"La cartomante" di Lucio Figini


 

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Ad alcune persone vuoi così bene da non poter regalare neppure un abbraccio, senza superare la barriera che ti permette di restare in piedi. Così come un istante di emozione semplice non può restare visibile a un cuore non allenato. E io è da tempo che non mi alleno. Da quando mia madre se ne è andata senza che potessi conoscerla, lasciandomi un padre che non osavo amare troppo, per non cadere a pezzi, quando l’avesse seguita. Così ho perso entrambi, con la velocità di un battito d’ali. Leonardo e Sofia: i miei abbracci mancati.

Mio padre non amava prendere il caffè al bar. Quando era obbligato, non stringeva mai la tazzina, ma l’accarezzava. Infilava l’indice nel manico, appoggiava le labbra dalla parte opposta e ingurgitava a piccoli sorsi, con l’espressione di chi dovesse concludere un compito poco gradevole, ma con la consapevolezza che non gli rimanesse altro. Non rammento un amico, non una donna. Un solo impegno: i suoi amati cavalli di legno. Un sola passione: gli orologi.
Portava sempre i capelli corti e la barba incolta, era magro e nervoso, con una voce calda e cavernosa. Si portava dietro, da tempo immemore, un piccolo nodulo alle corde vocali. Era assediato dai libri, come se potessero portarlo tra le pieghe del tempo, per fuggire. O sfuggire. Se chiudo gli occhi non ricordo il suo viso, ma le mani, che ora sono diventate le mie, se non fosse per quella fede sull’anulare, che lui non ha mai tolto e che io non ho mai indossato.
Spesso crediamo di essere unici, che in tutto il mondo non ci sia un altro come noi, poi ci rammentiamo di un lontanissimo pomeriggio d’estate, quando nostro padre ci stringeva la mano, accompagnandoci a scuola, e scopriamo di essere solo l’eco di un ricordo. E quella mano diventa la nostra, gettandoci addosso una consapevolezza che non abbiamo chiesto.
Alcune vite si sopportano, altre si consumano e altre ancora si assaporano. Poi ci sono le vite regalate. Questo era mio padre, una vita regalata, una tazzina quasi vuota di caffè amaro. Ci aggiungi una serie infinita di zucchero, ma nulla potrà sconfiggere il retrogusto di bruciato. Perché alcuni caffè sono così, lasciano piccole tracce di fastidiosa sabbia nera, ricordi pesanti sul fondo, che ti accompagneranno sempre, pur nei migliori periodi della vita.
Una tazzina. L’aroma del caffè. Il ricordo di un padre. L’assenza di una madre. E io che non voglio cadere nel tranello di lasciarmi andare in pensieri tristi, solo perché Dio non la finisce di accanirsi su questa città. Da quando i tombini sono scoppiati e la merda ha invaso le strade, non è più la stessa. È iniziato tutto non più di una settimana fa, ma, questa volta, non ha smesso. Senza che scendesse una sola goccia di pioggia, dalle fogne si è riversato sul mondo di superficie un mare scuro, che stagna sull’asfalto. Senza motivo, senza preavviso.
Osservo le strade dal mio appartamento al terzo piano, con ancora la tazzina tra le mani, grattandomi la cicatrice sulla guancia: le luci, i tetti, le paraboliche che puntano al cielo.
Una luna infastidita, offuscata, ce la sta mettendo tutta per superare la coltre di gas, che il nuovo fenomeno ha provocato. Il “grande spurgo”, come lo chiamano i giornalisti, ha guadagnato la prima pagina dei quotidiani, creando non pochi problemi.
Ma non è l’olezzo di fogna che mi preoccupa. È che non trovo il ciondolo di mia madre. Milano può anche annegare nel buco del culo dell’universo, ma la mia testa è sull’unica cosa che mi rimane di lei. Quando chiudi gli occhi, ma non arrivi così distante da rammentare un viso, anche un semplice oggetto può fare tutta la differenza del mondo.
