"Naufragio" di Alessio Piras


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A sognatori e naufraghi,
uomini liberi, abitanti di
un mondo in cui si perdono
alla ricerca di un senso
nascosto tra le soste e i pericoli
di un viaggio infinito

“Da una settimana mi ripeto nella mente L’Infinito di Leopardi e penso a cosa possa essere l’infinito: esso attraversa in un sol balzo molta parte della letteratura e della scienza. Da un lato la letteratura prova a figurarlo, a riprodurlo attraverso i suoi strumenti più svariati e le sue metafore più o meno adeguate. Dall’altro la matematica, scienza, tra le diverse scienze, cui sono più legato, cerca di dare una cifra, anch’essa ricorrendo ai suoi molteplici strumenti: un numero per questa (non)-quantità. Per ora, le uniche cose di cui son certo, le uniche che mi sembrano che si avvicinino di più alla figurazione dell’infinito —che sfuma nell’indefinito— sono la poesia di Leopardi e un simbolo: ∞. Decisamente troppo poco.”

Sorseggiando una granita alla mandorla seduto su una panchina in spianata Castelletto, Riccardo pensava e ripensava a quei quindici versi che ormai aveva imparato a memoria. E intanto guardava, la città si stendeva sotto il suo sguardo, con la sua serie infinita di vicoli e piazzette: quanti erano i carruggi di Genova? Nessuno si era mai preso la briga di contarli e visto che a lui sembravano più di tanti, decise che erano infiniti. Come infiniti erano gli uomini e le donne che li avevano transitati e infinite le lingue che questi visitatori e migranti avevano parlato. Ai piedi dei carruggi, il porto, con le navi ordinatamente attraccate a moli e banchine; il mare immenso, infinito, forse eterno: la sua contemplazione potrebbe non avere fine.

“Prima dell’eternità”, pensava, “interverrebbe la morte a fermare il mio tempo e ad iniziarne un altro, forse quest’ultimo, sì, sarebbe eterno”. Era però cosciente di non poterselo ricordare e di non poterlo vivere, fatto, questo, del quale non riusciva a dispiacersi. Vivere l’eterno avrebbe significato conoscere l’infinito, oppure, cosa di cui era terrorizzato, vedere la fine del tempo, che è molto peggio che la fine del mondo. Era un po’ come inseguire l’infinito per sempre in quanto tempo inarrivabile per definizione.

Ma l’eterno è solo una dimensione dell’infinito. Vi è poi quella spaziale, forse ancor più irraggiungibile, per non parlare dell’infinitamente piccolo che resta nella totale invisibilità come l’infinitamente breve resta ancorato all’invivibile. E inutili sono il cannocchiale, che avvicina ciò che è sconfinatamente lontano, e il microscopio, che ingigantisce ciò che è incredibilmente piccolo: ci sarà sempre qualcosa un metro più in là che l’occhio artificiale non cattura ed esisterà sempre qualcosa di un millesimo di millimetro più piccolo che non riusciremo ad ingrandire.

“Perciò”, pensava, “la morte, la fine del mio tempo, mi libererebbe da questa ricerca costante dell’irraggiungibile, dell’immenso, dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, dell’eterno”.

Preferiva provare a immaginarlo con l’aiuto della letteratura, della matematica, della natura. Quest’ultima probabilmente offriva le figure migliori, metafore che in un certo senso dicono l’infinito. Il mare, la montagna, e, poi, il cielo, soprattutto quello notturno pieno di stelle, pianeti e sulla Terra centinaia, migliaia di telescopi che provano ad afferrare il tempo e lo spazio che stanno al di là di ogni possibile tangibilità da parte degli uomini, in una dimensione così distante che si confondono; e un corpo celeste lontano 9.460.800.000.000 km dalla Terra dicono sia distante un anno luce. Quindi, per logica, se avesse avuto un binocolo sufficientemente potente avrebbe potuto vedere quel corpo celeste com’era un anno fa.

“La suggestione”, pensò, “si fa molto più evidente se pensiamo ad un pianeta lontano duemila anni luce, guardandolo lo vedrei com’era duemila anni fa, in una sorta di storia in diretta. E se in quel pianeta vivesse un mio omologo, lui non vedrebbe me, ma probabilmente un uomo dell’Antica Roma, durante l’Impero di Augusto”.

Cercava di dare una dimensione a questa lontananza che in sé aveva le due dimensioni dello spazio e del tempo, lo spazio-tempo, un tutto teoricamente attraversabile, ma praticamente infinitamente grande, quindi non percorribile, se non in una sua parte infinitamente piccola.

