"Pausa di riflessione" di Armando d'Amaro


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“Prendiamoci una pausa, prendiamoci una pausa, prendiamoci una pausa…” il ritmico ansimare del vecchio motore sembra ripetermi, come un’eco ondivaga, l’ultima frase che mi aveva sussurrato Rita prima di chiudere la porta di casa alle sue spalle. L’albeggiare di questa gelata giornata invernale rende le luci sul lungomare più fioche mentre il barchino taglia esitante l’acqua ancora nera; il sapore del caffè bollente, bevuto prima di uscire, sta svanendo, soffocato dal fumo della terza sigaretta che brucio da quando il suono della sveglia mi salvava dall’ennesimo incubo. Gettandola osservo la sagoma illuminata di Castel Gavone e, poco sotto, distinguo perfettamente, senza vederlo, ogni particolare di Final Borgo dove, sei anni prima, lei mi aveva giurato eterno amore. E ora? “Dobbiamo capire quali sentimenti proviamo ancora l’uno per l’altro…” aveva tentato di spiegarmi “…valutare se abbiamo ancora qualcosa da condividere” mentre il mio sguardo inebetito vagava sul pavimento “ma: mi ascolti?” assentivo, cercando senza successo di contare le frange del tappeto “solo se ci mettiamo alla prova rimanendo un po’ da soli, potremo decidere se rimanere insieme”.

Senza accantonare il pensiero di lei supero punta Crena di Varigotti e spengo il motore: nel silenzio assoluto ogni mio piccolo movimento, unito al lieve sciabordio dell’acqua, tengono compagnia alle parole di Rita…innescato un robusto amo alla lenza, vi fisso l’esca viva: voglio cogliere i pesci in cerca di cibo per catturare, finalmente, una preda eccezionale e, magari, finire sui giornali. Un sorriso sbieco mi deforma il viso pensando che anche lei, a quel punto, potrebbe tornare a guardarmi con occhi innamorati! Quello che mi manca, dopo anni di pesca, è una cattura come Dio comanda: le prede di pochi chili non sembravano giustificare, per Rita, le nostre lunghe permanenze a Finale, graditi ospiti della mamma “…stacchiamoci un po’ da lei, cerchiamo di vivere per noi due soltanto” mi aveva ribadito ancora l’estate scorsa – davanti ad un’orata – sulla terrazza del ‘nostro’ ristorante al Castelletto, tornando ad insistere durante il solito giro per negozi tra le viuzze del Borgo – a scegliere l’ennesima ceramica per la raccolta di mamma – e di nuovo a Noli, in San Pietro dei Pescatori, disturbandomi mentre osservavo i modelli di barche…Ma poteva essere solo quello il motivo dei suoi malumori? Lo sguardo fisso sul luccichio dei primi raggi solari sulla lenza tesa, mi domando perché mi abbia detto di non volermi vedere soffrire ma, di fronte al mio pianto, se ne sia andata lo stesso…o forse la cosa ha la sua logica: se fosse uscita di casa – non voglio credere dalla mia vita – proprio per non vedermi in quelle condizioni? Improvvisamente il filo ‘strappa’ un paio di volte, poi scivola come per magia sulla superficie dell’acqua e il mulinello, come impazzito, cede metri e metri di filo: alzo di scatto la canna da fondo sperando che l’amo penetri per bene il palato del pesce. Avevo fatto così anche con Rita? Beh, più o meno: portare qui una ragazza certo facilita, alleate le bellezze dei luoghi. Il problema era di mantenere la preda…con i pesci sapevo come fare, ma con una donna? Mentre penso cosa possa esserle passato per la testa – mai un litigio, ma nemmeno una discussione animata – mi rendo conto che potrebbe aver abboccato un pesce enorme: il filo di nylon non subisce alcuno strappo ma una tensione continua, una reazione lenta e possente come se qualcuno, lì sotto, avesse deciso di trascinare la barca chissà dove. Inizio la lotta: quello sotto sarà anche un gran forzuto, ma lo batterò in astuzia. Perché non si può dire che io sia uno stupido, ed è per questo che non riesco a darmi pace: se due persone si amano quali dubbi possono sorgere? Mentre sfrutto l’elasticità della canna – benedetto carbonio – e, nei momenti di stanchezza della preda, recupero filo col mulinello, rabbia e delusione mi fanno venire le lacrime agli occhi… “questa parentesi ci darà l’opportunità di capire se valga la pena di lottare ancora per il nostro rapporto…”.

