Primo incontro con la scuola di Amalia Lilla Pezzi


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Dire che la scuola è stata per me una seconda casa, una seconda famiglia e un’occupazione gradita e costante della mia vita non è un’esagerazione: vi sono entrata infatti a quattro anni e ne sono uscita a sessanta.

Il mio primo incontro con l’ambiente scolastico è avvenuto appunto nell’asilo di Alfonsine, gestito da suore appartenenti all’ordine del Castelletto del Garda.
Se ben ricordo, erano quasi tutte molto giovani e di bell’aspetto; di alcune ricordo addirittura i nomi alquanto strani: Suor Speciosa e Suor Graziosa, poi c’era Suor Lidia, la madre superiora.
Erano vere maestre nell’arte del ricamo; nelle prime ore pomeridiane ci riunivano nella grande sala da lavoro, che si affacciava su di un ampio terrazzo, dove imparavamo ad usare l’ago e il filo sotto l’esperta e paziente guida di quelle pie donne, ma nonostante io fossi rifornita di tela e di cotoni variopinti, riuscii a combinare ben poco, per via delle mani che, specialmente in estate, mi sudavano fastidiosamente, per non parlare del sonno che mi aggrediva durante il rosario che le monache ci facevano recitare durante il lavoro.
Di quella prima scuola ricordo perfettamente la collocazione delle aule, dello studio della Superiora, della piccola chiesa, che le buone suorine non si stancavano di lustrare e di abbellire con fiori freschi.

Durante la bella stagione uno sfarfallio di grembiulini rosa e azzurri sciamavano per l’ampio parco ombreggiato da annose piante, testimoni silenziose di chissà quante corse, risa, pianti e cadute di bimbi ormai cresciuti. In un angolo del parco vi era perfino una giostra, delizia dei bambini e croce delle monache; ciascuno di noi doveva ingaggiare una vera e propria lotta per salirvi, di conseguenza concedeva poi con fatica il posto a qualche altro.
Un anno, credo fosse il 1935, le suore dell’asilo allestirono uno spettacolo teatrale, trasformando parecchi dei loro piccoli alunni in attori, cantanti o addirittura in ballerini. Io fui tra i prescelti e, pur non essendo un personaggio di primo piano, partecipai comunque a varie scenette, ora cantando, ora accennando a qualche passo di danza, ora dicendo qualche battuta in una situazione comica.
Ci preparammo scrupolosamente sotto la guida paziente di quelle brave monache .
La sera tanto attesa della rappresentazione eravamo tutti molto emozionati.
Quando più tardi il sipario si alzò, un mare di teste si presentò ai nostri occhi: era una folla di parenti e amici venuti ad applaudire gli scolaretti dell’asilo. Nessuno di noi si lasciò intimorire a quella vista; dopo un breve attimo di silenzio si sentì, simile ad un sibilo, la voce della suggeritrice, l’incanto si ruppe e una vocina tremante uscì dall’ugola infantile del primo attore; un’ovazione d’incoraggiamento accompagnò buona parte della canzoncina che, quando l’applauso si spense, era già terminata e il minuscolo cantante, dopo due goffi inchini, a sinistra e a destra, uscì precipitosamente dalla scena, inciampando nella lunga veste.
In questi casi gli applausi si intensificavano, come se il pubblico, in delirio, volesse dimostrare di apprezzare anche quei piccoli e deliziosi fuori programma.
Io partecipai ad un quadro vivente di carattere patriottico. In cima ad una gradinata stava una di noi, tutta bianco vestita con una corona di cartone argentato sulla lunga parrucca bruna, a simboleggiare l’Italia. Nei gradini sottostanti stavano tante altre bambine vestite da piccole italiane (io ero fra queste), mentre al centro del palcoscenico un maschietto in abiti d’aviatore rappresentava Francesco Baracca in atto di salire su di un tozzo aereo di cartone. Un inno patriottico dell’epoca faceva da sottofondo alla scena che ogni volta, durante le prove, mi aveva procurato un brivido d’emozione.
Da allora, ogni volta che pronuncio il nome della mia patria, rivedo quel volto lentigginoso di bimba circondato dai riccioli stopposi di quella polverosa parrucca, su cui spiccava la torre di carta argentata a mo’ di corona. Vi lascio immaginare gli applausi e la pioggia di caramelle che si abbatterono sul palcoscenico all’apparire di quella maestosa scena.
Nessuno di noi, secondo gli ordini ricevuti, osò muoversi dalla propria posizione; forse sentivamo tutta la responsabilità della parte che stavamo rappresentando: l’Italia e gli Italiani e non ce la sentivamo proprio di disonorare l’una e gli altri per qualche caramella, ma appena calò il sipario, tornammo ad essere dei piccoli spensierati e corremmo ad afferrare le meritate caramelle multicolori. Faceva uno strano effetto veder l’Italia fare a botte con Francesco Baracca che aveva osato soffiarle una cioccolata proprio sotto il naso.

Ah!, beata infanzia, quando si può passare senza bruschi traumi dalla situazione più seria a quella più grottesca.
Un’altra scena allegorica, a cui partecipai, s’intitolava “ Le quattro stagioni”.
Io ero l’autunno, altre tre mie amiche erano, rispettivamente, l’estate, la primavera, l’inverno.
Cantavo una canzoncina dalla cadenza mesta, che ben s’intonava alla stagione che dovevo rappresentare. Indossavo un abito di seta color avorio a cui erano stati applicati grossi grappoli di carta violacea o verdina con tralci e foglie; insomma sembravo una vigna in piena regola.
Si udì nel silenzio più assoluto la mia vocetta intonata ma un po’ tremante, accompagnata dalle note di un pianoforte un po’ scordato. Che coraggio avevo a quel tempo, o meglio che incoscienza e che fiducia nella bontà del pubblico, che del resto dimostrò di esserne degno; infatti fu prodigo di ovazioni per tutti i piccoli attori di quell’indimenticabile serata.
“Io son l’autunno triste che fa cader le foglie
Il vento le raccoglie, portandole con sé.”
Questi erano i primi due versi della mia canzoncina. Come si vede vi è ripetuto il tema tanto caro a tutti i poeti, da Dante al Leopardi, quello cioè delle foglie che si staccano tristemente dal ramo, mentre quel cattivone del vento le trascina lontano, chissà dove, chissà perché.


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