, come avevamo subito adempiuto. Che palestra lavorativa! A Lui non sfuggiva nulla. I collegamenti telefonici, uno dopo l’altro, andarono a segno senza problemi. Le voci strozzate dei giocatori che lo ricordavano con commozione, frammiste alle solite immagini che giravano, agli stacchi sul pubblico, sugli ospiti che fino a neppure mezz’ora prima sudavano come pazzi mentre urlavano se ci fosse o meno un rigore per quell’azione dubbia al ventitreesimo minuto del primo tempo di Milan – Lazio, ed ora, in quello studio milanese, erano tornati non solo compassati, ma addirittura contriti per tutto quanto era accaduto, quasi a fingere, ammesso che di veritiero ci fosse in tutta quella commedia da diretta televisiva, una commozione sincera ad uso e consumo degli spettatori e degli investitori pubblicitari.
Intanto ero tornata alla postazione web. Gli umori degli spettatori erano rapidamente cambiati. Per carità, c’era ancora qualche email relativa a questa o quella partita. Ma la quasi totalità dei messaggi celebrava il ricordo di Cicogni. Una in particolare.
– Anche i nostri spettatori sono commossi per questa triste morte, improvvisa. Dicci allora, Miriana, le prime reazioni che stanno arrivando con le mail.
Ecco. Ora ero in onda. La camera tre fissa su di me. Inappuntabile, pronta.
– Sì. Diversi sono i messaggi. Ad esempio: grande Cico, non ti dimenticheremo mai, oppure Tu sei l’anima della grande Bologna dei condottieri. Ma ce n’è una, molto significativa…
– Da dove viene? – rispose il Conduttore, pronto a rimarcare la potenziale notizia televisiva.
– Da Torino – dissi – ed è firmata da Semprefighter69: Ero in curva durante Bologna – Juventus, e ricordo la grande risalita della squadra di casa, e Cicogni che venne sotto la nostra curva, dopo che lo avevamo insultato per tutta la partita. Ci guardò in faccia, fiero della vittoria conquistata col sangue, sudore e lacrime. Per me quello era, è e resterà un uomo. Nella nostra memoria di tifosi bianconeri.
C’era un’altra frase, ma non la riferii in diretta: il messaggio aveva tutta l’aria di essere stato scritto da un tifoso di ultradestra. Se anche ci fosse stato qualche riferimento politico in questo o quel messaggio, no. Assolutamente dovevamo censurarlo. Lo sport era ed è di tutti, destra, centro, sinistra. Anche se sappiamo tutti, nell’ambiente, che Fontana è un filodiessino, che Giacobetti della Juve tende più a destra, che Fillanotti, l’allenatore della Ternana, ascoltava con l’autoradio a manetta Faccetta nera, tutte queste cose non devono mai finire in pasto agli spettatori. Lo sport è solo lo sport. Nient’altro.
Così censurai quella frase finale. Meno male che la mail non era finita sullo schermo: il regista aveva avuto il mio stesso intuito. Quell’immagine col braccio alzato e il saluto romano, attaccata al termine del messaggio per salutare con onore il camerata Cicogni, che probabilmente, anzi sicuramente, la pensava allo stesso modo di quel tifoso bianconero, avrebbe creato troppi problemi alla tv e ai suoi azionisti. Coi preti di mezzo e l’ordine religioso che finanziava il gruppo editoriale, non era certo il caso di compiere simili e stupidi errori.
– Bene, Miriana – commentò dunque il Conduttore, per poi passare al culmine del segmento del programma: l’intervista al presidente Flamigni.
Commosso fino alle lacrime, sembrava un coccodrillo creato apposta per l’occasione. Al momento della diretta non ci pensavo, ma poi rivedendo il dvd a casa mi ero domandata se a parlare fosse davvero lui. Sì, quel maledettissimo gran figlio di puttana che era Giancarlo Flamigni, pronto a negarmi fino all’ultimo istante se avesse già firmato il contratto per la cessione o l’acquisto di questo o quel giocatore. Tutto questo, nonostante fossero stati appena depositati i moduli in Lega, e capace di sfoderare una grinta e una fermezza invidiabili nelle trattative all’Hilton, al punto tale da fargli guadagnare il soprannome di cammelliere saudita.