Da quanto tempo lotto con il mostro che si cela sott’acqua? Valuto, dal sole che ormai si affaccia dai rilievi, di come fosse passata circa un’ora dai primi strappi, ma non oso staccare le mani dalla canna per guardare l’orologio né gli occhi dalla lenza in tensione. “Sono in uno stato di tensione…” ma a quale razza di tensione poteva essere sottoposta Rita? Problemi di lavoro, da quando le avevo suggerito di lasciarlo, non ne aveva – i soldi che mi passa mamma ci sono stati sempre bastati – e nemmeno di studio, visto che alla fine aveva capito che il tempo che avrebbe perso per frequentare l’università non avrebbe favorito la nostra vita di coppia. E allora? Scuoto appena la testa proprio quando il barchino rallenta la corsa al rilassarsi della lenza: inizio a recuperarla, osservandola avvolgersi sulla bobina e pregando il Signore di non farmi perdere quella preda, o meglio, né l’una né l’altra…Ancora, sudando nonostante la temperatura pungente, giro e giro la piccola manovella ed ecco che risento la tensione: ad una decina di metri mi sembra intravedere una sagoma enorme dal rostro allungato, una sorta di Golia domato da un impavido Davide. “Davide…cosa centra Davide? Lo sai, è solo un amico!” mi aveva risposto ieri l’altro, quando le avevo telefonato per dissipare il dubbio insinuatomi da mamma “…una donna in crisi può diventare preda di altri uomini: magari è per questo che ti ha chiesto una pausa di riflessione…” ma in crisi perché? Cosa diavolo le mancava? Forse il diavolo che ho preso all’amo, strappandolo dal fondo: se riesco a farlo mio, allora, forse… In quel momento la bestia arriva ad un passo dalla barca, fissandomi – con gli occhi a pelo d’acqua – quasi per capire chi provocasse quello che stava subendo: lo stesso sguardo di rimprovero che mi aveva lanciato tante volte Rita, dicendomi “…ti rendi conto che viviamo in simbiosi? Sono priva di autonomia…”. Poi, come lei, mi gira le spalle e si avvia, energicamente, verso la riva rocciosa, ed io dietro, aggrappato alla canna e con il mulinello quasi a fondo corsa, la barca tanto inclinata e sbandata da imbarcare acqua…le braccia mi fanno male e non posso disimpegnare, nemmeno per un attimo, una mano per asciugarmi gli occhi dal sudore, che vi cola mescolandosi alle lacrime: sono sfinito, ma vorrei che Rita mi vedesse ora…anzi, vorrei che vedesse tutti i Finalesi riuniti qui intorno guardarmi ammirati, altro che “mi offri una vita grigia e senza passione”!
Il cuore che mi arriva in gola e i muscoli tesi allo spasimo mi riportano bruscamente e dolorosamente alla realtà: mentre continua il tira e molla, con l’animale che ora si avvicina, ora riprende a tirarmi dove vuole, il cielo, da quasi azzurro che si era fatto, ritorna nero come quando avevo lasciato la riva, minacciando una violenta perturbazione: infatti, dopo qualche minuto con folate di vento gelido, si scatena un acquazzone. Degno tempo per il mio umore, stessa doccia fredda subita al “preferisco non vederti per un po’”, senza indicare nessuna scadenza per il suo possibile rientro: che avesse ragione mia madre? Che la pausa di riflessione che Rita si stava prendendo fosse soltanto una pietosa manovra, mancandole il coraggio di troncare con chiarezza? E troncare perché? No, mamma si sbagliava: sicuramente Rita voleva, chissà perché, stare lontana per un po’, quindi sarebbe tornata per stare di nuovo bene insieme, felici come ai primi tempi. Eppure… “Mi piacerebbe avere un po’ di respiro…un passaporto per la libertà!”.
