Sorgeva l’alba di un giorno d’inverno quando l’uomo entrò in una vecchia osteria, seguito da sei donne, tutte in evidente stato di gravidanza. L’oste guardò con occhi già stanchi e arrossati l’insolita compagnia. “Tutte incinte” pensò. E, invano, cercò di carpire il volto dell’uomo, nascosto, com’era, dal cappuccio di un nero mantello e si domandò cosa diavolo volessero a quell’ora.
“Che cosa possa fare per lor signori?”.
“Niente che vi costi fatica, oste!” e, così dicendo, l’uomo estrasse dalla bisaccia una scacchiera di legno d’ulivo, la depose sul tavolaccio e iniziò ad allinearne i pezzi nell’ordine voluto dal gioco. Poi, con voce di chi abituato non è a sentir repliche, aggiunse: “Che il fuoco nel camino sia ben vivo, che ho il gelo nelle vene. E questa è la mercede”. Così dicendo gettò a terra, nei pressi del camino, tre monete all’oste sconosciute. Ma che subito egli intuì esser d’oro e che raccolse con la mano destra mentre già con la sinistra poneva al fuoco un ciocco d’acero.
Le donne, liberate dai loro mantelli, si disposero attorno al fuoco vivo, mentre l’uomo già fissava la scacchiera.
“Sono pronto!” la voce era dura.
“Eccomi”, rispose una di quelle, prendendo posto di fronte a lui. Era giovane e bella, di quella bellezza florida e pacata propria delle donne incinte.
L’avversario abbassò il capo sulla scacchiera: “A voi i ‘bianchi’”.
Ebbe così inizio la prima partita.
Sofia, così si chiamava la giovane, attaccò subito di cavallo e continuò sempre attaccando con la disperazione di chi si sente perdente e vuol togliersi un peso.
Nella foga non si avvide della ragnatela che il “nero”, difendendosi, tesseva.
E il contrattacco non tardò: per salvare la torre il “bianco” perse un alfiere e poi, per proteggere il re, perse la regina.
La donna via via sembrava piegarsi sotto il peso della sconfitta. Il viso si intristiva ad ogni mossa e gli occhi chiedevano pietà.
“Scacco al re… scacco al re… matto!”. Con nessuna esultanza.
Sofia si alzò. Adesso piangeva sommessamente, tornò vicino al fuoco aggiustando istintivamente le pieghe sul davanti del vestito, un vestito vuoto e troppo ampio, ridicolo sul ventre, ora, stranamente, quasi rientrante per la sua magrezza. Sedendosi, Sofia si piegò in due, tanto che la fronte le toccava le ginocchia. Una mano gentile cercò di consolarla carezzandole i capelli.
La scacchiera era di nuovo pronta: ora toccava a Caterina. Ella da tempo si preparava nelle lunghe serate mentre sentiva crescere in seno quell’essere, e per lui sognava e non di rado il nascere del sole spuntava su di una notte insonne.
Decise di impostare la partita sulla difensiva, sperando di fiaccare la resistenza dell’uomo e, intravedendone la possibilità, passare poi all’attacco. Mosse il pedone, quasi con cautela. E ogni mossa successiva fu studiatamente lenta e ponderata: ogni pezzo difeso per quanto possibile. Un gioco noioso, forse, ma Caterina avvertiva di non voler e non poter perdere.
Il “nero” non manifestò insofferenza a questo tipo di impostazione: mosse invece i suoi pezzi con celerità, senza titubanze apparenti.
La partita durava già da oltre tre ore, per buona parte dovute alla lentezza della donna, quando l’uomo propose una sosta per il pranzo: “Oste, portaci del cibo, purché di sapore e fa sì che a lamentarci non s’abbia!”. Nel profferire queste parole si tolse il mantello e coprì alla vista la scacchiera con i pezzi rimasti.
“Agli ordini, messere. Posso lor servire minestra d’orzo, rinfrescante, per le signore, dato lo stato. Brodo di maiale, roba di casa. Arrosti di montone, cosce di vitello che sta cocendo or ora. Lascio a lor signori giudicare. Nel frattempo porto del vino rosso, se a loro aggrada”.
“Chiacchierone, tieni!”, e comparvero nuove monete d’oro che, altrettanto velocemente scomparvero nelle saccocce dell’oste.
Durante il pranzo nessuno parlò: ci fu soltanto qualche sguardo d’intesa preoccupato, tra le donne.
Sofia neppure assaggiò il cibo e tenne per tutto il tempo le mani aperte sull’ampia gonna.
Caterina guardava al nero mantello come ad un pensiero fisso.
L’uomo fu l’unico che parve godere del cibo e del vino.
Al momento giusto l’oste sparecchiò veloce, né si preoccupò se avessero gradito le vivande. Pagato l’avevano e tanto gli bastava.
La partita stava riprendendo.
L’uomo scoprì la scacchiera e, spostando un alfiere lungo tutto il campo, sussurrò con un ghigno: “Scacco matto!”.
“Non può essere vero, no!” pensò Caterina, ma subito si rese conto della sconfitta.
Non pianse, ma un leggero tremore la scosse e le mani cercarono il ventre che le si svuotava. Il ventre e il cuore.
Soffrendo, adesso diventava donna, non allora!
Pensò ad una reazione, pur non sapendo quale, ma continuò stringendo la stoffa della sottana.
I pezzi già allineati attendevano una nuova partita, quando si aprì la porta della locanda ed entrò una donna.
“Jesus, un’altra giumenta gravida!” pensò l’oste esaminando il grembo della nuova venuta.
“Signore” disse la donna rivolgendosi al giocatore “vorrei cimentarmi nel gioco che vedo da voi preferito”.
“Con sommo piacere. Qual è il vostro nome, o sconosciuta?”
“Vitaliana, ma più brevemente mi chiamano: Vita. Posso ora sapere il vostro?”.
“Se sconfitto io uscirò, potrete chiederlo, se vinco da voi lo capirete. A voi la prima mossa”.
“No, che a decider sia la sorte” e serrò in ciascun pugno un pezzo di colore diverso.
“La destra”.
“Il bianco a voi, messere!”.
La calma che mostrava stupì le altre donne, ora più che mai interessate alla tenzone.
E dopo venti mosse, l’uomo già soffriva la disperata situazione: lo si vedeva come si vedeva negli occhi della donna tutta la risolutezza di chi vuole superare una prova definitiva.
La mano dell’uomo, prima così decisa, ora vagava come un pendolo sulla scacchiera.
La situazione divenne presto insostenibile.
Ormai la fine si avvicinava: l’abile giocatrice, che aveva ora il tratto, era in grado di dare matto in sole tre mosse.
L’uomo accettò la sconfitta facendo cadere il suo re e disponendolo in maniera orizzontale sulla scacchiera.
Vita sorrise alle donne ora in piedi attorno a lei, prese per mano le due sconfitte e, seguita dalle altre, uscì dal locale, lasciando l’uomo nel suo nero mantello vuoto.
Fuori era già notte e la luna piena, come dice il poeta, invitava a vivere l’amore.
Luna piena,
Notte serena.
Quarto di luna,
porta fortuna.
Luna crescente,
cuore ardente.
Luna calante,
notte da amante.