Ebbene, tutto avrei pensato, ma non certamente che in quel momento lui fosse davvero commosso, sincero, e forse un tantino pentito per la scelta dell’esonero a sorpresa di Cicogni, avvenuta al termine dello scorso campionato, e soltanto pochi mesi prima di questo infarto a sorpresa in un anonimo studio tv bolognese.
Una morte in diretta, quella di Cicogni, accasciatosi sul banco mentre altri ospiti discutevano, si accapigliavano attorno al più stupido degli argomenti che si possano affrontare in una grigia serata bolognese, sotto le luci sudoranti di un neon tirato a palla per esigenze di fotografia televisiva. Poi la sorpresa, lo sconcerto, l’interruzione della discussione, l’anchorman che fa gesti larghi con le braccia, stacco pubblicitario, le repliche di altri programmi da magazzino. Il vuoto. Il nulla.
Brutto bastardo, avrebbe dovuto restare sulla tua coscienza quella morte, pensavo. Invece lui, pronto a sfoderare una voce commossa, quasi dispiaciuta, a sfoderare il suo inestimabile bagaglio attoriale di uomo contrito, profondamente amareggiato per questa morte, per questa grave perdita per lo sport italiano, per il nostro calcio, perché dobbiamo onorare la memoria di Cicogni, e per questo – diceva – faccio un appello al sindaco e al prefetto di Bologna, lui che è sempre stato così sensibile alle sorti del Bologna Calcio, affinché valutino l’opportunità di intitolare, anche in deroga al vincolo dei dieci anni, una delle vie principali della città, alla memoria del nostro grande allenatore.
E no, mio caro! Troppo comodo cavarsela con l’intitolazione di una via, con questo coccodrillo a comando, magari compiuto con una bella cipolla a fianco della cornetta del telefono o del cellulare, proprio come si faceva e si fa tuttora sul set cinematografico, sia che si tratti di una produzione internazionale o di una fiction destinata alla fascia pomeridiana del day time. Ma era proprio quanto accadeva in quel momento.
Non riuscivamo a sottrarci alla commozione, sapevo bene che dietro quella facciata, quell’immagine formale, si nascondesse una realtà ben più cruda che neanche avrei potuto immaginare, neanche otto anni fa, quando decisi di dedicarmi al giornalismo sportivo, anche a costo di lavorare per centinaia e centinaia di chilometri lontano da casa. Ero lì, inappuntabile col mio tailleur rosso tenue, pronta ad apparire con lo stesso sguardo, senza mutare l’espressione davanti alla telecamera. Uno sguardo a metà tra l’ebete e il sorridente: quello che ti insegnano nelle scuole di giornalismo, durante le prove pratiche davanti alla telecamera, anche se poi è stata la pratica a forgiarmi, a mettere il pilota automatico, a resistere di fronte alle intemperie più strane, alle circostanze più imprevedibili, come quella che stavo vivendo: la morte in diretta di Fabio Cicogni.
Una commedia falsa, che non poteva certo che svilupparsi in quello strano modo. Ascoltavo con finta distrazione quella voce che dal telefono arrivava ed era sparata in diretta sugli spettatori che assistevano ad una televisione parlata, basata sulle immagini di quello che c’era stato, che non sarebbe più tornato, che sarebbe rimasto su un file mpeg e già catalogato per l’archivio, comprese le mie interviste negli spogliatoi durante quell’incredibile posticipo di campionato. L’unica certezza era l’affievolirsi del mio ricordo di quell’evento, di quei momenti vissuti in mezzo ad una trincea, lo stadio, mentre mi cominciavo pian piano a rendermi conto che Cicogni non c’era più, che non lo avrei più rivisto per motivi professionali, e che quel che restava di lui, quel video in cui stava accasciandosi mentre altri litigavano in studio, sarebbe stato trasmesso la stessa sera da un altro talkshow nazionale, alla faccia degli scrupoli di fronte alla morte.
Vivevo quella fase del programma come se si trattasse di una situazione di trance. Non mi rendevo conto di come stesse scorrendo davanti la vita, ma quella era la condizione di chi come me testimoniasse la realtà in movimento, destinata a non fermarsi mai, neppure durante i fatidici dieci giorni di vacanza da concedermi a campionato concluso. Ma per adesso, le vacanze, potevo sognarmele.