I lampioni illuminano uomini gnomo, che si muovono in inutili occupazioni. Stasera, la mia consisterà in un bel giro al Luna Park, perché da quassù la ruota panoramica ha il fascino di una terra antica. Forse questo mi calmerà, mettendo da parte il senso di colpa per non aver custodito, come avrei dovuto, uno dei pochi frammenti del mio passato.
Esco che sono da poco trascorse le nove.
Cammino per una città ancora fredda, nonostante dai tombini sgorghi il fetido fiato di un drago. Il Luna Park mi accoglie col sorriso di un venditore di fumo. C’è meno casino del solito: la merda non fa bene agli affari. Due mamme indossano stivali al ginocchio, di plastica lucida. Tengono per mano bambine che schizzano melma ovunque, ridendo a crepapelle. Le pozzanghere sono estinti giacimenti di petrolio. Qualche adolescente, con una bandana arrotolata sul muso, lotta con la sigaretta, che non vuole saperne di infilarsi in bocca. Ho la sensazione che se l’accendino cadesse mi ritroverei in una gigantesca pentola fumante, fuochi d’artificio sopra la testa e una gran puzza di maiale arrosto attorno.
Pochi uomini chiacchierano in disparte, osservando le mogli alle prese con le luci abbaglianti di uno dei più grandi mangiasoldi di ogni tempo, ognuno pensa a come sarebbe bello farsi la moglie dell’altro, ma le labbra buttano fuori solo parole a casaccio, di calcio e politica. Tutto ha avuto inizio più di un secolo fa, in una Coney Island, che da lì a poco si sarebbe chiamata New York, nella lontana America. Il primo parco dei divertimenti era stabile, poi via agli zingari del piacere effimero. E sulle orme delle fiere di mostri, donne barbute, indovini e improvvisati alchimisti, che vendevano il siero della giovinezza o una medicina che curava tutti i mali, il viaggio per le strade del mondo ha avuto inizio.
– Forza, amico, mi sembri un buon tiratore. Dieci euro venti tiri. Cinque centri, un cellulare.
È un ragazzo dai capelli biondi e la barba ben curata, altissimo e longilineo. La sua voce è squillante, quasi femminea.
Sorrido, perché in realtà non ho mai toccato un’arma da fuoco, vera o finta. Alzo la mano e faccio un cenno di saluto, sarà per il prossimo giro, o la prossima vita.
Mio padre mi portò una sola volta al Parco. Credo non amasse essere confuso coi giostrai itineranti. “Noi non siamo nomadi” diceva “la nostra giostra è la nostra casa. Non siamo zingari, regaliamo sorrisi ai bambini, non ci arricchiamo con loro”. Ed era vero, il mio stipendio non supera i mille euro al mese e, pure allora, le cose non dovevano andare meglio. “Ma ciò che abbiamo” continuava “è nostro. Delle mura di cemento dove dormire e solida noce invecchiata cinquant’anni che ci dà lavoro, non plastica o case mobili”.
Sulla sinistra, un martello rotante, alto quando un palazzo, volteggia nel cielo, accompagnato da urla, a pochi metri montagne russe di ultima generazione. Poi giostre di cui ignoro il nome e tante luci che ne tratteggiano i confini nell’aria.
Raggiungo la ruota senza fretta. La puzza di fogna m’infastidisce, nonostante la sciarpa tirata sul naso. Mi accartoccio nel giubbotto di pelle e salgo sulla ruota, solo.
Una ragazzina, che non supera i vent’anni, ritira il biglietto, puntandomi lo sguardo addosso, come fossi troppo vecchio per queste cose. È cicciona da far schifo, ma dai lineamenti piacevoli. Lentamente, a scatti, saltando una gondola, per equilibrare il peso, salgo in cielo, in una delle giostre più antiche del mondo, per la prima volta in tutta la mia vita. E mi accorgo di soffrire il dondolamento e l’altezza.
