“Su Biccu” di Cynthia Collu


Questo racconto ha vinto il Premio Castelfiirentino 2008.

Papà indossa il completo in lana di Tasmania che gli ha regalato la mamma, il suo preferito. Gli va un po’ largo e il collo magro e scuro spicca nel bianco della camicia. Accanto a lui ci sono due vecchi. L’uomo è l’icona di Babbo Natale, le gote piene, i capelli bianchissimi. La stonatura è che veste di un marrone triste, deciso, senza predominanza di rossi o di gialli che gli diano un po’ di vita. La donna è paffuta, i capelli sono candidi, ha un sorriso intenerito che nasconde tra le rughe. Se non fosse per il luogo in cui si trovano, penserei a marito e moglie.
Papà è al centro della stanza.
Sono andata prima dal vecchio e poi dalla donna, li ho osservati in fretta, chiedendo scusa per la curiosità fuori luogo. Poi mi sono girata verso papà.
La sua bara è di legno chiaro, dorato. Sono contenta che abbiamo scelto un colore caldo. Le altre due casse sono marrone scuro, non saprei dire di che legno. Sono imponenti, una ha persino dei fregi in rilievo. La bara di papà invece è semplice. Un esagono allungato che illumina la stanza.
Mi sono avvicinata, ho indugiato con le dita sulla sua guancia. Non mi pare di avergli mai dato una carezza, prima, né che l’abbia fatto lui.
D’improvviso faccio un passo indietro. Un altro passo, poi corro fuori dalla camera mortuaria, corro senza fermarmi sino al parcheggio, mi appoggio a una macchina, controllo il respiro, prima in pancia dopo in petto poi in gola, e ancora, e ancora, finché la nausea non se ne va assieme all’odore della morte.
Poco lontano c’è un gruppetto di persone.
Hai visto com’è serena, la nostra Nina?, sta dicendo un uomo, Pare ancora viva.
Gli altri due sorridono, muovono il capo in segno di assenso, sembra che il fatto sia sufficiente a consolarli.

Mio padre si chiamava Lorenzo. Ma mia madre lo ha sempre chiamato Renzo. Il più delle volte, semplicemente Re.
Re, come sovrano. Pronunciato con la e chiusa, come insegna il dizionario. Re, e chiusa, uguale a monarca, sovrano; re, e aperta, uguale a nota musicale. Così ci si esprime correttamente nella terra di Dante.
Mia madre è toscana, ma non credo che chiamando Re mio padre, intendesse dargli una veste di regalità.
Noi milanesi pronunciamo queste parole al contrario. Quando intendiamo il sovrano, diciamo un Re bene aperto, se invece indichiamo la nota musicale, stringiamo le labbra in una specie di sorriso forzato.
Spesso sbagliamo anche con le o. Per esempio nella parola orco. Orco la diciamo con la o chiusa, invece andrebbe aperta.
Mio padre è un orco.
Lo pensavo spesso, quando la sera tornava a casa ubriaco. E’ un orco, e m’infilavo sotto il letto coprendomi le orecchie con le mani.
Orco con la o aperta, come nella parola porco.
Sei un porco, gli gridava mia madre, e gli tempestava il petto di pugni, cercava di picchiarlo con le sue mani minute. Sono così piccole che mi servono a ben poco, mi aveva detto una volta.
Porco detto correttamente, con la o bella spalancata.
Anche mio padre urlava porco con la o bella aperta, e poi ci aggiungeva Dio. Dopo il porco qualcosa succedeva, un pugno contro un mobile, un piatto rotto, a volte l’intera tavola sparecchiata di colpo, e di nuovo l’affanno nel respiro di mia madre; dalla mia cameretta intuivo le sue mani in miniatura graffiargli il viso, nel tentativo di cancellarlo.
Ascoltavo i rumori provenienti dalla cucina, lo sfrigolio delle schegge di vetro e di ceramica, il ritmo sonnolento dell’acqua che gocciolava, e ogni volta mi stupivo nel constatare la vita propria di quei suoni, la loro indifferenza davanti all’odio dei miei genitori,
Odio, con la o bene aperta.