Lo stesso che avrebbe voluto quella maledetta bestia che, se non l’avevo vista male, aveva tutta l’aria di essere un’aguglia imperiale: nel caso sarebbe stato il mio primo incontro, pur pescando da anni e anni, con un mostro che si trova solo occasionalmente vicino alla costa…i media mi avrebbero circondato per intervistarmi e fotografarmi con la mia preda! Mentre, come era venuta, la pioggia inizia – trascinata dal vento – a spostarsi verso Savona, mi rendo conto di non riuscire, nonostante gli sforzi, a fare passi in avanti: probabilmente era trascorsa un’altra ora e l’animale, ceduto qualche metro, sempre riprende a tirare con vigore, per nulla sfiancato: dovrò continuare ad insistere! Come con Rita. Se avessi le mani libere mi prenderei a schiaffi per non averle impedito di andarsene: “Tu provi emozioni nel pescare, ed io? Io non posso sperimentare emozioni diverse?” Emozioni diverse…con un altro uomo? Con Davide? Ma no, impossibile: Rita era sempre stata tranquilla, si era adattata al mio stile di vita senza lamentarsi troppo, sicuramente sarà da un’amica, a riflettere sul rapporto con me, come mi ha detto ancora ieri, aggiungendo “ti prego, non telefonarmi più: ti chiamerò io appena avrò preso una decisione”. Ma ora basta, lentamente sfilo la canna dall’appoggio e mi preparo alla battaglia finale: inizio a strattonare come per provocare il pesce che, evidentemente infastidito, cambia direzione, dirigendosi con un gran salto fuori dall’acqua verso di me. Recupero velocemente quanta più lenza possibile e grido: “vieni da papà, vieni!” ottenendo l’effetto contrario: l’animale, che ormai vedo bene – sarà lungo due metri e pesante più di cinquanta chili – torna a girarsi per dirigersi, nuotando con vigore, verso acque più profonde. Resto nuovamente e disperatamente aggrappato alla canna, sul barchino sbandato in balia di una bestia che ora sembra aver cocciutamente deciso di immergersi. Mentre sfinito, con l’acqua che mi arriva alle caviglie e le mani, serrate dolorosamente all’impugnatura, che stanno per cedere, squilla il cellulare. “E’ lei!” urlo. Una nuova forza mi pervade, penso che sia stata di parola – “ti chiamerò io appena avrò preso una decisione” – penso che non esista prova migliore delle mie capacità offrirle quel trofeo, penso di essere stato un’idiota a sospettare di lei, penso che – eccezionalmente – mia mamma si sia sbagliata, penso a come sarà bello – almeno qualche volta – far l’amore con lei… Il cellulare squilla e squilla, come per dar conferma alle mie rinnovate certezze: stacco per un attimo una mano dalla canna e la porto verso la tasca per afferrare l’apparecchio e risponderle. Prima che l’altro braccio, dolorante e indolenzito, ceda, prima di piegarmi lateralmente sulle gambe rigide, prima di ruzzolare sul fondo bagnato del barchino, prima di scivolare – pesantemente vestito – nell’acqua nera e gelata, riesco a portare il display davanti agli occhi e leggervi MAMMA.

Da “Il Secolo XIX, edizione di Savona”: Il mare restituisce il cadavere del pescatore disperso. Il corpo del torinese Marcello G., pescatore dilettante sparito due giorni fa durante un’uscita in barca, è stato ritrovato impigliato in una rete da fondo e recuperato grazie ad una squadra del Centro Carabinieri Subacquei di Genova. Ad attenderlo sulla spiaggia di Finale, insieme alla solita folla di curiosi, l’anziana madre presso la quale spesso soggiornava e che ha dato l’allarme non vedendolo rientrare, e la moglie Rita C., accompagnata dall’avvocato Davide P. Per maggiori particolari sul fatto si dovranno attendere gli esiti dell’autopsia e delle indagini in corso da parte degli inquirenti, al lavoro per ricostruire l’esatta dinamica del decesso dell’uomo, anche se, dal primo sommario esame da parte del medico legale, si propenderebbe per una morte causata da annegamento, con esclusione di azione violenta da parte di terzi.


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