Sul sedile “del morto”, Il Vile teneva banco come al solito, le parole rapide quasi quanto i suoi movimenti. L’aveva fatto per l’intero viaggio a bordo della Micra di Gario, ormai eletta a taxi ufficiale della compagnia per chilometri accumulati. Dietro, avvolta in un vestitino di un arancione pallido, c’era la Lu. L’unica, dei dieci, ad aver assaggiato la casa di Marghe a Laveno, sul lago Maggiore.
– Lei la chiama casa… – Sorrideva con lo sguardo fisso oltre il finestrino – Beh, forse è un po’ riduttivo.
Marghe, caschetto e occhi blu, era una così, semplice e immune dalle manie di ostentazione che affliggevano gran parte delle coetanee della sua stessa università privata. A Laveno erano andati tutti per festeggiare la fine del master, un’esperienza piombata quasi per caso, nella loro carriera accademica. Nel passaggio da un ordinamento all’altro, dopo l’ennesima riforma del mondo dell’istruzione, erano stati quasi costretti a un periodo di “scuola” vecchia maniera. Sempre gli stessi per diciotto mesi, quasi una riproposizione matura del liceo.
– Cavolo c’ha dentro, maniglie d’oro?-, s’incuriosì il corpulento Vile.
– Ma no, ma no – rispose la Lu – vedrete.
Abbandonato il traffico milanese, si erano ben presto ritrovati sul lungolago, uno spettacolo di azzurro con pennellate di bianco che invitava a cancellarli davvero tutti, i pensieri. La Micra imboccò uno stretto corridoio d’asfalto tra ville private, nascoste alla vista da alti muraglioni e da cancelli senza sbarre. L’auto si arrestò davanti al 116. In quel punto si erano dati appuntamento con gli altri. Dan il genovese, il noioso e “classico” Scanna, l’arguto Fra e lo spilungone Euge. Aldo, quello che amava ammonire gli altri a non diventare esecutori ma a pensare, progettare e se serve ribellarsi, e poi la coppia del master Jacques e Veronica. Per pranzo si erano procurati dei panini, in attesa dei bagordi serali, pretesti fatti di carne (per lo più braciole di maiale precedentemente messe sottovuoto) e verdure da passare alla brace, pomodori freschi con mozzarella e varie schifezze di accompagnamento. Pretesti. Perché ovviamente, salvo i due o tre sfigati di astemi, puntavano più o meno tutti alle libagioni serali e al dopo cena superalcolico. Senza esagerare, per carità, ma con l’intenzione di evitare con ogni mezzo l’antico vizio della sobrietà. Il cancello si aprì, accompagnato da un ronzio elettrico. Dietro, armata del solito sorriso, comparve lei.
– Benvenuti!
***
La Lu aveva ragione. La casa di Laveno non era una casa, e non era neppure una villa. Era un’ampia proprietà composta dall’elegante palazzina principale, un paio di altri edifici più anonimi a due piani, e almeno cinque o sei cottage di legno, disseminati qua e là in quello che definire giardino era impensabile, date le dimensioni da villaggio turistico. Tra un modulo e l’altro, vialetti lastricati di pietre grigiastre e affiancati da essenze di vario tipo, per lo più alberi di quattro metri d’altezza al massimo e cespugli fioriti ora di giallo, ora di lilla, con qualche chiazza rossa. Il sole bagnava questo scenario da favola, che al centro aveva la villa, affacciata sul Maggiore ma in posizione leggermente arretrata. In mezzo, tra l’acqua del lago e l’ampia terrazza panoramica dell’attico, una piscina di modeste dimensioni – considerato il contesto – e un piccolo porticciolo con tanto di natante attraccato. Ecco, in poche e scarne parole, quanto entrò con la violenza disarmante della vera bellezza negli occhi dei nove ospiti.
– Porcaccia… – si fece scappare Dan sollevando gli occhiali scuri.
Il Vile liberò il suo apprezzamento con un fischio, la Lu si limitò a sorridere divertita alle reazioni degli altri. Posteggiarono le auto in un piccolo piazzale sul quale potevano prendere posto si e no sei vetture. Non c’erano garage, o per lo meno non erano in vista, ma sotto a una sorta di pergola di legno, coperta malamente da un telo, faceva capolino l’inconfondibile profilo di una Porsche gialla, forse d’epoca.
