Pubblicato per la prima volta su Satisfiction nell’ottobre 2012
Taranto vecchia, all’alba. Mar Piccolo è a pochi passi. Le paranze attraccate in banchina. Una dominante azzurrina nell’aria, pervasiva quasi come l’odore di pesce e di risacca. Il Panificio Garibaldi, detto “Bobbò” dal nomignolo del suo padrone, è poca cosa, ma a quell’ora, in quel giorno imprecisato degli anni Novanta, doveva essere pieno come un uovo. Almeno a giudicare da quanta gente ha raccontato questa storia. Tutti – ovvio – giurando che erano lì. Tutta Taranto, doveva esserci quella mattina da Bobbò.
E in un certo senso c’era davvero tutta Taranto in quel locale angusto e buio, o almeno c’era un suo campione statisticamente rappresentativo. La Taranto media, ritratta però dai suoi due estremi, trovatisi gomito a gomito a respirare la stessa poca aria satura di odori, in un corto circuito affascinante e pericoloso. Da una parte i pescatori, in rappresentanza di tutti quelli che si alzano per lavorare quando fuori è ancora buio. Dall’altra i gaudenti, i nuovi vitelloni, i perdigiorno (e notte) la cui serata non è ancora finita.
Una medesima media matematica può risultare da elementi molto diversi. Se io e te abbiamo un pollo per uno, o se invece tu hai due polli e io mi puzzo dalla fame, le cose per noi due cambiano di parecchio. Ma la media è, in entrambi i casi, di un pollo a testa. La media, insomma, non spiega tutto. La differenza la fa anche un altro concetto, che in statistica si chiama moda, cioè lo scostamento dei singoli valori dal valore medio.
E la moda, nella sua accezione comune, c’entra anche in questa storia. È per moda, infatti, oltre che per mancanza di alternative, che discotecari e nottambuli si ritrovano qui per concludere le loro scorribande. Quello che altrove è il cornetto nel bar aperto tutta la notte, qui è un ruvido panino e una Raffo in un panificio di frontiera. Col sovrappiù del brivido del proibito, dell’accostarsi con occhio entomologico a quel microcosmo oscuro, temuto e segretamente invidiato, al di là delle colonne d’Ercole del Ponte Girevole. L’Isola di notte. La Taranto “bene” (ma se lo dice da sola) si concede un’eccitante walk on the wild side. Vuoi mettere dividere il banco dello zozzo panificio fuori da ogni prescrizione haccp con un rude pescatore analfabeta? Sai che bello raccontarlo in società, una volta ritornati nel confortevole bozzolo della città nuova?
Solo che ogni luogo ha le sue regole, e le regole di Bobbò sono rispetto per chi lavora, poche parole inutili e nessuna pretesa fuori luogo. Del resto è chiaro a tutti che non siamo al ristorante del grand hotel. A tutti meno che a uno.
Il tizio non ha nome, ma una fisionomia che a ogni nuova versione del racconto diventa sempre più nitida. Sembra di vederlo, con gli occhialini, il ditino pedante, e un accento quasi settentrionale, che poi è l’italiano corretto quando lo imita un tarantino che vuole prendersene gioco. Potrebbe essere, chessò, Michele l’intenditore di whisky. Un fessacchiotto. Un secchioncello. O un coglione, fate voi. O forse solo uno normale catapultato suo malgrado in un mondo per lui indecifrabile. Un mondo in cui pescatori, delinquenti, figli di papà, vagabondi, studenti, netturbini e gente di smaccata eleganza e dubbia moralità, trovano del tutto normale incontrarsi alle quattro di mattina in una bettola da angiporto consumando birra e panini con la mortadella.
“Un succo di frutta all’albicocca” la voce del tipetto risuona stridula al di sopra del brusio di fondo, azzerandolo con effetto immediato.
Bobbò, che non ha mai fatto la scuola alberghiera, blocca a mezz’aria il braccio che già aveva proteso in automatico verso il frigo delle Raffo. Guarda interdetto il tizio. Lo scruta, aggrottando le ciglia. Quel pizzarrone lo sta prendendo per il culo?
Nel locale continua ad aleggiare un silenzio western.