Il collegamento telefonico con Flamigni si stava concludendo. Non sapevamo cosa sarebbe accaduto dopo nella scaletta. Perché la scaletta non esisteva più. Era stata gettata alle ortiche. La scaletta era tutta nella testa del Conduttore.
Sguardo tagliente, furbizia tipicamente propria dell’aziendalista formatosi per decenni in Rai, e che raccoglieva ora i frutti della gavetta trascorsa. Con quel piglio furbesco che sapeva ben occultare dinanzi alle telecamere, mostrò il giusto grado di commozione, e dopo poche parole di ricordo volle cedere la parola agli ospiti presenti per commemorare Cicogni.
Guardatelo, il giornalista in completo eccentrico blu elettrico e con la cravatta raffigurante Marylin di Andy Warhol. Lui, che sapeva allargare le braccia e ricorrere ad aggettivi e verbi roboanti, termini ricuperati da certi libri degli anni ’20, con quegli occhiali colorati sapeva giocare all’estroso fuori dalle righe, e che nonostante la sua religiosamente fanatica fede juventina volle rendere omaggio allo scomparso Cicogni, al caduto Cicogni, al condottiero Cicogni.
E così via, tutti gli altri.
Il giornalista caduto in disgrazia con la rosea per una finta intervista a De Lucia, l’attaccante argentino della Roma, e licenziato in tronco, poi riciclatosi come inviato e conduttore presso altre televisioni nazionali con le sue trovate fuori dalle righe, vestendosi perfino con la toga di un avvocato. Per fortuna, quella sera era tutto compassato, autofrenato come pochi.
Infine lui: il vate. L’ex caporedattore della Stampa, colui che aveva rapporti diretti con i vertici della Juve, trattava direttamente con l’allenatore facendo a meno delle conferenze stampa, dei silenzi stampa, dei veti dirigenziali, aveva le notizie di prima mano e sapeva porgerle come se fossero anteprime ufficiose, scoops usciti casualmente, quando invece erano pilotate direttamente dal board di Corso Galileo Ferraris.
Di fronte a questo campionario di varia umanità, ero sempre la stessa. Imperterrita, sguardo fisso su Outlook. Le email che arrivavano una dopo l’altra. Prima o poi, me lo sentivo, il Conduttore mi avrebbe chiamata in causa. Avrei dovuto essere pronta a rispondere con le email più significative.
Puntualmente avvenne.
Puntualmente risposi.
Come smisi di leggere l’ultima email, proveniente da Bassano del Grappa, la patria di Cicogni, il Conduttore si concesse un breve pistolotto conclusivo.
– Cari telespettatori, questa sera 91° minuto si conclude in anticipo rispetto al solito. Non siamo capaci di andare avanti, dopo quanto è accaduto in uno studio di Bologna, dove il grande Filippo Cicogni ci ha lasciati, se n’è andato e non è più qui tra noi. Sono certo che la direzione di rete comprenderà la straordinarietà della circostanza. Avremmo potuto parlare delle partite di campionato, del prossimo turno di Champions League, delle prime mosse verso il mercato di gennaio, ma questo non è il momento. Non siamo nello stato d’animo di farlo. Per questo vi chiediamo di scusarci, ma stasera chiudiamo qui. Non manderemo in onda la sigla. Chiudiamo la puntata nel silenzio, perché crediamo che un breve momento di silenzio sia il momento migliore per concludere questo ricordo commosso che abbiamo voluto tributare a Filippo Cicogni. Grazie a tutti.
Il pubblico non applaudì.
I trainer ai lati dello studio avevano dato specifica direttiva agli spettatori, dietro espresso ordine del Conduttore: pochi cenni, essenziali. La camera due e la tre si soffermarono sui volti delle persone presenti.
Tutti impietriti, ancora scossi per l’impatto della notizia.
Verità? Finzione? Oltre lo schermo tutto appariva credibile. Autentico. Reale. Pronto per essere assimilato, senza barriere critiche, dai telespettatori. Perfetto.
Dopo circa venti secondi, si spensero le luci sulle telecamere.
La diretta era finita.
Ci alzammo in piedi. Iniziammo a raccogliere le poche carte. Tra poco dovevo tornare in sala trucco e tornare alla vita normale. Non più quella virtuale di uno studio televisivo, per quella sera.