– Vi piace ragazzi? – si limitò a dire Margherita – Portiamo dentro la roba.
Scaricarono le auto e trasferirono cibo, alcolici e bibite nell’ampio soggiorno dell’appartamento. Si divisero le poche incombenze di preparazione della sera e quindi si misero tutti quanti in costume per sperimentare la piscina. Un guasto imprevisto all’impianto di riscaldamento la rendeva in teoria inagibile, ma nel giro di un quarto d’ora, il tempo di allestire in ordine approssimativo l’occorrente per la festa, in cinque o sei si erano ritrovati dentro quel rettangolo d’acqua gelida.
– Minchia ragazzi – esclamò Euge mentre aggrappato al bordo della piscina tentava di asciugare le lenti degli occhiali
– Io rimango un mese qui – sparò Dan al centro del rettangolo – Marghe, mi adotti?
Lei si limitò ad attraversare il prato oltre la piscina sorridendo, senza rispondere, fintamente distratta dalle mille incombenze che il ruolo di padrona di casa le imponeva. Gario aveva raggiunto gli altri perfettamente costumato, mentre Fra confabulava con Aldo, a dire la verità mezzo indispettito.
– No guarda, io col prof ci vado perché mi offre un lavoro – disse il primo all’altro, che scuoteva la testa – Voglio iniziare a fare qualcosa, c’è sempre tempo per cambiare.
– Ma è perché sei una testa di legno come gli altri – ribatteva l’altro, infervorato – ma non lo capisci, che vi vogliono tutti pedine? E voi lì, come soldatini, a prendere posto sullo scacchiere disegnato da altri. Diamine, ma datevi una mossa, guardate in mezzo alle righe, oltre agli schemi. Lavorate a progetti vostri!
Gario, solitamente pronto allo scherzo, si fece serio e desistendo dal tuffo si avvicinò ai due confabulanti.
– Dai, però ve lo ripeto, piantiamola! Siamo qui per divertirci, e per quanto mi riguarda di sentire discorsi del menga su cosa e come sfondare nel mondo del lavoro non ne voglio sentir parlare.
– See, perché te un lavoro ce l’hai, alla tv – irruppe il Vile, anch’egli serio.
– Guarda che non me l’ha mica regalato nessuno… – s’incazzò il Gario.
– Chi l’ha mai insinuato. Anche se qualcuno ti ha visto fare il piedino alla Giannina Termidori, all’esame di Teorie e tecniche…
Finì con una risata generale, e Gario che inseguiva il Vile per il giardino, senza peraltro riuscire a prenderlo. Il pomeriggio proseguì così, tra spruzzi d’acqua e battute. Finché non arrivò l’ora dell’aperitivo.
***
Jacques e il Vile si misero al bancone del cottage più vicino alla piscina, una sorta di trincea serale per le feste agostane dei fratelli maggiori della proprietaria. Davanti ai tavolini di bambù, Euge raccontava qualcosa a Lucrezia, che sembrava vagamente interessata e sorrideva, Veronica fissava il suo barman mentre preparava qualche cocktail e Marghe sorseggiava il primo mojito del Vile seduta tra Dan e Scanna.
– Allora qual è il programma? – chiese il secondo, che non la finiva di lisciarsi le ginocchia con i palmi delle mani.
– Programma di che? – gli chiese Marghe.
– Cioè, ora ci facciamo l’aperitivo, poi mangiamo?
– Ma non so, ora beviamo qualcosa, poi mettiamo su gli spaghetti e dopo si vede. Sei agitato?
– No, chiedevo solo che si fa, tutto qui.
Scanna sembrava il più spaesato del gruppo, e in effetti lo era. Lo si vedeva dall’abbigliamento un po’ troppo ingessato, e da quelle benedette mani che correvano sulle cosce impazienti.
– Scanna, magari ti metti a ballare tu sul tavolo, ok? – sparò Dan mentre aspirava rumorosamente le ultime gocce di una coca cola.
Margherita si mise a ridere a crepapelle, mentre Scanna mostrò subito di non aver apprezzato troppo la freddura. Rispose in maniera indelicata, fingendo di scherzare ma al contrario rivelando un bel po’ di puerile risentimento.
– Magari lo fai tu, bello, ok? Nudo, con un gonnellino di paglia. Sai come si anima la serata?