Ma il motivo della serata era proprio questo: essere un puntino sulla ruota illuminata.
Da qui ho la visuale dell’intero Parco. C’è una logica nella posizione delle giostre, un universo diviso a settori. Adolescenti ed eterni adolescenti in un angolo, vicino all’autoscontro, appesi alla speranza di qualche emozione, o di qualche ragazzina, bimbi appollaiati su giostre che vogliono assomigliare alla mia, una fila di macchinette mangiasoldi e un corridoio di edifici a quattro ruote, con all’interno ogni tipo di pupazzo e cianfrusaglia.
All’inizio quasi non ci faccio caso, poi lo vedo. Un gabbiotto che non c’entra nulla col resto, in un angolo poco illuminato, accanto a quello che credo sia un simulatore spaziale di pessima fattura. Un tendone rosso, con una scritta che s’illumina. Mi rammenta le insegne a intermittenza dei negozi cinesi che hanno invaso le strade della mia città, il regalo della millenaria cultura cinese.
LA C A R T O M A N T E.
Null’altro che dodici lettere luminose, fastidiosamente intermittenti. Niente fila alla cassa, anche perché non c’è alcuna cassa. È come se nessuno si fosse accorto della presenza. Vi sono luoghi che sembrano non esistere, se non per un tempo limitato. Non vi è alcun senso logico nelle sensazioni che provocano, è come se la razionalità non riuscisse a interpretare i segnali di una voce, che parte da noi e alla quale non è possibile dare risposta.
Mi fermo un attimo, prima di decidermi a entrare. Non ho paura, mi sento solo stupido. Scosto la tenda, con lo sguardo ipnotizzato dall’insegna e mi trovo davanti un’altra tenda, di un bianco tenue, questa volta.
– Prego, accomodati – una voce tiepida, come un vento primaverile in quella stanza improvvisata.
Fa caldo. Molto caldo. Troppo caldo.
– Siediti – una mano, un tatuaggio che sfugge dal polso, un anello di pietra azzurra sul medio, che indica un divano di pelle logora.
Ubbidisco, senza farmi domande, confuso da un odore speziato, che non riconosco. La mano accende una candela, regalando a quel luogo la magia che mancava. Poi un’altra e un’altra e un’altra ancora. Prima di allora avevo proseguito aiutato dalle luci esterne, che trafiggevano la tenda. È strano come la fiamma di una semplice candela, se accesa nel luogo e nel momento giusto, possa far sparire le luci del mondo di fuori.
Non manca nulla allo spettacolo. L’aroma che percepisco potrebbe anche essere hashish, per quel che ne so. L’arredamento: un tavolino, il divano e una sedia in vimini. Lei esce dall’ombra, si avvicina e mi lascia tra le mani un mazzo di Tarocchi. Ci mette un attimo e la mia pancia ha bisogno di più tempo per ascoltare ciò che sta succedendo, o anche solo per ascoltarsi.
I capelli sono lunghi e rossi, ma di un rosso che è difficile definire, quasi solido, con riflessi color vinaccia e porpora, che contrastano con la pelle quasi trasparente del viso. Non saprei regalarle un’età, neppure definirla come bella, l’unico termine che mi viene alla mente è inusuale. Ha il fascino di una Lolita appena invecchiata, in perenne adolescenza. Non è vestita come una cartomante, o almeno, non come mi sarei immaginato una cartomante. Cappottino bianco, dal quale escono due gambe esili e anch’esse tatuate. Mi chiedo se indossi calze disegnate. Occhi immensi, labbra appena carnose, rosse. Poco trucco.
Sorrido da solo, sarà il fumo che mi ha annebbiato il cervello.
– Non sono come m’immaginavi? – mi chiede.
Non è granché come lettura del pensiero.