Il corteo funebre sta arrivando. Zia Lelia e Zia Maria sorreggono mia madre, la loro cognatina, una per lato, come due carabinieri che svolgono il loro dovere. Mamma lascia fare, immusonita.
I miei fratelli sono con me sul piazzale, sorridiamo, stringiamo mani, accettiamo laconiche condoglianze.
C’è elettricità nell’aria, il cielo oggi è curioso, terso, l’azzurro è frizzante, verrebbe da dire che è proprio una bella giornata, se non fosse sconveniente.
Salutiamo conoscenti, parliamo fitto tra noi. Siamo eccitati. Basta niente e scoppia la voglia di ridere. Zia Fede, la sorella di mia madre, ci viene incontro. E’ bassa, tarchiata, ha difficoltà a camminare per via dei diverticoli, piccole anse che le si sono formate negli intestini.
Ho i divertiti, dice a chi le chiede di che male soffre.
Una volta a casa sua mi ha detto di usare il bagno muto.
Che bagno muto, zia?
Quello senza la finestrina, ignoranta!
Ci sorride, mostra con orgoglio la collana che ha al collo, dice che è di veri zircoidi, poi si volta a osservare il carro funebre. Caspita!, esclama con entusiasmo, che fiori freschi hanno dato al morto!
Uno sguardo tra noi fratelli e la nostra aria contegnosa va a farsi fottere. Ridiamo, finalmente. La gente si volta a guardarci, zia Fede non capisce, poi si unisce al coro. Sia mai detto che rinunci all’occasione di far chiasso.
La sua risata è chioccia, a scoppi continui, a ogni colpo la sua collana di zircoidi sobbalza.

Appena in chiesa io e i miei fratelli c’infiliamo nella navata laterale, lasciamo sole, ai primi posti di quella al centro, la mamma e le zie.
Zia Lelia si volta a guardarci, guarda soprattutto me, la nipote femmina. M’irrigidisco, per un attimo temo che venga a prendermi per la collottola e mi trascini fino alla panca che mi è riservata.
Per tutto il tempo della funzione sento il suo sguardo conficcato nel cranio.
Solo mamma non guarda. Se ne sta immusonita a fissare davanti a sé.
Seguo il suo sguardo e d’improvviso mi ricordo di papà.
La sua bara è un esagono di luce davanti all’altare.

Mi dice, Preparati che oggi ti porto al cinema.
E’ la prima volta che papà me lo dice, e io non so che pensare. Mi vesto in fretta e intanto mamma mi grida, Muoviti!, sembra non accorgersi della novità o forse per lei non è una novità, magari prima gli ha detto, La piccola non è mai stata al cinema, perché non la porti con te? così io posso badare agli altri due, portatela via e lasciami respirare.
Entra nella camera dei miei fratelli e ne esce subito, dice che il mio letto sembra una cuccia, lei non ne può più, che male ha fatto per avere una figlia così, cosa aspetta mio padre a portarmi fuori, uscite, aria!
Per strada c’è nebbia. Mio padre cammina veloce e io cerco di tenere il passo.
Una folata si para davanti a noi, papà la guarda e d’improvviso ci corre dentro. Non lo vedo più, e per il terrore ci corro dentro anch’io. Il suo cappotto appare e scompare tra i vapori, timidamente ne tocco la manica, puzza di tabacco e di umidità.
Papà cammina senza guardarmi, il passo teso, punta i piedi come se volesse volar via, e d’improvviso gli sento addosso un altro odore, sottile e pungente come la nebbia.
Vorrei stringergli la mano, ma so che non devo. Mi limito a tenere d’occhio il cappotto prima che papà voli via con la sua tristezza, lasciandomi sola.
Il locale che ci accoglie è piccolo e freddo. Qua e là delle coppie si sbaciucchiano, un vecchietto seduto accanto a una di loro fissa con interesse lo schermo spento. Dei ragazzi si osservano in giro, quando i loro sguardi s’incrociano col mio mi scivolano sopra come seta. Alle mie spalle finalmente il ronzio della pellicola.
Il film è per adulti e della storia non capisco niente.
Ed ecco, una donna in sottoveste sta uscendo dall’ombra. Davanti a lei c’è un letto, sul letto un uomo. Gli si mette davanti, si accarezza i seni, si spoglia lentamente.
Osservo, incredula. Possibile che papà mi abbia portato a vedere queste cose?
Lo sbircio di sottecchi, magari anche lui è a disagio, invece sembra molto interessato alla tizia in mutande e reggiseno.
Quando usciamo la nebbia si è alzata. Io e papà non ci guardiamo.
L’odore è rimasto, punge gli occhi e la gola.