Lo scemo, anche lui, resta immobile, col fumetto che ancora gli esce dalla bocca. Dentro, quella frase irritante, che stonerebbe anche detta da Corto Maltese, figuriamoci da un minchiarile come lui. “Un succo di frutta all’albicocca”. Tutte quelle doppie, cacofoniche, schioccanti, stucchevoli, come se a pronunciarle fosse un bambinetto che scassa le palle con richieste fastidiose… Avesse chiesto una spremuta d’arancia, forse, avrebbe anche potuto sfangarsela. Ma così…
Bobbò, nel dubbio, si è chinato, scomparendo momentaneamente, verso un vano nascosto sotto il banco di cui nessuno sospettava l’esistenza. Non si vede cosa contiene, ma lo si può immaginare: ragnatele, vecchi stracci, qualche latta di alici scaduta. Infine l’uomo riemerge. Stringe una bottiglietta piccola, che nella sua mano da faticatore antelucano lo sembra ancora di più. Nella sua mano, anzi, non si vede affatto, capendosi che è una bottiglietta, e una bottiglietta di succo di frutta (ancora una cataratta di consonanti doppie, ma Bobbò le tace, e tutti gli altri con lui), solo da un dettaglio demodé: il tappo a corona bianco con sopra la bandiera di un paese esotico.
Bobbò cala la boccetta sul banco con gesto lento e definitivo. Il fondo di vetro fa un suono magro, così diverso da quello giusto e virile di una trequarti piena di nettare giallo a 4,7 gradi in volume. La differenza di suono equivale più o meno a quella di circonferenza toracica fra i due contendenti che si fronteggiano. Ed è comunque inferiore a quella di girovita. Pochi, infatti, i panettieri in perfetto peso-forma, a Taranto vecchia.
Il cazzone guarda la bottiglietta davanti a sé. È ricoperta da uno spesso strato di polvere, ma si vede comunque che si tratta della categoria merceologica da lui richiesta. Non, però, dell’esatta tipologia. Quella sull’etichetta, infatti, è incontrovertibilmente una pera.
Ora, qualsiasi uomo di mondo, a quel punto, avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco e si sarebbe accontentato del succo di pera. Ma qualsiasi uomo di mondo non sarebbe neanche arrivato a quel punto, non si sarebbe mai cacciato in quella situazione.
Il pisciaturo, invece, non solo ci si è cacciato, ma non si è neanche reso conto di quale sia, la situazione in cui si trova. Così, con aria piccata da lavoro-guadagno-pago-pretendo, protesta con quello che lui considera un pubblico esercente, ma che in realtà è il padrone di casa. Un padrone col grembiule unto e un’unghia del mignolo lunga e affilata come un coltello a serramanico, di cui nessuna persona di buon senso, qui dentro, metterebbe in discussione i pieni poteri.
“Scusi, questo è un succo alla pera. Io ne avevo chiesto uno all’albicocca”.
Bobbò assume un’aria vagamente ieratica. Ma non solleva alcun calice. Brandisce solo quella piccola bottiglia. Se la stringesse ancora un po’ ne spaccherebbe il vetro, e le schegge, per rispetto, non lo ferirebbero. Invece la sbatte sul banco, neanche tanto forte. Il suo viso, ora, non tradisce alcuna emozione. Con la mano la spinge verso il priso, e, definitivo, sentenzia:
“Bive, albicocca”.
Risate sguaiate da parte dell’uditorio. Bobbò li lascia fare per un po’, poi li zittisce con gli occhi. È il silenzio, infatti, l’umiliazione perfetta.
“Bive, albicocca”. Bevi, albicocca. Dove albicocca è complemento oggetto ma anche vocativo. Il guru del Panificio Garibaldi ha messo in chiaro chi comanda fra quelle quattro mura, trasformando per decreto in albicocca non solo la pera, ma anche lo sventurato che aveva osato chiedergliela. E minacciando implicitamente di affibbiare quell’appellativo poco onorevole a chiunque, da quel momento in poi, si fosse azzardato a disturbarlo con richieste ugualmente del cazzo.
“Bive, albicocca”: la customer satisfaction alla tarantina.