– È che – rispondo – non sono mai stato da un’indovina. Non ho la pallida idea di cosa ci faccia qui.
Si siede di fronte al tavolo, accavalla le gambe e mi sento un cretino, perché mi regala il sorriso più pulito che io ricordi. Non riesco a evitare di infilare gli sguardi tra la sua pelle. Intravvedo, alla flebile luce della stanza, una sirena tatuata su un polpaccio e nell’altro una bambola accanto a un cuore o qualcosa di simile e delle carte, delle immancabili carte trafitte da una spada. Continuo a osservare i suoi disegni e ho la sensazione di non avere di fronte una persona, ma un spazio non del tutto pieno. Come se lei fosse luogo, dove i personaggi impressi con ago sul suo corpo interagiscono tra loro, creando un qualcosa di nuovo, come se lei fosse un viaggio onirico, o qualcosa di simile.
Ma è la sua coscia sinistra a farmi tornare su questa terra, fiori o foglie, colorate, un piede, una gamba e quella che sembra una corda, un serpente, un seno, una donna nuda, forse, perché non riesco a infiltrarmi sotto il vestito.
Non mi spingo oltre, anche se gli occhi non smettono di inseguire quel tripudio di colori e arte e pieghe e pelle e poesia e sogni, in un modo che non avrei mai pensato di apprezzare.
Lei se ne accorge e il mio sguardo si alza verso la sua testa. I capelli si confondono con l’ombra alle sue spalle, non coprono totalmente il collo, perché ora scendono su un fianco. S’intravede il tatuaggio di una immensa farfalla, che stende le ali sotto il cappotto, per nascondersi chissà dove. O per partire, per chissà dove. Gli occhi sono scuri e contrastano con tutto quel colore.
– Non lo sa mai nessuno – alza i gomiti dal tavolo e si spoglia, con un gesto troppo repentino. Indossa un vestitino corto e rosso, come i suoi capelli. Semplicissimo.
È magra. Decisa. Femminile. Mi rammenta la protagonista di un fumetto letto migliaia di anni fa.
– Cosa devo fare? – chiedo.
– Darmi del tu, per prima cosa. E tenere le carte tra le mani.
Mi metto comodo, col mal mazzo tra le dita, con leggerezza, quasi non volessi romperlo.
– Qual è il tuo nome? – chiedo.
– Samara.
Quel viso non avrebbe potuto indossare un altro nome.
– Ora dimmi qualcosa di te – aggiunge.
Sorrido.
– Ma non dovresti essere tu a…
– Sono una cartomante – m’interrompe – non un’indovina, c’è una bella differenza. Nessuna magia, solo l’umiltà di accogliere dei segnali, se l’universo avrà la cortesia di inviarceli.
Questa volta è ancora lei a sorridere. E io mi sento in colpa, perché il suo sorriso sa di buono.
– Mi chiamo Michelangelo Maltivoglio. Quarant’anni. Segno zodiacale Acquario. Posseggo una giostra di cavalli fissa, qui in città. Non sono sposato…
Mi fermo. Il suo sguardo m’invita a proseguire, ma non mi va di raccontare a una perfetta sconosciuta i miei ultimi avvenimenti, quanto mai inusuali.
– Non c’è poi molto altro da raccontare. La mia è una vita banale, come tante altre.
– Nessuna vita è banale – mi si avvicina, si siede accanto, preme la sua mano sulla mia e porta entrambe sulle carte. Poi con l’altra mano accenna al silenzio.
Conto mentalmente non più di trenta secondi. Secondi pesanti, lunghi. Che il tempo sia imparziale è la più grande bufala che esista, soprattutto mentre una ragazza così ti fissa negl’occhi.
– No. Michelangelo. Non so se tu sia o meno banale, ma la tua vita di certo, nell’ultimo anno, non lo è stata.
Le allontano le mani. Quanto è facile disabituarsi al contatto con una donna, anche se una perfetta estranea.