Al cimitero di Musocco qualcosa ci costringe a fermarci. I carri funebri sono tutti in fila, uno dietro all’altro, come in un ingorgo stradale.
Che c’è? Che è successo?
Niente, qualcuno si è confuso ed è andato in un altro cimitero, il suo morto è il primo della fila e per seppellirlo bisogna aspettare che il congiunto ritrovi la strada e venga qui.
C’è un po’ di agitazione, i parenti dei vari defunti escono allo scoperto, si sgranchiscono le gambe, si osservano l’un l’altro fingendo assoluto disinteresse.
Finalmente il parente smarrito arriva, Scusate, scusate, ci dice trafelato, e la coda riprende a muoversi.
Uno degli operatori del cimitero ci indica dove andare. Davanti a me si snoda una lunga scanalatura nel terreno. Osservo allibita gli addetti alla sepoltura metterci dentro le bare, una dopo l’altra, allineandole con precisione.
Abbiamo saltato uno stadio e siamo già alla fossa comune?
L’operatore mi rassicura. Adesso la fossa la fanno così, un tracciato unico, ma quando il lavoro è finito non si vede niente, è come per le altre tombe, ognuna ha la sua sistemazione singola, che credeva, signora?
Ringrazio, mi avvicino alla fossa e guardo in giù.
Papà è il capofila, se ne sta nel suo angolo e aspetta.
Una signora anziana dietro di me inizia a piangere, lancia un fiore sulla cassa di mio padre, la figlia le tira dolcemente la manica, Mamma, vieni via, questo non è papà, papà è quell’altro, non riconosci la sua bara?

Mi dice, Sai che il sardo è una vera e propria lingua e che alcune parole sono identiche al latino?
C’è stato un tempo in cui papà mi rivolgeva la parola solo quando era ubriaco. Bastava che lo guardassi, oppure che non lo guardassi affatto, o che tentassi di guardare fisso un oggetto qualsiasi, purché fosse lontano da lui, per sentirmi dire, Che hai da guardare, cretina, adesso ti levo quel sorriso idiota dalla faccia. Io scappavo e lui mi correva dietro finché non mi acchiappava per poi mollarmi un ceffone.
Ma adesso sono grande, non mi dà più dell’idiota e il silenzio tra noi è insostenibile. La lingua sarda è un argomento neutro, possiamo parlarne a lungo senza che provochi imbarazzi.
Gli brillano gli occhi quando parla della sua terra. Pencola con la testa un po’ di qua, un po’ di là, il suo grosso naso ne segue il movimento, come un compasso che disegni nello spazio cieli grevi di luce, alberi di ulivo contorti in un abbraccio millenario, e in fondo, proprio in fondo, la linea piatta del mare.
Mi dice, Per esempio questa frase – pone tre panes in bertula – tu sai che vuol dire?
Io l’immagino, perché al liceo ho studiato latino, ma col capo gli accenno di no, e lui piega il suo in avanti, il naso è la cosa che vedo meglio, non è proprio grosso, é lungo e storto come un ramo di ulivo, anche la sua bocca è storta, si solleva leggermente di lato mentre parla. Solo gli occhi sono diritti, due linee azzurre.
Vuol dire, mi dice, Metti tre pani nella bisaccia. Si solleva, tutto contento, fissa i suoi occhi nei miei. Io gli sorrido. Puro latino, dice lui. Poi continua, Un’altra parola rimasta tale e quale è “casa”; in sardo “domu”.
Anche formaggio, intervengo io, è rimasto identico.
Lui conferma scuotendo vigorosamente la testa, “Su casu”, sospira, come se stesse parlando del paradiso perduto.
Un attimo di silenzio, poi s’infervora.
Lo sai che ci sono delle parole che ormai i giovani non usano più? Quando io ero ragazzo ci davamo appuntamento con gli amici all’angolo della piazza, e dicevamo, Ci si vede in su biccu. Oggi nessun giovane conosce il significato di questo termine.
Che vuol dire “biccu”, papà?
Gli occhi gli s’illuminano.
Angolo, significa angolo.
Tira su col naso, guarda in direzione della finestra.
Propriamente vuol dire becco. Ma noi lo usavamo per indicare l’angolo dove ci si ritrovava. Termini decrepiti, che ormai ricordiamo solo noi vecchi.
Si alza.
Tuo nonno, dice all’improvviso, è morto con il desiderio di poter rivedere la Sardegna. Ma era troppo malato e non abbiamo potuto accontentarlo.
Poi non dice nient’altro. Si affaccia al davanzale e guarda in direzione del bar, che è proprio all’angolo della nostra via.
Si lecca le labbra.
Ho sete, dice.

