"Ulisse e il polipo" di Stefano Domenichini


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Ora, una delle lezioni fondamentali della letteratura per l’infanzia è che, se racconti una bugia, una propaggine del tuo corpo si allunga e diventa improvvisamente dura. Su questa nozione – alla quale, bisogna dirlo, il perverso Walt Disney ha dato molto più spessore rispetto a Comencini – si basa una delle teorie psico-attitudinali che vantano la maggiore applicazione pratica.

La teoria è la seguente: dire “come sei bella” a una tipa che sembra un guardrail ammaccato è una cosa eccitantissima, quasi come dire “ti amo” a una che vorresti sopprimere per quanto ti sta sulle palle (e probabilmente lo faresti se non fosse che poco prima le hai detto “come sei bella” e adesso sei lì imbesuito dalle variazione del flusso sanguigno).

Corollario diretto di questa regola è che dire “come sei bella” a una donna squisita può risultare frustante quasi come dire “ti amo” alla donna della tua vita. Molto ha a che fare con il potere, credo. Nelle ipotesi peggiori, con la sopraffazione.

Un altro esempio lampante di sopraffazione è quello dei pescatori di telline. A molti di noi sarà capitato di avere genitori che hanno riposto in loro aspettative alle quali, per fortuna, abbiamo abdicato. Ma uno solo ha subito la crudeltà di un padre che gli ha ritagliato un destino falso: “avrai…pescatori di telline”. E non solo perché poi uno crescendo si chiede che cazzo ci dovrebbe fare con questi signori, ma perché proprio i pescatori di telline non esistono, nessuno sa cosa siano. Il ragazzo, ormai trentenne, ha passato la vita a rovistare tra le maglie del commercio del pesce, a scandagliare inutilmente le nicchie più recondite della filiera ittica. E quando, disilluso ed emarginato, ha provato a liberarsi da un’educazione menzognera, si è sempre trovato davanti la faccia del padre (quella di allora, con i capelli alla Valderrama e il naso ad abbaino) che gli sussurrava struggente il suo oroscopo.

Questo per dire altro: che spesso abbiamo delle gabbie che imprigionano il nostro pensiero rendendolo limitato e trasferirle sui nostri figli è il più malvagio degli imbrogli. Poi c’è il polipo. Il polipo è un animale cui tutti vogliamo un sacco di bene perché ci hanno detto che non ingrassa. Essere ipocalorici, oggi come oggi, è una patente di santità. Conosco un tipo che si chiama ancora Bruno, e dunque negli approcci parte un po’ in salita, che batte metodicamente le discoteche dell’appennino e quando riesce a incanalare una qualche ragazza in una conversazione, sa che il punto di non ritorno è riuscire a portarla alla fatidica domanda: “parlami di te”. A quel punto lì, Bruno, non è che stia a menarla che fa il turnista in un’azienda del settore gomma-plastica con tutto quello che ciò comporta a livello di ritmi circadiani, no: lui tira fuori questa cosa dell’ipocalorico, “sono ipocalorico”, le dice e il risultato è garantito. Questo è quello che racconta il mio amico Bruno la domenica mattina, sul tardi.

Ma torniamo al polipo. Che tutti noi gli si vuole bene l’abbiamo già spiegato. Ora, questa sua fama dietetica ha fatto passare in secondo piano la sua vera natura, rovinando definitivamente la reputazione dei camaleonti. Quando si deve far metafora del camuffamento, dell’utilitarismo prensile, del trasformismo, si tirano sempre in ballo loro, i camaleonti (motivo per cui Riki Maiocchi se ne chiamò fuori per tempo, non reggeva più lo stress). Certo, essere dei tipi striscianti che appartengono all’ordine degli Squamati non li aiuta, ma il polipo è peggio.