Dan si alzò e iniziò a mimare un balletto, col risultato di far sciogliere anche l’altro in un timido sorriso. Sulla villa di Laveno i riflettori del giorno stavano iniziando a calare d’intensità, sparando sul lago piacevoli riflessi di luce. Lucrezia e Veronica sembrano non volersi più staccare da quell’immagine, appollaiate sul pennello del porticciolo. Senza accorgersene, tutti in quel momento stavano guardando la distesa d’acqua che da blu iniziava a diventare scura, profonda, all’apparenza densa. Sarà stata la musica da disco soft, piacevole e sorniona, o la rilassatezza dettata dagli studi ormai alle spalle, sta di fatto che a dominare gli umori sembrava essere prevalentemente la serenità. A parte Scanna, che continuava a essere vistosamente irrequieto, quasi speranzoso che la festa e tutto il resto finissero, la compagnia aveva sgombrato la testa dai pensieri e dalle ansie di futuro. Il sipario calò presto, e rese il lago un’entità indistinguibile, o quasi, dalla vegetazione che fioriva sulle sue sponde.
***
La campana esterna della villa prese a suonare. Era come se segnasse un prima e un dopo, quel suono deciso e dalle calanti ripetizioni. La cena era pronta. Arrivarono attorno al grande tavolo alla spicciolata. Margherita iniziò a distribuire gli spaghetti sfilando i piatti fondi dalla pila che si era precedentemente preparata accanto ai fornelli. Li vide riempirsi e trovare un destinatario fino all’ultimo, che rimase a mezz’aria, sospeso tra indice e pollice della sua mano.
– A chi manca? – disse leccandosi il dito sporco di sugo dell’altra mano.
Nessuno rispose, se non la voce in falsetto del Vile.
– Manca a me. Amanda!
Amanda Lisandri non faceva parte della loro compagnia. Di lei, che seguiva un corso in un’aula vicina alla loro, si era però perdutamente innamorato Fra, il quale non aveva mai osato fare un passo per tentare di conoscerla.
– Bastardo – sorrise Francesco – No dai, ragazzi. Diventa freddo. Ci siamo tutti? Chi manca?
Mancava Dan, all’appello. Eppure poco prima era con loro. Ma quanto prima?
– Sarà in giardino – disse la Lu – ci penso io.
La ragazza si mise a chiamare dalla terrazza, ma non ottenne risposta. Tornò dentro e allargò le braccia strabuzzando gli occhi.
– Niente.
– Cheppalle, però! – si spazientì la padrona di casa – capisco che non tutti abbiano voglia di sbattersi, però abbiamo cucinato. Almeno presentarsi a tavola…!
– Sarà nel cottage che prende qualcosa – disse Gario – qual è il suo?
– Lui è con Aldo ed Euge nel “B”. L’avete visto ragazzi?
Aldo alzò il mento dal piatto sul quale si era gettato a capofitto.
– Lì l’avrò visto due ore fa, quando abbiamo steso le lenzuola – disse. Non so Euge.
– Non ci sono tornato neppure io, nel cottage. Lui un paio di volte però ha fatto avanti e indietro, dicendo che aveva da recuperare delle cose.
– E cosa? – chiese Gario.
– Cavatappi, ne aveva portati un paio.
– Cavatappi? – disse, inascoltata Margherita – ma se ne avrò cinquanta!
– A me ne ha dato uno solo – irruppe Jacques. – Non so al Vile…
– Ma che diavolo ne so, ragazzi – rispose il Vile – perché la facciamo tanto lunga, sarà in bagno o nel cottage a dormire. Ha bevuto?
– È astemio.
– Wow… – riprese l’altro – e io che pensavo che di sfigato qui ci fosse solo Scanna.
– Oh bello! – saltò su l’interessato – io di caipirinha me ne sono fatte due.
– Vabbè dai, chi lo va a cercare? – insistette Marghe – Veronica, vai tu?
– Sì. Jacques, però accompagnami.
– Che tenerucci – rispolverò il falsetto il Vile.
– Cretino.
Passarono alcuni minuti, poi i due tornarono.
– Non c’è nessuno nel B.
– E allora?
– E allora non lo so – si fece seria Margherita – Andiamolo a cercare tutti quanti!