Sono uscita in terrazzo per respirare.
Dopo il funerale abbiamo accompagnato mamma a casa, abbiamo cercato di chiacchierare un po’ ma lei si è subito infastidita.
Adesso che il marito si è tolto di mezzo non vuole nessun altro in mezzo alle scatole. Si è alzata due o tre volte dalla sedia, ha spostato una tazza dal tavolo, un bicchiere, poi si è riseduta e ci ha guardato, imbronciata, ha detto che aveva mal di testa, le stavamo togliendo l’aria, che aspettavamo ad andarcene?
L’abbiamo lasciata dicendo che ci dispiaceva che rimanesse sola.
Lei sa benissimo che non è vero ma tanto domani si vendicherà attaccandosi al telefono con il figlio di turno per fargli le sue rimostranze, Mi avete lasciata sola in un momento simile, che male ho fatto per avere dei figli così?
A casa ho buttato la borsa su una sedia e mi sono liberata in fretta del cappotto. Sono rimasta a lungo seduta, a guardare fuori dalle vetrate. La notte è scesa in fretta e le stelle sono apparse, bianche e gelide come pezzi di ghiaccio.
Il terrazzo è immenso, per un po’ l’ho percorso in lungo e in largo, senza sapere che fare. Mi è sembrato di sentire un temporale in arrivo, allora mi sono appoggiata alla balaustra, cercandolo sino all’orizzonte.
Nelle giornate limpide a nord, proprio diritto davanti a me, oltre i capannoni, oltre le case e le villette, oltre i caseggiati popolari, oltre le due torri di Corsico, si può vedere la madonnina del Duomo. Anche stasera la distinguo subito, è talmente illuminata che non ci si può confondere. Alla mia destra spicca invece un immenso Tre, simbolo della compagnia telefonica, torreggia arrogante su un palazzo grigio. Alle sue spalle la bretella della tangenziale si muove luminosa, in un flusso ininterrotto, taglia la strada all’Ikea. A sinistra bassi capannoni, poi la campagna si perde nelle risaie senza più interruzioni di case sino all’orizzonte.
Mi accendo una sigaretta, aspiro profondamente, mi viene voglia di un caffè. Vado in casa, ne riscaldo un po’ di quello avanzato stamattina, torno fuori con la tazza tra le mani. Lo assaggio, ha un sapore disgustoso, lascio la tazza sulla balaustra, accanto a me.
Risalgo con lo sguardo verso nord, non proprio al centro, un po’ più a sinistra del Duomo. Lì dovrebbe esserci il cimitero di Musocco.
Lì ora ci sta anche mio padre.
Me lo immagino nella fossa, l’hanno messo proprio nell’angolo, primo davanti a tutti, come piace a lui.

Mi dice, Vieni a vedere.
Raggiungo mamma sul balcone, guardo in strada, papà è ritto all’angolo del bar, i piedi rovistano per terra, sono piccoli per un uomo della sua altezza, ha le mani infilate in tasca, si guarda in giro, poi torna a fissare il bar.
Mamma dice – le sento una punta di scherno nella voce – Tuo padre si veste di tutto punto, esce di casa, fa cinquanta metri, si piazza lì davanti e non si muove più. Se ne sta fermo per ore, su quell’angolo, guardandosi attorno.
Perché non entra? le chiedo.
Lei alza le spalle.
Gli offrirebbero da bere e lui ha paura di ricascare nel vizio. Da quando col vino ha chiuso non sa come passare le giornate. Tutti i suoi amici sono là dentro, giocano a carte e bevono. Lui non ha più nessuno con cui parlare, allora si mette lì davanti e aspetta.
Che aspetta, mamma?
Che il tempo passi, e venga l’ora di tornare a casa.
Un’altra alzata di spalle ed è già rientrata.
Osservo mio padre avvolto nel cappotto enorme, i piccoli piedi irrequieti che scalpicciano sul cemento, il basco gli nasconde il viso magro da cui spunta il naso che indaga se intorno, per esempio, ci sia qualcuno con cui scambiare due chiacchiere.
Aspetta, aspetta, ma nessuno arriva a fargli un po’ di compagnia.

Allora penso che in fin dei conti dove sta adesso forse è meglio, ha trovato un sacco di compagni e ne avranno di cose da raccontarsi, lì nella fossa, tutti in fila come tanti soldatini.
Scalpiccia un po’ con i piedi nella terra fresca, si guarda in giro e intanto è contento che proprio lui sia stato messo nell’angolo, chiacchiera felice, disegna nello spazio cieli grevi di luce, e ogni sera, all’ora convenuta, manda a tutti il suo richiamo, a voce alta, perché ognuno lo senta, Ragazzi, ci vediamo più tardi in su biccu, e poi aspetta, aspetta che il tempo passi, e venga finalmente l’ora di tornare a casa.


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