"Un racconto della mia adolescenza durante il periodo bellico (1943)" di Amalia Lilla Pezzi


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Il 25 Luglio e l’8 Settembre 1943, due date ravvicinate, che ci ricordano due ben noti avvenimenti :la caduta del Fascismo e l’armistizio sancito per volere del Re Vittorio Emanuele Terzo con le truppe alleate Anglo-Americane. Durante quell’estate perciò la guerra non fu più soltanto uno spauracchio lontano, ma un pericolo sempre più incombente man mano che gli alleati avanzavano, dirigendosi al Nord, dove il risorto Fascismo e i Tedeschi si preparavano ad affrontarli in un’ultima offensiva. Quotidianamente squadriglie di aerei ci sottoponevano a bombardamenti, che ci costringevano a correre nei rifugi o in aperta campagna; anche la linea ferroviaria, usata dai Tedeschi per il trasporto di materiale bellico era sempre più bersagliata dai caccia anglo-americani, per cui era assolutamente impensabile poterla usare come mezzo pubblico dai civili e men che meno dagli studenti.

Per tutti questi motivi fu chiaro che la ripresa delle lezioni il 1°Ottobre diveniva di giorno in giorno sempre più improbabile. Poi verso la metà del mese, non ricordo più in base a quali accordi, le scuole si riaprirono con mia grande gioia: sentivo infatti il desiderio, o meglio la necessità, di riprendere una vita normale dopo gli inquietanti avvenimenti dell’estate. La parola “Scuola”era diventata per  me sinonimo di normalità; poco importava se, per raggiungerla dovevamo,  le mie amiche ed io, inforcare le biciclette alle 7 e 15 del mattino e pedalare fino a Lugo ogni santo giorno e con qualsiasi tempo.   Non eravamo in molte ad affrontare quella quotidiana avventura, quando però giungevamo nei pressi di via Canalazzo,trovavamo ad attenderci un gruppo di amiche provenienti da Conselice e San Patrizio ;tutte insieme proseguivamo fino a Lugo.

Lungo  la strada quasi deserta non circolavano macchine, i Tedeschi le avrebbero requisite, viaggiavano solo baroccini e calessi, di cui restavano evidenti tracce lungo tutto il percorso.Che volate facevamo per giungere  al ponte di Sant’Agata, dove ci impegnavamo in una vera e propria gara per raggiungere la vetta prima delle altre …….poi, tutte insieme, ci precipitavamo giù per la discesa, senza pedalare, lanciando grida di gioia in quella velocità che ci inebriava e ci dava l’illusione del fantastico e dell’onnipotenza.

Non di rado, specialmente nelle belle giornate, le lezioni venivano interrotte dall’allarme aereo; se poi lo stato d’allarme si prolungava per più di un’ora, le lezioni per quel giorno finivano lì.  Riprendevamo tutte insieme la via del ritorno, senza troppa fretta, fino a quando una di noi lanciava una sfida -” Facciamo a chi arriva prima a quell’albero, laggiù in fondo ????” Immediatamente ci chinavamo sul manubrio come i corridori, pedalando con incredibile foga, come se avessimo il fuoco alle calcagna……e che risate per un nonnulla!!!!!

Giunte sul ponte di Sant’Agata, parallelo a quello ferroviario, così spesso preso di mira dagli aerei anglo-americani, ci piaceva fare un’ infinità di giravolte, fino a quando la testa non cominciava a girare,costringendoci a fermarci  prima di caderre a terra; se poi qualche adulto ci rimproverava per la nostra imprudenza, noi scoppiavamo a ridere e  qualcuna osava perfino rifargli il verso…….!  Oggi mi chiedo che fine avremmo fatto, se qualche aereo “in vena di scherzare”,  si fosse lanciato in picchiata su quel ponte e ci avesse segnalato la sua presenza con una potente mitragliata…….Povere sciocchi, avremmo pagato a caro prezzo quella nostra voglia di ridere e scherzare!!!!!!

In una giornata fredda ma soleggiata me ne tornavo a casa da scuola come al solito e  notai che la strada era deserta e stranamente silenziosa; quando giunsi nella piazza, scorsi uno schieramento di soldati tedeschi armati fino ai denti, e poco più in là, sostava una grigia camionetta militare coi finestrini ben sbarrati. Io passai nel bel mezzo della piazza sulla mia cigolante bicicletta da uomo, appartenuta a mio padre quand’era un ragazzo, un pezzo da museo quindi…….di foggia antiquata con grossi cerchioni di legno, cui si aggrappavano disperatamente dei copertoni consunti, pronti a scoppiare da un momento all’altro, mettendo a repentaglio il mio già precario equilibrio.  Mia madre che mi stava aspettando sul balcone di casa, col volto pallido e preoccupato, mi fece cenno di sbrigarmi.

Quando salii in casa appresi che in quella camionetta erano rinchiusi due giovani partigiani condannati alla fucilazione. Come mi angosciai a quelle parole e com’erano spaventati i miei famigliari !!!! L’avermi vista così piccola e indifesa passare in mezzo a quegli uomini armati diede loro, forse per la prima volta, una precisa idea dei rischi quotidiani cui andavo incontro per recarmi a scuola…..ma  forse era proprio la quotidianità del pericolo a renderci tutti così fatalisti!!!!

I DUE GIOVANI si chiamavano DINI e SALVALAI ed io fui, quasi certamente, una delle ultime persone che essi, da dietro i finestrini sbarrati della lugubre camionetta, videro in quella luminosa giornata: l’ultima della loro breve esistenza .


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