***
Decisero di distribuirsi nel giardino, e di esplorare tutti i cottage della proprietà. Ne avevano occupati quattro, ma in tutto le casette di legno erano sei. In quelle occupate non trovarono nulla, così iniziarono a esplorare le ultime due. Fu la stessa Margherita, a cacciare un urlo capace di raggelare l’epidermide degli altri. Nessuno parlò, solo iniziarono a correre verso di lei, verso il cottage “F”, il più defilato e all’apparenza maltenuto della proprietà. Dentro, una lampadina a incandescenza illuminava un contesto di assi e mobili spartani. Trovarono Marghe muta e singhiozzante, la mano alla bocca per strozzare altre urla. A terra, sul pavimento di legno della casetta, c’era una piccola pozza rossa e densa. Da un cerchio quasi perfetto, si dipanavano alcune strisciate più scure che correvano fino alla porta, proprio sotto ai piedi della padrona di casa e di Eugenio, il primo a entrare dopo di lei. La abbracciò da dietro, cercando di calmarla. Non li notarono subito, gli schizzi sulle pareti. Ma c’erano, e tempestavano come un infernale cielo stellato la parete opposta all’ingresso della costruzione. C’era anche un odore strano, come di carne lacerata. Se quel sangue era uscito da un essere umano, il corpo dell’interessato non era più lì. Qualcuno l’aveva trascinato fuori dal contesto, e portato chissà dove. Procedendo a ritroso, Jacques notò che qualche goccia rossastra compariva anche sui fiori di un ibisco del vialetto.
– Ora calmati, ok? – disse Eugenio.
– Chiamiamo la polizia – sparò senza esitazioni Scanna, scosso.
– Sei pazzo – rispose Euge – avrà perso sangue dal naso, o avrà vomitato.
– E che diavolo di naso ha, quello di un elefante? –, allargò le braccia Gario.
– No, la polizia no. Un attimo… – si riprese Marghe, divincolandosi dalla presa dell’amico – sentite, capiamo bene questa storia, perché non è che posso far piombare qui sirene e tutto il resto. I miei mi ammazzano se…
– Ok, ok, ragioniamo – intervenne la Lu – avrà avuto un attacco di epistassi.
– Epi che?
– Sangue dal naso, come dice Eugenio. Non è una roba impossibile, anche mio fratello ne soffre. Magari è svenuto ed è stramazzato al suolo, poi si è ripreso ed è andato a bagnarsi da qualche parte.
– Ma così tanto sangue? – insistette Gario.
– A mio zio è successo, e gli hanno detto che è un’avvisaglia dell’ictus – sparò, un po’ fuori luogo, Aldo – come si chiama? Attacco ischemico transitorio…
– Ma non dire…
– Vabbè, mica è morto, eh?
– Smettiamola di sparare fesserie e continuiamo a cercare – disse Fra alzando la voce.
Le tracce portavano alla seconda delle tre ville. Era una palazzina più modesta, nata probabilmente per essere funzionale, più che appariscente. L’accesso era al piano terra, e dava su una grande stanza occupata da un enorme biliardo e da vari trofei di caccia e tennis.
– E’ il regno di mio fratello – disse Marghe – andiamo.
Oltrepassarono il salone sotto la luce di un neon a un passo dalla pensione eterna, a giudicare dall’intermittenza innaturale con la quale rischiarava il panno verde e le palline ordinatamente disposte nel triangolo nero. Margherita arrivò a una porta dotata di maniglione antipanico, e fu sul punto di aprirla quando esitò. Alle sue spalle, si fece avanti Euge.
– Lascia.
Da dietro, Scanna iniziò a urlare.
– Dan! Bastardo dove ti sei nascosto?
Euge spinse delicatamente la maniglia della porta. La padrona di casa pigiò un interruttore e il vano scale s’illuminò. Ancora sangue. Una pozza sul quadrato di pavimento tra la porta della sala biliardo e il primo scalino. E poi due “binari” color vermiglio lungo la scala che conduceva al piano nobile.
– Porca eva… – si mise una mano alla fronte Marghe.
– Dove porta questa scala? – chiese, risoluto, Eugenio.
– Al primo piano. E’ la casa che usiamo abitualmente, quando veniamo per pochi giorni.
– Gario, Fra… – fece segno voltandosi Eugenio.
I tre si avventurarono su per la scala, facendo attenzione a non calpestare le tracce. Sul pianerottolo le stesse macchie. Anzi, una in più. Una scritta, tracciata con le dita intinte nel sangue lungo il muro accanto alla porta di accesso al primo piano:
VI STATE ANNOIANDO?