"La surreale storia di Gioia, la ragazza mummia" di Alberto Gais


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Quando nacque, prima e unica figlia, peraltro attesa per anni dopo il matrimonio, Antonio e Giulia non contennero la felicità. Fecero una festa di battesimo che tutto il paese avrebbe ricordato, non badando a spese.

La bambina, molto bella e tutta salute, fu per paradosso chiamata Gioia, un nome poi nemmeno stravagante, e in fondo anche abbastanza comune, (ma che potevano saperne i poveri genitori di quello che sarebbe accaduto?)

Nessun essere umano è in grado di prevedere un dramma, ma ancora di più non può sapere, quando tutto è compiuto, che cosa voglia dire per una persona portarsi quel dramma addosso.

Voglio che sappiate subito che Gioia non fu vittima di malattia grave, o di un incidente con serie conseguenze sul suo fisico, non voglio neanche tenervi sulle spine, ma mi ci vuole un po’ di tempo per spiegare, abbiate pazienza.

Fino al quinto compleanno, Gioia fu una bambina assolutamente normale. Nella culla dormiva placidamente, mangiava senza fare capricci e, soprattutto, elargiva sorrisi accattivanti a tutti. Insomma una meraviglia di bambina, bellissima e ruffiana.

Poi, un bel giorno, non si sa come né perché, Gioia smise di ridere.

Proprio così, e non solo, purtroppo: smise anche di sorridere.

Come diavolo era possibile? I primi medici interpellati non seppero cosa dire. Non vi erano segni di fenomeni neuro cerebrali che potessero compromettere la funzionalità dei muscoli facciali. La bambina non accusava nessun dolore fisico, ma reagiva e piangeva se le si pungevano con uno spillo le dita dei piedi o delle mani. Quindi?

Così non restò che pensare a qualche specie di depressione infantile, per farla breve, e che bisognasse fare altre indagini prima di prevedere un piano terapeutico.
Le indagini mediche causarono ai genitori sgomento, ma gli stessi medici non seppero dove sbattere la testa per capire quell’assurdo fenomeno.

Gioia aveva un appetito normale, parlava, sbadigliava, dormiva sonni tranquilli e manifestava l’affetto con i gesti, come baci e abbracci, ma il viso era come colpito da una paresi che le impediva l’istintivo movimento di labbra, guance e perfino gli occhi non sorridevano.
I genitori restarono increduli e anche un po’ scettici: pur essendo profani si chiesero come fosse possibile che in una persona si fermasse uno dei riflessi più elementari e istintivi che l’essere umano ha nei geni da che mondo è mondo.

In fondo sorridere è quasi come respirare, ma la bambina non reagiva neanche al solletico.

Antonio e Giulia non si arresero: non avevano problemi economici ma si sarebbero svenati pur di rivedere la bambina come era stata fino al quinto anno di età.

Stilarono una lista dei migliori specialisti tra neurologi, psichiatri infantili e psicoterapisti pediatrici: tutto inutile.
Arrivarono a farla visitare dai più grandi uomini di scienza, e anche quelli non ci capirono un bel niente. D’altronde: come prendersela con loro? Era un caso di letteratura medica da portare ai congressi internazionali e pubblicare sulle riviste specializzate.
Gioia non manifestava nessun sintomo tipico, apatia, svogliatezza, disordini alimentari, difficoltà di concentrazione, nossignore, niente di tutto questo!

Ogni luminare profumatamente pagato non poté che alzare le braccia, e, detto per inciso, solo uno di loro fu così onesto che non chiese neanche il suo onorario.

Nessun farmaco fu prescritto, solo sedute di psicoterapia, e anche quelle non portarono alcun risultato.

Era come vivere nella favola del Re triste, ma la loro purtroppo era una maledetta realtà.

Che fare?

Se Antonio e Giulia non fossero state due persone con la testa sul collo e soprattutto attenti a proteggere la bambina, Gioia avrebbe rischiato, come se non bastasse, di diventare un fenomeno da baraccone.

Sulle prime la bambina fu molto incuriosita e per niente preoccupata di tutta quell’attenzione intorno a lei, intanto studiava con profitto, giocava col suo computer, ma presto fu costretta a prendere atto che qualcosa in lei non andava.

Siate sinceri: riuscite a immaginare cosa possa significare nella vita sociale di una persona un fatto del genere?

A scuola, pur brillando negli studi, non poteva socializzare con compagne e compagni. Come si sta insieme a una che non sorride?
Non fosse stato per il fatto che spesso e volentieri lei aiutasse i suoi compagni di scuola, si sarebbe pensato che fosse una snob, ma poco importava che non fosse così.
In breve Gioia fu isolata, soprannominata crudelmente la mummia, e non le restò altro che prendere atto del suo problema.

Ricordava che tutti quei signori in camice bianco le avevano fatto un sacco di domande, e solo più tardi nel tempo si rese conto che lo scopo era quello di indagare su possibili traumi vissuti inconsciamente.

Provò a sforzare la memoria per verificare che non le fosse sfuggito un seppur apparentemente insignificante episodio, e anche quello fu uno sforzo vano.

