“Quaranta sacchetti, quaranta giorni e Giulia” di Gabriele Tarelli


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Il letto e il dormiveglia sono troppo per questa mattina. Mi alzo.

I cuscini del divano sono intatti, i tavoli sgombri e i lavandini luccicanti. Tutto profuma d’altro. Devo ritrovarmi.

Dal cesto della biancheria sporca prendo una mia maglietta e inspiro con forza l’odore. Metto quella t-shirt sul ripiano accanto al lavello. Apro il cassetto lì sotto e prendo quell’istantanea, nascosta ieri, dove mi tuffo da uno scoglio: le mani immerse non si vedono mentre gli spruzzi intorno ai polsi sembrano braccialetti inseguiti da un corpo teso.

Da sotto un vaso sfilo un sacchetto di carta usato. Le sue pieghe sembrano rughe terresti. Lo apro per bene e, per renderlo più solido, lo lavoro all’imboccatura facendo tre risvolti uno sull’altro. Senza pensarci v’infilo maglietta e foto. Il sacchetto si gonfia un poco mantenendo le increspature che si animano tra le mie mani. Esco da casa e sull’ascensore mi accorgo di tenerlo per un lembo con la mano più forte: facevo lo stesso con mio figlio. Mi commuovo e vorrei stringerlo a me.

In strada il portone sbatte segnando il limite fra ciò che conosco e il resto. Mi fermo e penso al fuori, alle apparenze concrete, alle mie vie.

Chiudo gli occhi e seguo il ritmo del mio respiro: vedo quelle strade riempirsi e svuotarsi d’auto e persone, di facce secche e bagnate, di lacrime dei disperati, mentre le foglie sono così bucherellate da sembrare perfette.

Qualcosa mi sfiora la tempia per finire nel mio piccolo pozzo di carta, allora mi accorgo di essere stato altrove. Alzo lo sguardo e vedo sporgere tra i fiori di un davanzale il viso di una giovane che mi osserva. Serro gli occhi: oggi quella luce è troppo forte per sostenerla.

Attraverso la strada.

A terra c’è una pietra ovale e grigia con una sottile vena bianca che sembra tagliarla; è pulita quasi fosse stata lavata più e più volte. Penso ai sassi e a me bambino, ai miei amici di allora, a ciò che mi ha fatto cambiare e colpito, obbligandomi a scegliere, alle situazioni che sono rimbalzate come fossero sull’acqua e finite chissà dove. Mi piego. La raccolgo. La stringo nel palmo della mano sinistra. Sembra viva tanto è compatta e vellutata. Mi è impossibile lasciare tutto diviso (la pietra, il fiore e come sono io ora senza togliere qualcosa all’uno o all’altro), allora l’adagio nel sacchetto accanto alla rosa rossa caduta dall’alto.

Cammino e mi viene di contare. Mi accorgo che ogni dieci passi c’è una pianta.

Quest’anno le foglie sono verde intenso e le fronde si agitano alla brezza di questa mattina. Dieci passi. Mi fermo. Quest’albero ha i rami come linee spezzate e su alcuni ha solo foglie nuove. Sono cinque per ogni rametto come le dita di una mano. Nel suo tronco è incastonato una specie di tappo arrugginito con inciso un numero rosso sangue: è appena visibile.

Infilo la mano in tasca, prendo le chiavi di casa e a fatica stacco quella medaglietta col numero che immagino lo identifichi. Penso a un elenco e a qualcuno che potrà decidere di lui. Quelle poche piccole foglie sembrano una rincorsa verso il cielo e mi viene da credere che gli slanci sono negli sguardi e non altrove.

Ora nel mio cartoccio c’è il numero dell’albero dalle foglie come mani.

Improvvisamente penso a Giulia e tutto implode. Mi vedo dentro e fuori da quel sacchetto mentre lo stringo con la mano sudata. Mi sento prigioniero e circondato dagli oggetti infilati, escluso dagli altri: un pezzo di stagno che si sta sciogliendo. Ho bisogno di oltrepassare il portone di casa e rientrare da me nella mia camera. Allungo il passo, corro. Mi precipito. Infilo le chiavi tremando e con rabbia sbatto tutte le porte, per essere sicuro di stare chiuso in camera.

Mi guardo attorno e sugli scaffali, messi ad altezza d’uomo, sento il silenzio dei trentanove sacchetti che sembrano riposare mentre adagio l’ultimo che ho ancora in mano. Mi spoglio e nudo mi getto supino sul letto. Stremato, guardo il viso di Giulia da me dipinto sul soffitto. Sono passati ormai quaranta giorni.

Dalla pupilla dell’occhio sinistro del disegno vedo brillare e muoversi i suoi occhi: sembrano sorpresi nel vedermi così. Le sue labbra semiaperte si muovono e sento a malapena la sua voce ripetere: “Ora sono sicura di amarti”. Urlo il suo nome e smarrito penso alla mia condanna: “Quanto ci vorrà ancora al suo arrivo e quanto alla sua partenza?”.

 


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