“Lago di sangue” di Paola Varalli


Entrando in casa dopo le vacanze mi accorsi subito che qualcosa non andava.
Cioè… intendiamoci, la porta blindata era chiusa bene e non c’erano segni di scasso, eppure avevo la precisa sensazione che non fosse tutto a posto.
Nel piccolo ingresso le cose parevano normali, le chiavi in ordine nell’armadietto dipinto di rosso, le ciabatte allineate sotto il calorifero, gli ombrelli infilati in un porta-vasi in metallo dell’ikea, nessun odore strano…
Mi diedi della paranoica e tentai di scacciare quella sensazione di disagio che, Dio sa il perché, aveva iniziato a infastidirmi fin dal pianerottolo.
Appoggiai lo zaino per terra e puntai diritta al frigorifero, avevo sete.
A Milano faceva ancora caldo, era stato (e continuava ad esserlo) un agosto di fuoco.
Stramaledetto anticiclone, non se ne poteva più.
Entrai in cucina.
La sensazione di disagio cedette il posto ad una certezza apocalittica. Mi accasciai sulla sedia atterrita, con gli occhi sbarrati e il fiato corto.
Il tavolo e il pavimento erano cosparsi di sangue. Macchie piccole e grandi creavano strani disegni sui muri schizzati di rosso, che scolavano sulle piastrelle bianche e sui pensili color panna. Il piccolo divanetto giallo, addossato alla vecchia credenza era ora a chiazze rosse di varie misure, il parquet chiaro del pavimento a tratti era divenuto rosso, come se ci avesse camminato sopra un gatto dalle zampe insanguinate. Persino il lavello di acciaio era rosso e scolacchiato.
Si erano salvati solo i quadri addossati alla parete di destra, quelli erano la sola cosa pulita in quel lago di sangue rappreso.
Ma chi? E perché? E come?
La porta era chiusa.
Qualsiasi cosa fosse successa, doveva essere passato un po’ di tempo. Tutte le macchie sembravano secche. E con tutto quel caldo disumano…
Aprii le finestre, mancava l’aria, ma fuori era anche peggio.
Quanto ero stata via? Per quanto tempo la casa era rimasta vuota? Dunque, ero partita per il lago verso i primi del mese, ora era il 20 di agosto, un paio di settimane… ma cosa diavolo si era prodotto lì dentro da insanguinare tutto il locale?
Le finestre! Mi alzai di scatto dalla sedia e le controllai tutte, la casa è piccola e le finestre poche. Ed erano tutte chiuse, chiuse le persiane, chiusi i vetri.
Mistero.
Dalla porta della cucina si passa in un disimpegno che dà direttamente in camera da letto. Gli schizzi erano ovunque, anche nel localino con l’armadio a muro. Arrivai fino in camera da letto.
L’ appartamento si sviluppa in lunghezza, una stanza dietro l’altra. Stretto e lungo.
Poi vidi una cosa in basso.
Sul tappeto della camera da letto trovai il colpevole.
O almeno, una parte di esso.
Un tappo.
Un tappo di sughero.
Tornai immediatamente in cucina e guardai in alto: i pensili, bianco crema, sono divisi da un piccolo vano a giorno, posizionato sopra il lavello, che serve da cantinetta per i vini, è largo una ventina di centimetri e suddiviso a scansia in riquadri, in modo da ospitare agevolmente otto bottiglie di vino sdraiate.
Ecco.
Al momento ce ne era una sola.
Anzi c’era quello che ne restava dopo l’esplosione.
Il tappo era stato sparato a dieci metri di distanza.
La parte in alluminio che lo trattiene era scoppiata, lacerata.
Tutti i libri di cucina del ripiano sotto erano rossi e, ora sì me accorsi, maleodoranti.
Prima di mettermi a pulire guardai l’etichetta e finalmente riuscii a sciogliere la tensione in un sorriso.
Era una bottiglia di Sangue di Giuda.


Lascia un commento