Ma se la sorte aveva voluto infliggerle quell’assurda punizione, di contro il destino le aveva regalato una personalità di ferro, un’intelligenza superiore alla media e, particolare non trascurabile, un’avvenenza che non passava certo inosservata.
Così Gioia impiegò le energie necessarie e si mise a condurre una vita quanto più normale possibile, come se il suo problema fosse comune ad altri, come la balbuzie, o la dislessia, o qualunque altro tipo di piccolo handicap.

Piccolo?

Pensatela come volete.

La pubertà arrivò regolarmente e con quella i suoi primi desideri, misto naturalissimo di sensi e sentimenti.
E puntuale arrivò la sua prima cotta per un ragazzino carino e molto educato.
Si confidò con sua madre.
– Gioia, tesoro mio, e non sei contenta?
– Come faccio a esserlo, mamma? Lui non mi guarda nemmeno.
– Ma cosa dici? Non è possibile non guardare un fiore di bellezza come sei tu!
– Mamma! Fiore di bellezza un corno! Cosa credi, che sia ancora una bambina? Io vengo avvicinata solo quando qualcuno non capisce una cosa sui libri e mi chiede di spiegargliela. Per tutti io sono solo una secchiona, e non credere che non sappia come tutti mi chiamano!
– Come? – chiese incautamente sua madre, che lo sapeva bene.
– Gioia la mummia. Perché non rido e non sorrido mai!
– Amore perché non provi a sforzarti? Pensa agli attori. Quelli se devono ridere in una scena mica devono averne voglia, s’impegnano, è una tecnica.

Povera e ingenua Giulia, che cosa poteva dirle? Gioia era da quel dì che ci aveva provato!

Aveva davanti allo specchio provato tutte le smorfie possibili, ma il suo viso, come per un sortilegio, diventava orribile, inguardabile, e tutta la sua bellezza si perdeva in pose grottesche.
Ci ho girato intorno ma l’aggettivo più appropriato è: mostruoso! Quando faceva quei penosi tentativi il suo viso così diventava.

Dopo qualche tentativo si spaventò di se stessa e lasciò perdere.

Arrivò quindi l’adolescenza, la fine delle superiori e nel frattempo Gioia si era rassegnata. Il suo cuore si era chiuso e non poteva pensare ad altro che a studiare. Doveva decidere la facoltà a cui iscriversi, ma aveva un’estate, per pensarci.

Per quanto provata dall’isolamento in cui suo malgrado era finita, a Gioia non mancava il desiderio, la voglia di vivere e, per quanto assurdo per lei, di divertirsi. Così, quando i suoi genitori le chiesero che regalo avrebbe gradito per il diploma, lei rispose senza pensarci un attimo che desiderava un viaggio.

Voleva andare a Parigi.

Fu nel preciso momento in cui pronunciò il nome di quella città che Gioia realizzò che da quando era nata non si era mai mossa dal suo paese. E che così come lei si era rassegnata al suo stato, così tutti i compaesani si erano abituati a lei, e nessuno faceva più caso alla sua presenza, anche se era la più bella ragazza che si potesse incontrare per quelle strade.

A neanche vent’anni Gioia la mummia era diventata praticamente invisibile.

Antonio e Giulia rimasero un po’ spiazzati da quella richiesta, ma naturalmente non ci pensarono nemmeno a non accontentarla. Così, quando cominciarono a parlare del viaggio che avrebbero fatto tutti e tre insieme, quasi si spaventarono alla reazione della figlia.
– Volete scherzare, spero.
– Cosa? – disse Antonio.
– Io vado da sola. – disse.

E fu come una sentenza, pronunciata con tono perentorio che non ammetteva repliche.
Dunque, nei primi giorni di agosto, Gioia e la sua valigia presero possesso di una comoda stanza di una dignitosa pensione a due passi dal centro.
Avrebbe trascorso a Parigi una intera settimana, splendido!

Il suo viso, come sempre, non esprimeva neanche il più vago senso di entusiasmo, ma per la prima volta nella sua vita, la ragazza provò una contentezza che le agitò le viscere, fino a scatenarle l’accelerazione del battito cardiaco e un’eccitazione sessuale mai provata prima.
Da turista inesperta e desiderosa di vedere i posti più belli, si era documentata e passò tutta la sua vacanza a visitare i prestigiosi musei, le fantastiche ville, e a passeggiare nelle strade più suggestive.

A pranzo mangiava nei ristoranti, anche quelli che sapeva essere molto cari, e a cena nei caratteristici bistrot.

Guardava i ragazzi e la sua voglia aumentava, ma lei poté gustarsi solo i loro sguardi e i tentativi di attaccare discorso con lei, perché quelli dopo un po’ si stufavano e tutto finiva lì.

La vacanza era ormai alla fine, ma lei si era riservata l’ultima giornata per passarla interamente nel meraviglioso parco ispirato a Disney.
Comprò un biglietto che le permetteva l’accesso a tutti i divertimenti per l’intera giornata.

Il tempo volò, e quando scese dall’otto volante si sentiva stanca, un po’ scombussolata ma molto soddisfatta per come aveva trascorso la giornata. Ora era buio ed era il caso di riprendere un taxi e tornare alla pensione.