Bellino? Non direi; se hai molta fame puoi teorizzare l’impianto stellare dei tentacoli, ma quel corpo molliccio e informe già di per sé può ispirare l’ascetismo gastronomico. Ma soprattutto, rispetto al camaleonte, il polipo è molto, molto più bastardo: non si confonde con la roccia, lui diventa la roccia e ha una voracità cieca, uno stomaco prodigioso. Qualunque cosa passi di lì e abbia la brillante idea di pensare “che bella roccia, mi appoggio un attimo a riposare”, woom: sparisce. Compresi i suoi simili, il polipo non fa sconti, è una bugia tentacolare, è natura polimorfica, è capacità di perdere e assumere tutte le forme.

Quando Ulisse (Odissea, V, 432-435) ne spiattella uno con furia ripetuta su uno scoglio non lo fa per ammorbidirlo e arricciarlo, lo fa perché è invidioso. E Ulisse è uno che se non racconta una balla ogni nanosecondo, gli sbiellano le sinapsi, gli si svaporizza la personalità in una nuvola di colore blu. Uno che, tanto per dire, con i Proci già ridotti in poltiglia, fuori da ogni pericolo, va a trovare il padre sul letto di morte e siccome gli scappa la perversione menzognera, si camuffa e fa finta di non essere lui. Nessuna tattica, nessuna necessità. Pura libidine.

Secondo Sant’Agostino, protettore contro gli animali nocivi e la tosse (ma se hai una semplice raucedine ti devi rivolgere a San Bernardino da Siena che è anche protettore dei pubblicitari e dei pugili), chi mente ha cuore doppio, ossia un doppio pensiero. Ulisse ha sclerotizzato talmente tanto la sua vena ballistica che, giunto all’età matura, gli è rimasto un solo cuore e un solo pensiero: quello menzognero.

Nei suoi inganni c’è uno stile congenito: Ulisse vuole abbracciare la realtà, circondarla, avvolgerla, conquistarla. Non combatte, arriva allo scopo in modo più sicuro, per via indiretta: fa sì che tutti pensino che la sua bugia sia l’unica salvezza.

E in più è avantissimo sui tempi: quando chiede a Circe di liberarlo dall’imbarazzante sembianza di un maiale, ne approfitta per un lifting e le domanda di farlo più bello e giovane di prima (Odissea, X, 395-396).

Un politico nato. Uno che, fate conto, si è fatto eleggere in qualche Parlamento e la famiglia l’ha lasciata a casa, che non si sa mai, l’opposizione, le elezioni anticipate, non ci lasciano governare e intanto giù di gozzovigli, intrallazzi e fattisuoi.

Che poi non è che andasse chissà dove. Il mondo conosciuto quello era e Ulisse alla fine giracchiava sempre lì intorno. Non è che incontravi uno e gli chiedevi “hai visto Ulisse?” e quello ti rispondeva “sì, l’ho visto sfrecciare su un razzo missile con circuiti di mille valvole”. No, Ulisse se ne stava lì in giro, sulla sua barchetta, a navigare di costa, tutto bello abbronzato.

Ogni tanto andava da Omero – che era ormai vecchio e pazzo – a lagnarsi con cose tipo: “ohi, che vita dura, come me ne tornerei volentieri a casa che ho lasciato una carriera ben avviata e una famiglia, se non fosse che devo spiegare a tutti che il viaggio non è la meta, ma il tragitto” e così via. L’unico che lo ha fatto veramente incazzare è stato il polipo, il suo doppio arrogante e silenzioso.

Poi c’è il bugiardo eroico, quello che si tuffa nella finzione per ristabilire la verità. Non gli è andata benissimo. Pensate a Montecarlo (posto tremendo, ma non infierisco perché se siete ciclisti probabilmente avete la residenza lì). Lungomare. Hotel affacciato sul lungomare. Un cartellone pubblicizza un concorso per sosia di Charlie Chaplin in un salone dell’hotel. Charlie Chaplin, quello vero, passa di lì e decide di partecipare, vuole arrivarci in fondo. Entra nell’hotel, si iscrive, sfila, si mette tranquillo in un angolo ad aspettare la proclamazione e l’effetto scenico che produrrà il suo annuncio. Invece arriva terzo. C’erano due che assomigliavano a Charlie Chaplin più di lui.


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