Prende dall’ombra una sedia e la posiziona di fronte alla sua, rispetto al tavolo. Me la indica. Ci sediamo uno negl’occhi dell’altra. Divisi da non più di un metro di formica, di un tavolino da campeggio. Lei posiziona il mazzo tra noi. Immobile.
– Questo è un mazzo di Tarocchi di Marsiglia.
Il mio sguardo è perso, come quello di un bambino davanti a un dipinto di Altman.
– Sono i Tarocchi che utilizzo quando mi fermo qui, nell’Italia del nord, dove hanno avuto origine. E dove il legame con la terra è più forte. Come vedi – indica le carte – un mazzo utile per leggere passato, presente e futuro. Credevo volessi sapere cosa stai per fare.
Faccio un cenno di assenso: – So cosa sono i Tarocchi, più o meno, anche se nessuno me li ha mai fatti.
– Noi utilizzeremo il metodo della Triade – prosegue – o meglio, una mia variante. Sicuro di voler continuare?
– Non è che io creda a queste cose – la mia risposta è istintiva.
– Appunto. Per cui ti ripeto: sicuro? – la sua voce prende un’intonazione diversa, quasi l’aria giunga da sotto il diaframma.
– Sì.
Non tocca le carte. Mi chiede di mescolare e di scegliere nove carte. Io stesso devo posizionarle di fronte a me, in tre file. Quella centrale orizzontale e le due laterali inclinate. Il tutto dura una ventina di minuti, perché ogni carta deve essere scelta concedendomi almeno un paio di minuti. E sono molti, da dedicare a un pezzo di carta.
Nessuno dei due ha detto una parola per tutto il tempo.
– Il centro è il tuo presente. Alla mia destra il tuo passato e alla sinistra il tuo futuro. Comprendimi bene, si parla di interpretazione, non di semplice lettura. E il tuo stato d’animo certo non aiuta.
– Mi interessa solo il passato – la interrompo.
Questa volta è lei che allunga le mani e per la prima volta tocca le carte. Solo quelle alla mia destra. Lentamente. Con enfasi.
La prima carta è la Morte, facilmente riconoscibile. Un abbozzo di scheletro con poca carne, gobba e con la falce in mano. Non mi fa paura, perché avevo letto da qualche parte che significa cambiamento. La seconda è una torre colorata e incasinata, con oggetti vari che cadono ai lati. È l’ultima carta che, per assurdo, m’inquieta: una orribile donna angelo, con una spada in mano, e ai suoi piedi un’altra donna e un uomo con grandi corna o orecchie, legati al collo. O qualcosa del genere.
– Che strano… – non stacca gli occhi dalle carte.
Lo spettacolo continua. E, in effetti, per un istante ne sono coinvolto.
– Sono tutte e tre carte oscure – conclude.
– Che significa?
– Non ti spiegherò in pochi minuti il significato degli Arcani. Posso solo dirti che si suddividono in due serie, una più chiara, che raffigura un cammino più riconoscibile e invece – indica le carte – una serie più allegorica e che ha a che fare con la psiche e lo spirituale che è in ognuno di noi. Detto diversamente: una serie più oscura che tenta di leggere la nostra ombra.
Non fa una piega. Anche se evito di dirle che non ho la più pallida idea di cosa stia parlando.
– Io non credo che esistano forze fuori di noi che possano decidere o interpretare cosa ci accade.
– E hai ragione. Infatti, sono nascose dentro di noi.
– Cosa dicono le carte? – taglio corto, perché, nonostante lei sia davvero incantevole, mi sto rompendo.
– Non è facile, quando non è presente neppure una carta chiara.
– Va be… Ho capito… – faccio per alzarmi. Ma lei mi blocca la mano.
– Hai subito una perdita, che ha portato a un mutamento nel tuo essere e che ancora ti condiziona. È accaduto quando eri piccolo.