Le si avvicinarono, per attaccare bottone, tre ragazzotti che parlavano un po’ in spagnolo e un po’ in francese e le chiesero di dove fosse.

Non avevano un brutto aspetto, uno solo dei tre aveva un viso indecifrabile, devastato dall’acne giovanile, ma i suoi occhi erano grandi e belli. Dopo qualche schermaglia assolutamente normale tra ragazzi, a Gioia sembrò che quel ragazzo non sorridesse, ma non diede gran peso alla cosa.

La compagnia dei tre durò non più di dieci minuti, poi due di loro, visto l’inspiegabile comportamento di quella ragazza che sembrava una specie di bellissima statua ambulante, si stufarono e se ne andarono.

Il terzo, il butterato, rimase invece con lei.
A quel punto Gioia stava per salutare anche lui e tornare alla pensione, ma il ragazzo le chiese se volesse mangiare qualcosa con lui al McDonalds e lei accettò.
Volle pagare lui e poi si offrì di accompagnarla in centro col suo scooter.
Lei fu d’accordo. Ormai era certa: il ragazzo le piaceva e di lui si fidava.
Solo quando si alzarono dal tavolo Gioia realizzò che aveva cenato con un ragazzo che, proprio come lei, non sorrideva e non rideva. L’unica differenza, fu costretta ad ammettere, erano gli occhi, che brillavano di un’incredibile contentezza. Non poteva sapere, la ragazza, che probabilmente anche i suoi occhi esprimevano la stessa luce.

Era uscita la mattina con un vestitino leggero, e in quel momento avvertì brividi di freddo. A Parigi era così, il clima. Il ragazzo tirò fuori dal portapacchi il casco anche per lei e in più le allungò un giubbotto che Gioia indossò volentieri.

Partirono.

Il ragazzo guidava piano. Lei era contenta e si sentiva molto tranquilla. Non riuscì a capire, però, per quale motivo il suo accompagnatore lasciò la scia luminosa del traffico intenso che portava in centro e imboccò delle strade laterali, poco illuminate.

Dove mi porta? Pensò.

Poi il ragazzo accostò in una stradina proprio buia e fermò il mezzo.
– Cosa fai? Gli chiese.
– Ti bacio.
– Perché?
– Perché ne ho voglia! Tu no?

Gioia non aveva alcuna idea di cosa fosse il male, ma capì che il ragazzo aveva brutte intenzioni.

Sentì il ventre contrarsi per l’eccitazione, e non capì se fosse più desiderio o paura. Poi la voglia passò e lasciò solo posto alla paura. Pensò le peggiori cose, che il ragazzo potesse essere un maniaco, e ucciderla, e allora lì si sarebbe conclusa la sua vita.

Pensò, mentre lui la guardava e aspettava un cenno di risposta, che lei voleva vivere ancora, voleva studiare, diventare un medico, magari un bravo chirurgo. Ora che voleva quel tipo da lei? Era ormai nel panico.

Ma Gioia aveva preso una cantonata. Il ragazzo non voleva farle del male, non la strinse, portò solo lentamente la sua bocca accanto a quella di Gioia e la sfiorò.
Le viscere della ragazza erano in fiamme ma la mente vedeva solo il pericolo, il terrore dell’ignoto, del mai provato.

Così l’unica cosa che le venne in mente fu la spaventosa espressione che aveva visto nello specchio quando aveva fatto quelle smorfie per provare a sorridere.
Raccolse tutte le energie che la paura le aveva lasciato e provò a ripetersi. Era certa che a quel punto al ragazzo sarebbe passato ogni desiderio.

Fece in tempo a capire che stava muovendo i muscoli del viso per ottenere l’effetto desiderato e poi svenne.

Il ragazzo la trattenne e l’adagiò dolcemente in terra. Gioia si riprese subito, vide l’espressione sempre più felice negli occhi del ragazzo e si calmò. Poi sentì il palmo della mano di lui sulla guancia: una carezza tenerissima.

Sentì le sue parole in spagnolo. E capì benissimo. Aveva detto: che meraviglioso sorriso che hai. Non poteva sbagliare, aveva detto proprio così.
In quella stradina buia non c’erano case, ma se ci fossero state, le persone avrebbero sentito delle incontenibili risate di gioia, qualcosa di mai sentito, neanche quando ragazzacci ubriachi facevano i loro schiamazzi.
Risate folli di un ragazzo e una ragazza che facevano l’amore.
Gioia non avrebbe mai saputo calcolare il tempo di quelle incontenibili risate, né poté capire perché poi i suoni in quell’aria immobile si trasformarono in gemiti. Avvertì un lungo fremito che partì dalla gola e arrivò fino alle dita dei piedi.
Nell’aria, dopo, ci furono solo sospiri, fino alle prime luci dell’alba, quando finalmente un ragazzo e una ragazza, assolutamente normali, montarono nuovamente sullo scooter, in direzione della città che si svegliava.

A quel punto l’unica cosa che si sentì nell’aria fu il rombo discreto della moto.
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