Non riusciva, nonostante gli sforzi, a figurarsi un viaggio che lo potesse portare verso quel pianeta distante duemila anni luce che chiamò per comodità Alfa1. Cercò, per facilitarsi il compito, di immaginarlo come un viaggio normale in aereo. Si ritrovò la sera prima della partenza nella sua stanza intento a preparare i bagagli. Una volta assicuratosi del peso della valigia da imbarcare e delle dimensioni del bagaglio a mano, e dopo aver controllato di non essersi dimenticato una macchina fotografica, un dizionario italiano-alfaico/alfaico-italiano e una buona guida turistica si mise a letto, puntò la sveglia alle sei e, come sempre alla vigilia di un lungo viaggio, non riuscì a prendere sonno.

Il mattino dopo, frettolosamente e con un pizzico d’ansia, si diresse all’aeroporto con un taxi. Per fortuna aveva trovato un volo diretto, perciò una volta a bordo si sarebbe semplicemente eccitato dall’idea di essere a poche ore dalla meta. La sua immaginazione lo portò abbastanza facilmente fino all’imbarco; dopo aver imboccato il finger, però, si imbatté su una lunga passerella meccanica di cui non riusciva a vedere la fine. La passerella curvava, si piegava, saliva e scendeva. La compagnia aerea, per intrattenere i viaggiatori diretti all’aeromobile, faceva scorrere sulle pareti del finger immagini paesaggistiche di Alfa1, in questo modo aveva l’illusione di avere già iniziato il viaggio.

Al mare seguirono le colline e alle colline una ripida salita in montagna per la quale l’andatura della
passerella rallentò e la temperatura diminuì per dare un effetto più realistico. Arrivato sulla vetta pensava di scendere ripidamente verso valle. Al contrario continuò a salire, fino a quando, sporgendosi sulle pareti del finger, che davano l’impressione di essere sempre meno tangibili, vide l’immagine della Terra come l’aveva vista nelle foto satellitari pubblicate su National Geographic.

Si accorse in breve tempo di essere tra le stelle, provò a toccare le pareti del finger. Si trattava di un vetro e quello che vedeva fuori era un cielo vero, ma essendoci lui dentro, essendo fisicamente nel cielo, non poteva essere. Ecco che la passerella restava infinita, mentre il suo pensiero vacillava di fronte all’incertezza. Ma incertezza di cosa? In fondo lui era entrato in un finger e da lì non era uscito, perciò per deduzione logica si trovava ancora in aeroporto. Ma sentiva che la logica, la sua logica, non funzionava. Doveva trovare un’altra logica. Sì, ma quale? E come poter tornare indietro con una nuova logica? Si voltò, come temeva alle sue spalle si stendeva una passerella di cui non vedeva la fine. Tentò di trovare un’immagine terrestre che poteva figurare quella situazione, forse con un metodo comparativo poteva arrivare a trovare questa nuova logica, espressa da un pensiero che ragionava su una diversa natura e con un linguaggio non umano, o almeno non umanamente comprensibile da lui. Gli venne in mente il mare aperto, la sensazione di spaurimento del naufrago che intorno a sé ha solo mare, ancora il mare si confermava unico metro di paragone per tentare d’immaginare seppur minimamente l’infinito. Tentò di orientarsi per stabilire la sua posizione. Era circondato da stelle, quindi provò a riconoscerne qualcuna utilizzando ciò che si ricordava delle lezioni di astronomia di quinta liceo. Cercò l’Orsa Maggiore, con la stella Polare che indicava il nord. Ebbe l’illusione di trovarla, ma si rese conto presto che le stelle erano sistemate in modo diverso dal solito. O meglio, capì che lui era in un diverso punto d’osservazione: cambiando il punto di vista, cambia tutto. Disperato si piegò sulle ginocchia, sperduto dentro la sua immaginazione, capì ben presto di essere naufragato, dolcemente.

Spostando lo sguardo dalla città al mare, Riccardo finì la sua granita. Accarezzò il gatto seduto sulla panchina accanto a lui. Si alzò, le spalle all’immensa città che si specchia nell’immenso mare, un libro di Calvino sotto il braccio. Lentamente, pensando a come la parola “infinito” veniva usata dagli uomini per spiegare l’inspiegabile e quantificare l’inquantificabile, andò alla fermata dell’autobus e decise di tornare da dove era venuto: un luogo irraggiungibile, in un Paese indicibile, in un mondo perso in uno spazio senza fine.


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