Certo. Ho perso mia madre. Ma questa era facile. Tutti hanno perso qualcuno, anche in tenera età, un nonno, uno zio, un genitore o chiunque.
– E quella? – indico la torre.
Si fa seria.
– Ha diversi significati. Positivi o negativi. Nel migliore dei casi è un avvertimento.
– Avvertimento di cosa?
– Se fosse nel presente o nel futuro, significherebbe di non sfidare il destino, ma in questo caso – indica la posizione del passato – tutto diventa più complicato. Se fosse dritta vorrebbe dire che hai già raggiunto il punto di rottura e che l’equilibrio oramai spezzato della tua vita forse si sta ricostruendo. Ma…
La osservo. Sembra più vecchia ora. S’intravedono piccole rughe di fianco agl’occhi.
– È capovolta – continua.
Non riesco a sostenere il suo sguardo.
– Ma non è solo questo. Deve essere letta in relazione alle carte che le sono vicine, per comprendere se il suo significato è positivo o negativo, per quanto positivo o negativo sia una nostra accezione. Il tuo passato è oscuro, per me, per te e forse persino per l’universo che dimora dentro di te.
Che sorpresa. Ora sta solo a vedere quanto mi costa questa buffonata.
– Ok. Ti ringrazio. Tutto molto interessante…
– Mi spiace, ma non è ancora finita. Questa carta… – indica l’ultima.
Mi accorgo che in piccolo c’è scritto: Le Diable. Almeno è nel verso giusto, penso.
– È il diavolo – continua – e in questo verso assume un significato decisamente negativo.
Come volevasi dimostrare.
– Nessuna buona notizia, a quanto pare – provo a sorridere, ma non mi riesce troppo bene.
– L’interazione fra loro può avere molti significati, ma di certo evidenzia che il tuo passato condizionerà ancora il tuo futuro. E non è detto in modo positivo. L’ultima carta, in particolare, mi dice che si è appena concluso un periodo della tua vita dove i vizi hanno fatto da padroni. È la carta della passione, della follia, dello sconvolgimento. E, appunto, dei vizi che rendono schiavo l’uomo.
Sei un immorale vizioso, Michelangelo, o almeno lo sei stato, non ci voleva una seducente cartomante a dirtelo. Oltretutto, chi non lo è, oggi come oggi?
Mi alzo e tiro fuori il portafoglio, sperando di avere abbastanza euro.
– Un euro – mi dice.
Il mio sguardo sul suo palmo aperto.
– Non scherziamo. Quanto ti devo?
– So che questo sconvolge le tue convinzioni, ma con quelle carte non voglio nulla di più di un euro.
Sorrido a una serata diversa. Ragionandoci un poco, quello che ho udito è solo un mare di luoghi comuni e frasi fatte, un mare di stronzate. Cerco l’euro in tasca e lo appoggio delicatamente sul tavolo. Ma lei mi precede e lo riceve direttamente dalle mie dita. La sua pelle è calda e soffice e mi chiedo quanto i miei vizi rimarranno nel passato o se usciranno ancora alla luce.
Con fatica la saluto, perché, nonostante tutto, non vorrei andarmene. Ma non supero la prima tenda bianca che le sue parole mi raggiungono. Appena sussurrate.
– Non preoccuparti, non l’hai perso. È solo caduto ai piedi del letto.
Mi volto, ma sono solo. Non insisto oltre, perché so perfettamente che intende il ciondolo di mia madre. Oltrepasso quella lurida tenda con meno certezze di quando sono entrato. E uscire da un incontro con uno sguardo meravigliato sulla faccia, è quanto di meglio mi possa ancora capitare.

Perché alcune persone non ti lasceranno mai. Ti entrano sotto la pelle, viaggiano coi capillari, come una motivo che non la smette di assediare cuore e stomaco, rammentandoti che non sei altro che l’insieme degli addii di ogni incontro.
Ed è solo l’inizio.


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