by Elisabetta Miari

MARIA di Elisabetta Miari

Maria sedeva raggomitolata sui gradini delle scale che portavano in giardino. Immobile e rigida come un manichino, sembrava voler assorbire i raggi di quel sole pallido di tardo pomeriggio per ricaricarsi e terminare la discesa. «Buongiorno» le disse il padre con un sorriso lieve. Quel saluto appena appoggiato si disperse nell’aria come una benedizione. I saluti, come le persone, se non sono ricambiati se ne vanno altrove, in cerca di qualcuno che li accolga. Maria non ce la faceva a salutare. Nessuno. Forse le sembrava un’usanza barbara quella convenzione sociale, o una perdita di tempo. Nel suo mondo non erano contemplate queste formalità.

Silenzio. La cosa più vera per Maria era il silenzio: una via lattea di non rumore, costellata da qualche parola, perlopiù domande e numeri. Il fascino del mondo per lei si racchiudeva in un’unica grande certezza: tutto si può spiegare attraverso la scienza e i numeri. Non esiste mistero che non sia risolvibile. Maria era piuttosto alta per la sua età, con una struttura longilinea che faceva intuire che sarebbe diventata una bella ragazza. Il viso ovale e i lineamenti, forse ancora un po’ infantili per i suoi nove anni, erano ben tratteggiati, lievi ma incisivi. Gli occhi scuri e profondi, come un pozzo, erano spesso volti altrove, in cerca di un approdo. Era raro incrociare il suo sguardo, anche durante una conversazione. Quando succedeva, era solo per qualche breve istante di passaggio tra un punto e l’altro. I capelli biondi e lucenti come fili d’oro sottile, erano spesso legati per impedire che le cadessero sugli occhi. Assieme alla carnagione pallida, quasi opalescente, le conferivano un aspetto da elfo, da creatura fantastica.

Il rifugio di Maria era la sua mente. Lei viveva lì, in un cantuccio dal quale elaborava ogni dato come un computer, filtrando e decodificando la realtà circostante, in un processo di inevitabile isolamento dal mondo. Occorreva chiamarla più volte perché uscisse da sé. «Svegliati Maria!» le diceva spesso il padre in modo un po’ brusco. «Non puoi stare sempre nel mondo dei sogni, cosa penserà la gente? Che sei strana, ecco quello che penserà.» Maria riabbassava lo sguardo senza dimostrare interesse, mentre la madre, che sempre più spesso le veniva in aiuto, ammoniva il padre: «Lasciala stare Carlo, cosa ti fa di male? Lo sai che lei pensa alle sue cose di continuo, è una bambina intelligente e noi non possiamo sapere cosa le passi per la testa.» A quel punto Carlo scuoteva il capo poco convinto e usciva dalla stanza, lasciando la moglie perplessa a guardare la figlia, che non si era resa conto di niente, o così sembrava. Uno sguardo indagatore il suo, intriso di tenerezza e amore.

Solo sei mesi prima i genitori di Maria avevano ricevuto una notizia non facile da digerire. Carlo e Lara Montanari, due persone normali, con una vita senza troppe distrazioni o colpi di scena, avevano dovuto prendere coscienza della situazione in modo brusco e improvviso. Da qualche mese Maria era più chiusa del solito e tendeva a non cercare nemmeno la compagnia di quei pochi amici che aveva, a parte la sua amica del cuore e compagna di classe dalla scuola d’infanzia, Lucilla Ferrari, che per lei rappresentava, assieme alla madre e al padre, il suo minuscolo universo affettivo. Lara l’aveva osservata a lungo e, con l’intuito che solo una madre possiede, aveva determinato che c’era qualcosa che non andava e che doveva portarla da uno specialista.

Il medico, una neuropsichiatra infantile, dopo aver parlato con i genitori e osservato Maria, che si muoveva nella stanza come se fosse sola in un’altra dimensione, suggerì di sottoporre la bambina a una valutazione psicologica presso una struttura specializzata. Maria venne quindi portata per tre pomeriggi di fila all’ospedale neurologico Carlo Besta, o Bestia come lo chiamava lei, dove fu filmata, questionata e sottoposta a numerosi test, mentre i suoi genitori, un po’ smarriti in questo nuovo mondo sconosciuto, rispondevano alle centinaia di domande che una giovane neuropsichiatra di supporto poneva loro. Alla fine arrivò la diagnosi: sindrome di Asperger. Fu come uno schiaffo, inaspettato e offensivo. Arrivò secco e violento, in tutta sua gravità, e li lasciò muti per qualche istante, con un groppo alla gola.

La prima a parlare fu Lara, che riuscì solo a dare voce alla prima paura che le passò per la testa: «Potrà avere una vita normale?» Questo, in fondo, importa alle madri: una vita normale per i propri figli. La psicologa e la neuropsichiatra, che avevano dato insieme la notizia ai genitori, sedevano in maniera informale di fronte a loro, in una stanzetta senza scrivania. Le due dottoresse avevano un’espressione dispiaciuta ed empatica. «Signora, Maria è una bambina normale da un punto di vista fisico. La sindrome di Asperger rientra nello spettro autistico, è vero, ma ad alta funzionalità.»

Carlo e Lara annuirono mesti. La dottoressa Prati continuò: «I test del QI hanno dimostrato che Maria possiede un’intelligenza al di sopra della media, intorno a un valore di 130. Abbiamo notato che sembra essere più portata per le materie scientifiche e che si esprime in maniera forbita. Nel disegno poi, ha dimostrato un talento naturale.» Lara si lasciò sfuggire un sospiro. Sentiva che in quel preciso istante le forze la stavano abbandonando e si chiedeva come avrebbe fatto ad affrontare la situazione.

Seduto, con le spalle ricurve e l’aria di chi ha già dato, Carlo ascoltava la dottoressa e la moglie che parlavano di Maria. Esausto, pensava che forse sua figlia non era difettosa, ma perfetta nel suo modo di semplificare il mondo. In quel pensiero trovò un guizzo di speranza.

«Dovete solo fare i genitori» concluse la dottoressa. «Maria, come tutti i bambini, ha bisogno di amore, di essere guidata, contenuta e anche sgridata, nei dovuti modi. Un percorso di psicoterapia, specie se di gruppo, gioverà di sicuro a Maria e anche a voi.»

Carlo e Lara uscirono dall’ospedale che era già buio. L’aria secca e cattiva di quella sera di metà febbraio aveva un che di persecutorio. Si strinsero nei loro cappotti rabbrividendo. Lei lo prese sottobraccio nel breve tragitto sino alla macchina. Non una parola fu pronunciata durante il viaggio. Solo pensieri che aleggiavano nell’abitacolo, senza incontrarsi. Paura e sconforto. Senso d’impotenza. Due anime che piangevano in silenzio. Una triste danza. Il dramma di una vita che sa colpire dove fa davvero male, negli affetti più cari.

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